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3.segue – La terza tappa del mio viaggio nell’edilizia pubblica ferrarese mi porta a confrontarmi con il direttore di Acer Ferrara Diego Carrara. Una premessa va fatta: avere un’intervista in quest’ambito non è cosa scontata. Da parte degli addetti c’è spesso ritrosia nel parlare, reticenza, uffici stampa che fanno da filtro… Questa volta è andata diversamente: lo stesso Carrara mi ha chiamato per chiedere un incontro, giovedì, ore 16, sede Acer.
Giungo in zona in netto anticipo, io che sono ritardatario cronico, non volevo far magre figure, ma sono riuscito ad arrivare comunque in ritardo all’incontro, una sola mia scusante: parcheggiare è stato arduo. Dopo pochi minuti di attesa mi accoglie Carrara ed entriamo nel suo studio: un’ampia sala, alla mia destra una scrivania, sulla parete svariati volumi, di fronte un tavolo con delle sedie. Ci accomodiamo l’uno davanti all’altro. E’ il mio interlocutore a rompere il ghiaccio: un po’ di chiacchiere su di me (sì, l’intervista si è capovolta), un po’ sul calcio, il basket (non sono un calciofilo, quindi ho deviato la discussione su lidi a me noti), il tutto per creare un’atmosfera meno formale. Ma poi ci si addentra nella vera intervista, e si ristabiliscono i ruoli.

Diego Carrara
Diego Carrara

Si parte con qualche parola e precisazione sulla conferenza naturalmente: “L’obiettivo della giornata – dice Carrara – era quello di rendere noti al territorio gli interventi di edilizia pubblica e l’importanza della riqualificazione urbana. Noi abbiamo paura che il tema della riqualificazione, un gran tema, di prospettiva per il futuro, sia sacrificato sull’altare della ‘mancanza di risorse’. In Italia mancano le risorse per far tutto, ma, primo non è così, secondo bisogna decidere se si vuole dare priorità a questo impegno per la riqualificazione della città”. E ancora sulla conferenza del 3 febbraio: “Era una giornata dedicata solo a questa parte della nostra attività, su ciò che ha fatto Acer in città e in provincia. Soprattutto sul perché non costruire nuovi pezzi di città, ma recuperare quello che c’è”.

Il tono è sicuro, di chi ha esperienza e vorrebbe parlarne, noto anche una certa voglia di darmi quanti più dati possibili, persino di tipo ‘storico’, e infatti parte della discussione iniziale si incentra sugli inizi dell’edilizia popolare italiana, dai primi del ‘900 con Tupini, passando per la legge Fanfani, fino all’Ina-casa per arrivare ai giorni nostri. Parla anche della storia di Ferrara sotto questo aspetto: “La città si sviluppa col petrolchimico, la Montecatini, unita all’agricoltura producendo fertilizzanti. A Barco e Pontelagoscuro si trasferiscono molte famiglie operaie, soprattutto marchigiane, per questo lì ci sono molti edifici popolari. Perciò abbiamo attuato un processo di riqualificazione in quei luoghi, è un piano che va avanti da 20 anni, per colpa della discontinuità degli investimenti e finanziamenti.” Il tema della mancanza dei fondi sarà una parte centrale della nostra conversazione. “Alla fine degli anni ’90 – prosegue Carrara – finiscono i fondi ‘Gescal‘ (Gestione Case per i Lavoratori, ndr), uno strumento che consentiva, attraverso prelievi in busta paga a dipendenti e datori, di costruire alloggi per i lavoratori. Un meccanismo del fisco che ha permesso di mantenere un sostanziale contributo a questo tipo di edilizia, creando alloggi riscattabili nel tempo dai possessori”.

La parte storica qui si ferma, e il direttore lancia la prima accusa: “Oggi in Italia ci sono un numero di alloggi popolari che variano tra i 900.000 e un milione, circa un 3% del costruito, un numero minimo se guardiamo ad altri Paesi europei, dove si arriva anche al 10%”. Inizia ad aprirsi, e si passa da un lato ‘tecnico’ ad un lato più ‘umano’ della questione, affermando che “ora il fabbisogno abitativo si è trasformato: si è passati da alloggi per i lavoratori, ad alloggi per i meno abbienti”.
Un’altra ‘accusa’ riguarda la modalità di gestione delle case popolari in passato: “Una parte delle case, che a mio parere doveva rimanere in affitto, è stata venduta. La casa in questo modo è divenuta strumento per aumentare il proprio patrimonio: chi non riusciva ad aumentare la propria ricchezza in altri modi, lo faceva così, acquistando case per poi rivenderle, attraverso la speculazione immobiliare”. Fa, su questo tema anche una precisazione su alcune statistiche, dicendo che “in Italia risulta che l’80% delle persone ha una casa, ma ciò è sbagliato: c’è chi possiede più case, e chi invece nessuna. Questa media andrebbe rivista”. E sempre sul tema della speculazione dice: “Ci sono molte abitazioni non occupate, soprattutto nella zona dei Lidi. In quei posti si è assistito al fenomeno della ‘seconda casa’, un’esigenza che ha determinato una fortissima cementificazione. Ci sono molte case che vengono utilizzati per brevissimi periodi. Un costruito non usato che ha finito per devastare anche il territorio. Anche per questo oggi parliamo di riqualificazione invece che occupare nuovo suolo”.

Dopo questo lungo dialogo sulla situazione storica e attuale, non posso far a meno, vista la mia scorsa ‘passeggiata domenicale’, di fare una domanda nello specifico sui due studentati, quello di via Putinati e quello di via Darsena, costruito da un privato con un cospicuo contributo di finanziamenti pubblici a fondo perduto e che ora è vuoto e inutulizzato. Noto persino un cambiamento di tono, più triste: “L’operazione del nuovo studentato (quello in Darsena, ndr) non è stata in linea con i bisogni di sviluppo della città. Lo abbiamo gestito per due anni, cercando di tirarci fuori qualcosa di buono e non ci siamo riusciti perché i costi per mantenere quella struttura sono alti e rischiano di essere scaricati sugli studenti. L’idea dello studentato in Putinati, che invece funziona bene, nasceva per dare una risposta alla grande mole di studenti che facevano, e fanno, domanda di alloggio, Domanda che supera l’offerta (abbiamo 54 posti in Putinati), proprio questo credo abbia portato alla costruzione di uno studentato ex-novo in via Darsena. Penso che si potesse fare in altro modo. Le cose sappiamo poi come sono andate. Credo che Ferrara abbia spazio per piccole residenze universitarie, con meno impatto visivo”. Quando lo studentato fu dato all’Acer in gestione, il presidente era Ivan Ricci, e proprio su di lui il direttore chiarisce: “È un capitolo chiuso. Ivan non ha avuto nessuna responsabilità anzi, ha dato un contributo per far sì che l’Acer potesse continuare a lavorare al meglio negli anni. Quello che è successo ha coinvolto alcune persone che lavoravano qui, e che oggi sono fuori. Pubblichiamo da qualche anno tutti i bilanci, proprio per dare la massima trasparenza. Ogni singola spesa, ogni singolo euro è sul nostro sito internet piuttosto che pubblicata, così da rendicontare a tutti il nostro operato. Addirittura in tutta la vicenda, l’Acer si è costituita parte civile”. Capitolo chiuso quindi sul caso giudiziario che qualche anno fa ha coinvolto l’ex presidente Ricci e alcuni dipendenti Acer, con accuse che andavano dalla concussione alle mazzette.

Lasciato questo argomento, torniamo sul tema della vita nelle abitazioni Erp, ossia di edilizia residenziale pubblica: “L’Acer fa ogni due anni dei sondaggi per rilevare la qualità e la soddisfazione degli occupanti (ci tiene a sottolineare che usa questo termine con accezione del tutto positiva, ndr). Da questi ci risulta che dobbiamo migliorare sulle manutenzioni, si fanno degli errori, ma la percentuale delle lamentele è sul 5%, praticamente una ‘lamentela fisiologica’ ”.
Tornando su Barco, gli chiedo cosa pensi lui sulla qualità dell’aria e mi dice che “il problema del petrolchimico e di quello che il cittadino percepisce è delicato. Noi non abbiamo elementi per mettere in dubbio la qualità dell’aria come fa qualcuno, anche perché l’Arpa (Agenzia Regionale Protezione Ambientale dell’Emilia-Romagna) ha fatto molti controlli che non hanno segnalato situazioni critiche. Qualcuno ha addirittura affermato che i nostri alloggi a Barco avessero delle emissioni dannose, ma abbiamo effettuato delle indagini chimiche che hanno smentito il tutto”.
Sul tema ambientale però ci tiene a precisare la posizione dell’Acer: “Ci impegniamo sul fronte dell’inquinamento, cercando di innovare le tecnologie di riscaldamento, puntando soprattutto sul centralizzato e proprio gli alloggi di Barco sono stati recuperati con questi criteri. Migliorare questo quartiere sotto vari aspetti è stata un’azione lodevole”.
Da Barco, passiamo al Gad, che è lì a due passi dalla sede del colloquio, gli chiedo se l’Acer ha qualche progetto o sta partecipando alla ripresa di quella zona ma di nuovo il tono diventa malinconico: “Non c’è nessun piano da parte nostra attualmente. Abbiamo, qualche tempo fa, aiutato a gestire gli alloggi, ma ora il problema più grave è l’ordine pubblico e la questione sociale, più che edile”.

Da questo traggo spunto per chiedere di un’altra ‘zona calda’ di Ferrara, il Palazzo degli Specchi, sul quale mi dice: “È completamente abbandonato, mai entrato in attività, progettato come centro direzionale ma mai entrato in funzione.” “Una ‘cattedrale nel deserto’?” gli chiedo, citando il sindaco Tagliani. Sorride e mi dice: “Un deserto senza cattedrale!” e continua sull’argomento affermando che “l’abbandono ha portato all’occupazione abusiva e noi ora stiamo lavorando per dare una risposta a quel ‘buco nero’ della città per farne degli alloggi a canore ‘calmierato’, cioè ridotto fino al 30% rispetto al canone di mercato, così da rispondere al fabbisogno che abbiamo visto esserci di alloggi. Riqualificare tutta l’area intorno, come l’abbandonato PalaSilver, soprattutto perché è una zona dal forte impulso commerciale. Renderla quindi non solo attrattiva ma vivibile, aumentandone anche i servizi come ciclabili e linee dei bus”.

diego carraraSu questa tema il mio interlocutore non ha bisogno di tante domande domande, è stesso lui ad aprirsi, va a ruota libera… Mi spiega che “il reddito della città, dopo vari nefasti eventi, è diminuito, quindi dare case in affitto, più basso rispetto al mercato, dà la possibilità di creare anche un indotto economico, chi spende meno per affitto e bollette, ha un reddito maggiore da poter utilizzare in altre attività. Per questo siamo attenti su tutti gli aspetti”.
Ho notato più volte nella conversazione delle frasi che il direttore tende a ripetere: crederci, ambiente, sociale, pubblico. E proprio sul pubblico, con tono fiero mi dice: “Siamo orgogliosamente pubblici, sono orgoglioso di quello che facciamo, diamo un alloggio ai cittadini, su mandato dei Comuni, e cerchiamo di farlo bene.” E sempre sulla questione degli investimenti sul pubblico aggiunge: “Nell’attuale situazione economica ci sarebbe bisogno di nuova edilizia popolare, perché ci sono quattro milioni di persone che hanno un reddito con il quale potrebbero permettersi a stento questo tipo di alloggi. Ci sarebbe bisogno di dare risposta a questo fabbisogno, che l’Onu definisce ‘primario’. Ci guardiamo intorno e troviamo esempi come la Germania, che per fronteggiare l’emergenza immigrati, ha stanziato cinque miliardi d’euro per la realizzazione di 400mila nuovi alloggi” e proprio sull’immigrazione dice: “L’integrazione passa anche da questo, soprattutto senza creare quartieri ghetto, ma facendo un ‘mix sociale‘”. Fa anche una citazione cinematografica per spiegarmi quella che è la situazione dell’Acer nel rapporto con le persone: “Come ci insegna Scola nel film ‘Brutti, sporchi e cattivi’, non è facile trattare con gli indigenti, non sono remissivi come ci si potrebbe immaginare anzi, sono spesso aggressivi, lo dico anche per conoscenza diretta, provenendo da una famiglia operaia. Oggi avere a che fare con chi sta male, per mille motivi, è difficile, abbiamo subito minacce, abbiamo dovuto ricorrere più volte a chiamare la Polizia. In questo luogo la sofferenza sociale viene fuori e noi siamo la prima linea di protesta”. Suona quasi come uno sfogo questa sua ultima affermazioni, mi spiega anche che ciò è dovuto anche al fatto che “a Ferrara non siamo noi ad assegnare gli alloggi, ma il Comune con le sue graduatorie, ed è difficile spiegarlo alla gente”. E proprio su questo confessa che “in qualche raro caso abbiamo anche dovuto sollecitare il Comune per velocizzare le assegnazioni”, ma precisa subito che “abbiamo adottato con i Comuni delle ‘buone pratiche’ per contrastare la lentezza burocratica, ma le buone pratiche non sono spesso sufficienti a rispondere ad un fabbisogno in aumento, non abbiamo mai avuto così tante persone agli sportelli. E’ una situazione grave, e dovrebbe essere la Politica ad agire: bisogna cessare con i tagli al settore pubblico, e questo appello dovrebbe arrivare fino a Roma. Quando tra qualche anno non ci saranno più fondi neppure per la manutenzione, come faremo? Ancor di più visto che oggi siamo rientrati nelle zone sismiche, e quindi oltre all’ordinaria manutenzione, dobbiamo anche effettuare i consolidamenti statici, come agiremo? Chi ci sarà a rispondere ad una situazione di povertà in aumento?”. Il tono si fa accorato, preoccupato, si agita quasi il direttore Carrara, è evidente che si tratti di una questione che gli sta a cuore.

Persiste a parlarmi delle sue preoccupazioni, legate anche all’immigrazione: “La politica della casa deve tornare ad essere una politica nazionale. Siamo alla frontiera dell’immigrazione, di recente non abbiamo visto un euro, solo 400 milioni qualche anno fa, che però sono serviti a ripristinare un patrimonio in tutta Italia, una goccia nel mare. Il patrimonio pubblico (riferito agli Erp) della sola Ferrara è stimato sui 550 milioni d’euro, lo vogliamo valorizzare? E anche se non riuscissimo a fare del nuovo, che sarebbe già una clamorosa sconfitta, perché abbiamo 3500 persone ogni anno in lista d’attesa, almeno riusciremo a mantenere bene quello che abbiamo? L’Emilia-Romagna, secondo recenti ricerche, avrebbe bisogno di 20/25 mila nuovi alloggi, servono fondi”. Un appello lanciato quasi con rabbia, lo si percepisce dai suoi occhi, dai gesti che si fanno più ampi.
Passata più di un’ora il direttore non sembra stanco, anzi, ci tiene a concludere affermando che “la nostra proposta è, citando Pasolini, fare progresso, non solo sviluppo, così da creare un volano economico. Mettere mano alla riqualificazione e rigenerazione significa produrre valore aggiunto, progresso appunto. Non un’edilizia speculativa, ma la creazione di edilizia pubblica che dia sviluppo economico, non meramente consumistico, ma che migliori la vita della gente, far ripartire la macchina della nazione perché ‘se non parte l’edilizia, non parte nessuna industria’”. Mi sorge un dubbio sulle possibilità di intromissioni mafiose, ma su questo Carrara è chiaro: “Il rischio c’è ma non dobbiamo farci fermare dalla paura, un Paese che si blocca è un Paese che muore”.
Leggo nel suo sguardo fierezza quando mi parla di quella che lui, usando un inglesismo, chiama mission: “Noi ci crediamo, investiamo in scienza e cultura, lavoriamo in sinergia con l’Università per creare nuove tecnologie e innovazioni. Investire su una casa a basso costo e impatto ambientale vuol dire qualificare e migliorare la vita dei cittadini.”

Oramai ho fin troppo materiale. Ho cercato di far parlare il più possibile in questo mio articolo il direttore Diego Carrara, senza aggiungere quasi nulla di mio, perché questo fosse un resoconto il più oggettiva possibile. Naturalmente l’operazione è stata ostica, essendo abituato a introdurre il mio punto di vista, ma credo sia necessario, in questo viaggio nel mondo dell’edilizia popolare, dare spazio anche a chi vuole parlare e spiegare le cose dalla propria prospettiva. Io, dal mio, posso solo dire che il colloquio ha aumentato la voglia di addentrarmi in questo ambito fatto di leggi, appalti, investimenti, soldi, cattedrali, deserti, zone d’ombra e veri monumenti, ma prima di tutto di persone con i loro bisogni e le loro speranze.
Lascio l’ultimo parola di questo lunghissimo scritto a Carrara, ché l’interrogativo che pone, solo apparentemente retorico, mi è rimasto stampato dentro: “Abbiamo un grandissimo patrimonio pubblico, perché dobbiamo buttare a mare una ricchezza che ha fatto crescere intere generazioni?”.

3. continua

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