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Mercoledì 9 aprile la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo il divieto della fecondazione eterologa, che nell’accezione comune indica l’impiego di gameti (ovocita femminile e spermatozoo maschile) non appartenenti ad una coppia, donati o venduti, per avere un figlio.
Qui mi fermo, perché per entrare più dentro la materia serve una laurea in medicina, che non ho, e anche un certo stomaco.

È un’ennesima spallata alla legge 40 del 2004, approvata dal centrodestra per regolamentare la procreazione medicalmente assistita. Si legge (Corsera, 10 aprile) che sono ormai 32 le sentenze che hanno invalidato diverse parti della norma, tanto che la Quaranta in pratica finisce di esistere.

Al di là dei pro e contro, il caso ripropone sullo sfondo il tema aperto della laicità, o, se si preferisce, del rapporto stato-chiesa in Italia.
Qualcuno ricorderà i quesiti del referendum del 13 giugno 2005 per l’abrogazione della legge, con l’estenuante dibattito su procreazione assistita e cellule staminali.
I vescovi italiani, contrari all’abrogazione nonostante la considerassero un male minore, per iniziativa del loro presidente, cardinal Camillo Ruini, indicarono con forza la strada dell’astensione. Il tutto con la benedizione di papa Ratzinger, che ebbe parole di pieno sostegno alla scelta, durante la 54a assemblea generale della Cei il 30 maggio di quell’anno.

La novità non fu la presa di posizione dei pastori, ma “quella” mossa.
Ricostruisce bene la vicenda lo storico Giovanni Miccoli nel libro “In difesa della fede” (2007).
Fu una scelta presa evidentemente nel presentimento che i “no” non fossero maggioranza nel paese, specie dopo le docce scozzesi delle sconfitte su divorzio e aborto.

La questione non è se negare alla chiesa il diritto di far sentire la propria voce, che segnerebbe lo scivolamento dalla laicità al laicismo, ma il fatto che i vescovi, con l’aperta volontà di far fallire il referendum, entrarono volutamente nel campo della tattica e delle scelte politiche.
Più volte Benedetto XVI disse che non si trattava di ingerenza o interferenza nella vita pubblica nazionale, ma di una doverosa azione per illuminare le coscienze.
È interessante il filo logico seguito dal papa teologo. Il principio in questione, per sua stessa ammissione, non è verità di fede ma è iscritto nella natura dell’uomo, cioè investe la legge naturale. Perciò la chiesa non sta difendendo un interesse strettamente cristiano, confessionale, ma i diritti fondamentali della persona.

Siccome compito della chiesa è la tutela dei principi di natura, dei quali si fa interprete vera e ultima in quanto maestra di umanità, allora il suo intervento si fa eticamente necessario e conseguente al mandato cristologico di evangelizzare, anche nel campo di valori che, perciò, diventano non negoziabili.
Così si estende l’ambito di predicazione del magistero ecclesiale, fino a toccare spazi non direttamente conseguenti alla rivelazione e il destinatario degli insegnamenti diventa potenzialmente l’intero consorzio umano.

Lungo questa linea si comprende come per Ratzinger non sia sufficiente parlare della ragione umana, se ad essa non si affianca l’aggettivo “retta” e cioè illuminata dai principi di natura, iscritti nel cuore umano dal soffio di Dio.
In questa linea va ricompreso anche il binomio libertà-verità, nel senso che la vera libertà è quella che si configura entro i confini della verità, della quale custode infallibile è la chiesa cattolica.

Proprio sul tema “Chiesa e diritti umani” ha scritto un ottimo libro lo storico Daniele Menozzi (2012), che qui possiamo solamente citare e, in fondo, il contesto è lo stesso che vide lo scontro traumatico in concilio Vaticano II (1964) sulla dichiarazione “Dignitatis Humanae”, ossia sulla libertà religiosa. Tanto che un altro storico, Hubert Jedin, ha scritto del “Venerdì nero” del concilio.

Chi contesta questa impostazione viene visto come colui che vorrebbe impedire alla chiesa di svolgere il proprio compito e che pone in discussione i diritti fondamentali della persona e, perciò, si pone contro la stessa legge di natura. Di questo passo fra laicità e laicismo non c’è più alcuna differenza e tutto diviene attacco alla libertà religiosa, cioè alla legge naturale, a Dio e all’uomo, in un giudizio pessimistico che copre le società occidentali diventate preda del relativismo etico.

Questo è anche il significato della celebre frase di Ratzinger: “Veluti si deus daretur” opposta all’”Etsi deus non daretur”, perché convinto che la società tutta debba concepirsi ed organizzarsi come se dio ci fosse, non il contrario.
Così si capisce anche il tentativo di riproporre un modello che in tanti hanno definito costantiniano o di cristianità, nel quale è indispensabile che l’ordine veritativo, morale e naturale, sia iscritto nella stessa impalcatura istituzionale e normativa dello stato. In altre parole, lungo questa traiettoria si guarda con una certa nostalgia all’alleanza trono – altare, che ha contraddistinto il tempo dell’”ancien régime” fino all’intransigentismo ottocentesco e oltre.

Questo spiega anche il ritardo con cui la chiesa ha accettato il pensiero democratico (bisogna aspettare il radiomessaggio della vigilia di natale 1944 per sentire per la prima volta un successore di Pietro usare parole positive sulla democrazia) e i dubbi che tale passo sia stato completamente metabolizzato, perché democrazia è discussione e alcune cose non lo dovrebbero essere.
E forse non è un caso che proprio durante il pontificato di Benedetto XVI siano ripresi i colloqui con i lefebvriani – tradizionalisti, anticonciliari, intransigenti per antonomasia e con simpatie nemmeno celate verso regimi come quello dei generali argentini -, anche se poi sfociati in un fallimento totale, non senza pesanti imbarazzi vaticani.

Il senso di questo disegno sta propriamente nella consapevolezza che la chiesa possieda una superiorità etica, che le dà il diritto di dettare i contenuti etici delle norme dello stato e della società. Da qui i ripetuti appelli rivolti ai cattolici impegnati in politica a farli propri, se cattolici autentici (e fino a minacciare la scomunica), come si comprende anche la dinamica di avvicinamento tattico agli atei devoti (purché i valori non negoziabili si istituzionalizzino).

Sullo stesso piano va collocato pure il fronte aperto sulle radici cristiane dell’Europa da inserire nel preambolo della Costituzione Ue, perché secondo questa logica non può esservi vera Europa se non sulle radici che danno linfa di verità all’umanità e sulle quali è innestata la chiesa.

Molti hanno messo in luce almeno due punti deboli di questo disegno.
Primo: è rischioso porre i simboli religiosi come fattori di identità etnico-culturale, specie in società che si configurano sempre più pluraliste, anche sotto il profilo delle fedi.
Secondo: è una forzatura parlare di diritti, principi e valori, che appartengono all’ordine immutabile della natura. Solo restando nel perimetro ecclesiale, fino a non molto tempo fa vescovi definivano concubinato i matrimoni civili (oggi nessuno lo farebbe), mentre con riferimento al diritto inviolabile della vita umana, in passato non si è esitato a definire cristiani regimi che nel proprio ordinamento ammettevano la pena di morte.

Un disegno che ha mostrato pubblicamente la corda con le clamorose dimissioni di Benedetto XVI, fatto inedito, o quasi, nella storia bimillenaria della chiesa.
Il conclave che poco più di un anno fa ha eletto papa il cardinal Bergoglio (13 marzo 2013), deve aver deciso di cambiare rotta.
Il nome Francesco, lo stile della misericordia, l’inedita immagine della chiesa ospedale da campo data nell’intervista al direttore de La Civiltà Cattolica (19 settembre 2013), il ritrarsi, di ritorno dalla Giornata della gioventù di Rio, dal giudicare un gay (“Chi sono io per …”), paiono i gesti di un’impostazione differente.

Un’inversione di tendenza che guarda al concilio Vaticano II non come un segno di cedevolezza verso il mondo secolarizzato – da affrontare con l’armatura di Cristo Re -, e alla povertà come punto dirimente per una Chiesa che vuole decentrarsi rispetto alla posizione di dogana della grazia.
Ecclesia che, come scrive Alberto Melloni (“Quel che resta di Dio”, 2013), deve prendere atto che nessuno ha mai usato o no un profilattico solo perché lo dice il magistero. Per questo, sembra di capire, dopo aver insistito inutilmente sulla strada del bastone, ora si sta rivalutando quella roncalliana, appunto, della misericordia.

Spiegano bene il cambiamento di paradigma, per esempio, lo storico Massimo Faggioli (“Papa Francesco e la chiesa-mondo”, 2014), i teologi Severino Dianich (Regno 14, 2013) e Christoph Theobald (Regno 4, 2014) e il sociologo José Casanova (Regno 10, 2013).
La svolta, scrive Dianich, starebbe nella scelta della Chiesa di parlare alle donne e agli uomini e non più ai popoli, alle nazioni e agli stati, perché la storia dimostra che nessuna civiltà può dirsi cristiana. Tanto meno lo possono essere le istituzioni.

In un mondo complesso e plurale, prosegue Theobald, a nulla vale la riaffermazione contro-culturale dell’identità cristiana, perché nel contesto ermeneutico nel quale sono destinate a convivere molteplici interpretazioni e percorsi di senso, la credibilità si afferma per testimonianza e non per via autoritativo-normativa.
Vero e proprio banco di prova per la chiesa diventa il concetto sociologico di secolarizzazione, scrive in sintesi Casanova. Se cioè deve essere visto come la china negativa di un progressivo allontanamento della società da Dio (cosa peraltro non vera), oppure come una nuova ed inedita opportunità.
Non a caso il Vaticano II ha parlato ripetutamente di ressourcement, cioè di ritorno alle fonti. Quando il cristianesimo era una minoranza.

Pepito Sbazzeguti

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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