Da Arafat ad Abbas, la guerra americana dei veti e dei visti contro i palestinesi
Da Arafat ad Abbas, la guerra americana dei veti e dei visti contro i palestinesi
Da Striscia Rossa, 2 Settembre 2025
Nel novembre 1988, in piena Prima Intifada, il governo USA guidato da Ronald Reagan negò il visto a Yasser Arafat, invitato a parlare all’Assemblea Generale ONU a New York. La decisione fu presa dal Dipartimento di Stato, guidato dal Segretario George P. Shultz (1920–2021), economista di formazione e veterano della Seconda Guerra Mondiale. [1]
Prima di guidare la diplomazia americana sotto Reagan, era stato Segretario al Lavoro, Direttore del Bureau of the Budget e Segretario del Tesoro. Rappresentava il pragmatismo e l’approccio analitico della politica estera statunitense, in continuità con la tradizione di Henry Kissinger, architetto invisibile dei grandi equilibri internazionali degli anni ’70. [2]
Shultz operava in un contesto in cui pressioni politiche pro-Israele, sostenute da lobby negli USA, influenzavano le decisioni diplomatiche. Il visto fu ostacolato anche dall’ambasciatore USA all’ONU, Charles Lichenstein (1926–2004), diplomatico veterano e analista esperto di Medio Oriente, noto per il suo fermo sostegno alle posizioni israeliane nelle Nazioni Unite.
Quando Reagan negò il visto ad Arafat ma l’Onu spostò la sede dell’assemblea
La motivazione ufficiale fu il legame di Arafat con il terrorismo internazionale tramite l’OLP, considerata dagli USA un’organizzazione terroristica. Dietro le quinte, le pressioni politiche furono intense: Israele e lobby pro-Israele negli USA non volevano che Arafat avesse accesso a una piattaforma internazionale di legittimazione. L’obiettivo era impedire qualunque passo verso uno Stato palestinese.

La decisione fu talmente controversa che, in una mossa senza precedenti, l’ONU spostò l’intera sessione a Ginevra, permettendo comunque al leader palestinese di pronunciare il suo discorso. Un episodio che mise in luce l’uso dei visti come arma politica e la capacità dell’ONU, in casi eccezionali, di garantire il diritto dei popoli a essere ascoltati.
Da Arafat a Mahmoud Abbas: i visti usati come armi politiche
A distanza di 37 anni, lo scorso 29 agosto 2025, il Segretario di Stato degli USA Marco Rubio ha revocato i visti a Mahmoud Abbas e a 80 delegati palestinesi, impedendo loro di partecipare all’Assemblea Generale ONU a New York (4–23 settembre). La motivazione ufficiale include preoccupazioni per la sicurezza nazionale e presunti legami con il terrorismo. Il Dipartimento di Stato ha anche citato il rifiuto dell’Autorità Palestinese di riconoscere la leadership statunitense nei negoziati come ostacolo alla pace.
In una nota del dipartimento di Stato si legge: “Prima che l’OLP e l’Autorità Palestinese possano essere considerate partner per la pace, devono ripudiare sistematicamente il terrorismo, incluso il massacro del 7 ottobre”. E più avanti: “L’Autorità Palestinese deve inoltre porre fine ai suoi tentativi di aggirare i negoziati attraverso campagne internazionali, inclusi appelli alla CPI (Corte penale internazionale), e sforzi per ottenere il riconoscimento unilaterale di un ipotetico Stato palestinese”. [3]
Il messaggio appare formale e diplomatico, ma in filigrana contiene un’imposizione coercitiva: significa che finché l’Autorità Palestinese continuerà a intraprendere azioni autonome – dagli appelli alla Corte Penale Internazionale per difendersi dall’occupazione, dalla colonizzazione e dal furto di terre, fino ai tentativi di ottenere riconoscimenti unilaterali – la sua voce internazionale resterà sospesa. Un meccanismo di ‘controllo’ che ricorda le dinamiche di ‘protezione condizionata’ tipiche delle logiche dei clan.
Dal potere ‘carsico’ al potere ‘strutturato’. Dagli Usa una raffica di violazioni internazionali

La revoca dei visti ha suscitato reazioni internazionali, con l’Unione Europea e le Nazioni Unite che hanno espresso preoccupazione, sottolineando l’obbligo degli Stati Uniti, in quanto paese ospitante, di garantire l’accesso alle sedi delle Nazioni Unite. Nonostante questo, nessun provvedimento effettivo è stato intrapreso.
Come nel 1988, la diplomazia statunitense si allinea agli interessi israeliani. Con una differenza: mentre un tempo il potere delle lobby era carsico, oggi è strutturato, alla luce del sole, intreccia economia, diplomazia e ideologia.
In questo quadro, la scelta dell’Amministrazione Trump è l’ennesima conferma di come la politica estera americana, dalla Guerra Fredda a oggi, sia stata progressivamente subordinata a poteri transnazionali, lasciando Israele libero di perseguire politiche militari e territoriali sempre più aggressive, in violazione del diritto internazionale e umanitario, senza timore di restrizioni o conseguenze.
Violazioni del Diritto internazionale e paralisi dell’ONU
La scelta di collocare la sede delle Nazioni Unite a New York conferisce agli Stati Uniti un vantaggio politico strategico non trascurabile, usato per esercitare pressione sui leader stranieri. I casi di Yasser Arafat nel 1988 e Mahmoud Abbas oggi lo dimostrano: strumenti amministrativi diventano armi politiche.
Secondo il Diritto internazionale, le delegazioni devono godere di libertà di movimento e di accesso alle sedi internazionali, come stabilito dalla Convenzione di Vienna del 1961. L’uso dei visti come strumento coercitivo viola, dunque, il principio di libertà diplomatica, con impatti diretti sulla legittimazione politica e sul diritto dei popoli a essere rappresentati.
Un ulteriore elemento è la paralisi dell’ONU che avrebbe gli strumenti per agire e non vi fa ricorso. Uno di questi è la Risoluzione 377 A, nota come la Uniting for Peace Resolution, adottata nel 1950 durante la guerra di Corea per consentire all’Assemblea Generale di aggirare i veti del Consiglio di Sicurezza in caso di minaccia alla pace.
In teoria, questo strumento avrebbe potuto garantire l’adozione di risoluzioni urgenti come le reiterate richieste di cessate il fuoco e, oggi, permettere la partecipazione palestinese. In pratica, non è mai stato usato in 23 mesi, nemmeno evocato: una “dimenticanza volontaria” che rivela la subordinazione dell’ONU agli equilibri di potere.
Europa, ONU e il nuovo ordine. L’Europa balbetta e l’Onu è paralizzato
La storia si ripete, con poche differenze. Arafat e Abu Mazen: due leader, due epoche, due facce della stessa medaglia. L’obiettivo è sempre lo stesso: ostacolare il riconoscimento dello Stato palestinese. E in entrambi i casi, la libertà diplomatica viene piegata agli interessi strategici di pochi.

Così, mentre l’Europa balbetta, rendendosi sempre più complice del genocidio in corso, incapace di varare un solo provvedimento contro Israele – continuando invece a emanare sempre più grotteschi pacchetti di sanzioni contro la Russia -, lo Stato ebraico, con l’appoggio degli USA, il “mulo stupido di Israele”, come li definiva l’ex consigliere per la sicurezza nazionale durante la presidenza di Jimmy Carter, Zbigniew Brzezinski [4], procede nel suo progetto di annientamento dal nome biblico.
E ieri, come già accaduto a maggio 2025, in occasione del ‘Giorno di Gerusalemme’, il governo di Netanyahu è tornato a minacciare l’Europa e gli Stati che si preparano a riconoscere la Palestina “Non riconoscete la Palestina, o annetteremo la Cisgiordania”.
La lezione è chiara e amara: la storia non è più maestra. E del Diritto non resta altro che la legge del più forte. I poteri transnazionali decidono chi vive e chi muore, chi parla e chi tace.
I governi, Europa in testa, recitano da esecutori. L’ONU, paralizzato ed esausto, non riesce più a garantire diritti e pace a nessuno. In mezzo a questo deserto, fra strumenti legali ignorati, diritti internazionali e umanitari calpestati e veti reiterati, il prezzo più alto lo paga il popolo palestinese, oggi sull’orlo di una nuova “soluzione finale”.
Mezzo milione di loro, donne, bambini e anziani, secondo l’ONU sono destinati a morire di fame entro la fine dell’anno, intrappolati nel più brutale e inumano degli assedi, imposto da un governo suprematista, e attuato senza pietà dal suo esercito.
Note
1 – George P. Shultz (1920–2021), nato a New York in famiglia ebreo-tedesca immigrata negli Stati Uniti, ha costruito la sua reputazione grazie a una grande competenza in economia e politica estera lo portò ad essere nominato Segretario di Stato sotto Ronald Reagan (1982–1989), ruolo in cui ebbe un peso enorme nella Guerra Fredda e nelle relazioni internazionali.
Shultz guidò la diplomazia statunitense nel periodo più teso della Guerra Fredda, negoziando accordi chiave con l’URSS (START I) e gestendo crisi internazionali in Medio Oriente e Asia. Fu lui a supervisionare molte delle decisioni sul Medio Oriente, tra cui le politiche americane verso l’OLP e la Palestina. Conosciuto per il suo pragmatismo, abilità negoziale e approccio analitico, grazie alla sua formazione economica e il background accademico, fu in grado di combinare strategie finanziarie e politiche nei dossier internazionali, incluso il Medio Oriente.
2 – Henry Kissinger, come Shultz di origini ebraico-tedesche, fu consigliere per la sicurezza nazionale (1969–1975) e Segretario di Stato (1973–1977) sotto Nixon e Ford. Rappresentava il vero “architetto” della politica estera americana, una sorta di “Mazzarino moderno”, capace di tessere alleanze e manipolare equilibri internazionali dietro le quinte.
Quando Shultz divenne Segretario di Stato sotto Reagan (1982–1989), arrivò dunque in un ambiente diplomatico plasmato dalle precedenti strategie di Kissinger: equilibrio tra pragmatismo economico, Guerra Fredda e gestione dei dossier complessi del Medio Oriente.
4 – Zbigniew Brzezinski, ex consigliere della sicurezza nazionale del presidente Jimmy Carter, nel corso si una intervista del 2012 disse “Gli Usa sono diventati il mulo stupido di Israele”, https://arabamericannews.com/2012/12/01/Brzezinski-US-won%E2%80%99t-follow-Israel-like-a-stupid-mule/
Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/free%20image/
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