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Quelli che affermano che molti dei problemi dell’Italia si risolverebbero uscendo dall’euro dicono una sciocchezza? Pare proprio di sì (e ciascuno faccia pure mentalmente l’elenco). Lo scrive Salvatore Biasco, docente di Economia alla Sapienza di Roma (Il Mulino 1/2015).

Concordata o meno che sia, l’eventuale uscita italiana dalla moneta unica europea produrrebbe una serie tale di sciagure da delineare uno scenario da “si salvi chi può”. Cominciamo dagli operatori, italiani e stranieri, che per proteggere risparmi e patrimoni, al solo sentore della cosa inizierebbero a disinvestire dall’Italia con riflessi più che prevedibili sul fantomatico spread. Alzi la mano, poi, chi se la sente di dire agli italiani che con lo spread non si mangia. Già, perché per piazzare i titoli del secondo o terzo debito pubblico più alto al mondo ridenominato in lire bisognerà alzare i tassi d’interesse.
Alcuni però dicono che, nel nome del “Chi ce lo fa fare”, è arrivata l’ora di dire basta ad una penosa ed onerosa ‘corvée’ del debito, ricorrendo ad una sua svalutazione o, come dicono i più eleganti, ad una sua ristrutturazione. Così gli sforzi possono essere concentrati su politiche economiche più redistributive. Parole e teorie che, a detta di Biasco, trascurano lo spettro della fuga di capitali, con conseguenze da non augurarsi.
Però, si ribatte, con la lira in tasca tornerebbe in auge la leva monetaria nazionale della svalutazione. Moneta svalutata uguale prodotti italiani più competitivi sui mercati esteri e via col circolo virtuoso di esportazioni, più produzione, crescita, occupazione…
Purtroppo è tutto da dimostrare che l’idea stia in piedi, perché sulla bilancia commerciale oltre alle esportazioni ci sono anche le importazioni, specie di materie prime. Se con i prezzi in lire quelli delle materie prime importate crescono (e quindi sale l’inflazione), non solo, bisogna vedere quanto competitivo resta il made in Italy con la benzina, ad esempio, a tremila lire il litro, ma c’è qualcuno che abbia pensato che l’inflazione significa una spirale dalla quale è bene tenersi alla larga?
Ma non basta. Con l’ipotesi svalutazione, mettiamo, dal rapporto debito/Pil attuale al 130 per cento a quello del 60 per cento, siamo davvero così sicuri che i possessori dei nostri titoli ci rivolgeranno applausi a scena aperta per avere centrato il traguardo Maastricht?
Qui i possessori, cioè creditori, sono di due tipi. Ci sono quelli stranieri, che immaginiamo il loro umore dal momento che si ritrovano meno soldi di quelli che hanno prestato allo Stato italiano. Poi ci sono i creditori italiani. In buona parte sono banche. Sono note le grida di gioia di taluni a vedere le sanguisughe finalmente pagare le conseguenze di una crisi partita proprio dalla finanza.
Peccato che buona parte dei pacchetti azionari sono nelle tasche dei risparmiatori che sarebbero, così, i veri mazziati. Che poi sono gli stessi ad avere anche buona parte del debito pubblico tricolore, a sua volta svalutato.
E’ questo l’augurio che alcuni vogliono fare all’Italia? Senza contare l’effetto domino che un’economia come quella nazionale (che vale molto di più del tre per cento di quella greca nella sola Ue) può provocare su scala internazionale. E se il contagio si propaga fra stati e investitori, qualcuno vorrebbe spiegare dove trovare la domanda estera per le nostre esportazioni?

Qui Biasco introduce la seconda parte del ragionamento. Partendo dalla formula coniata da Michele Salvati (direttore de Il Mulino), l’economista della Sapienza lascia questa ipotesi dell’uscita dall’euro definita “catastrofe”, per entrare nella non meno preoccupante dell’”asfissia”. Rimanendo dentro l’euro è inutile negare che senza un governo del cambio l’Italia ha un problema di persistente difficoltà competitiva. Difficile perciò, stando così le cose, sfuggire a un progressivo declino (asfissia) fatto di decurtazione continua della spesa pubblica, di spending review, di compressione dei redditi (la stessa riforma del mercato del lavoro, ha detto Vittorio Zucconi, sembra scritta con la penna di Confindustria), impoverimento dei ceti medi, progressive privatizzazioni del pubblico e vendite in mani straniere di firme del made in Italy.
Dunque, la strada dell’uscita dall’euro è il trauma, mentre rimanerci a queste condizioni è un lento declino. Si dice che c’è la strada delle riforme. E’ chiaro a molti che se l’Italia avesse migliori pubblica amministrazione, burocrazia, scuola, università e giustizia si andrebbe meglio. E’ anche vero, però, che se la riforma della pubblica amministrazione significa togliere di mezzo le Province (ossia l’1,2 per cento della spesa pubblica) – come sta avvenendo con ritardi, contraddizioni fra piani normativi, governo, regioni, sezioni delle Corti dei conti, incertezza di risorse, di funzioni e sulla sorte di 20mila dipendenti e chissà cos’altro ancora – non c’è da brindare.

La verità, prosegue Biasco, è che “non saranno le riforme a farci risalire la china”, sia quelle istituzionali che della pubblica amministrazione. Ma allora non c’è via d’uscita fra catastrofe e asfissia? Ci sono tuttavia un paio di ragioni che farebbero propendere per la seconda strada. E non perché sia meglio essere rosolati a fuoco lento piuttosto che esplodere in un colpo solo.
Primo: in un mondo come questo i fili della speranza, e cioè della crescita, sono essenzialmente esogeni. E’ perciò in un contesto di integrazione che va giocata la partita e non in un anacronistico isolamento nazionale, inesorabilmente indietro rispetto alle lancette della storia. E’ quindi in questo ordine delle cose che, piaccia o non piaccia, va posto il tema europeo che la crescita non è – i fatti lo dimostrano – il prodotto differito dell’austerità.
Solo che questo tema non andrebbe banalizzato, come si è sentito finora, rimproverando all’inquilino di turno a Palazzo Chigi di non battere i pugni sul tavolo di Bruxelles. Il ragionamento, se c’è una classe dirigente degna del nome, è di dottrina e di politica insieme: se ci sono spazi per ritenere che l’Europa sia capace di una crescita che non chiede solo sul fronte dell’offerta, ma anche su quello della domanda, lo si dica ora o mai più. Se c’è una strategia che vada oltre la semplice e illusoria soluzione della riduzione di diritti e libertà (da quelle civili a quelle del lavoro), lo si dica adesso e su questo si costruiscano alleanze.

Lo scrive chiaro e tondo anche Guido Rossi (Il Sole 24 Ore del 29 marzo): la politica si svegli dal torpore, non continui a lasciare i destini europei in mano alle tecnocrazie – economiche, burocratiche e finanziarie – perché in ballo ci sono i valori democratici fondamentali che tengono insieme stati membri e culture, in un un progetto non fondato sulla deriva di ineguaglianze, distanze sociali e minori opportunità in favore di pochi. Sul versante interno della politica questo significa, per esempio, che chi si ritiene forza riformista, non lasci la bandiera della critica all’Europa a chi predica la strada della “catastrofe”, che sull’onda di un malcontento destinato a crescere avrà sempre più facile gioco elettorale, ma la agiti con altrettanta energia spiegando perché è esattamente nella visione comunitaria che si può ancora evitare il peggio.

E lo si faccia, possibilmente, non con lo sguardo rivolto alle prossime urne (com’è possibile fare o rifare alleanze con chi predica la strada della catastrofe?) ma alle prossime generazioni, perché liberali o no, non servirà a nessuno un paese impoverito, scioccamente liberalizzato, indebolito di libertà e tutele e con un settore pubblico mercificato.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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