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(pubblicato il 24 maggio 2016)

Nella nostra cultura ragione e sentimento hanno divorziato perlomeno dai tempi di Cartesio e del suo Discorso sul metodo. Ora, pare che questo divorzio non si avesse da fare.
Ce lo dicono le ricerche più recenti nel campo delle neuroscienze, che dai neuroni specchio in poi hanno dichiarato guerra a tutti i nostri pseudoconcetti.
Se vogliamo imparare ad apprendere, innamorarci del piacere di studiare abbiamo bisogno delle emozioni. Se gli apprendimenti non si attaccano alle emozioni come a una sorta di attaccapanni, non siamo poi in grado né di ricordare né di far uso di quello che erroneamente pensavamo di aver imparato.
Che le emozioni incidessero sulla strada dei nostri saperi, ne avevamo sempre nutrito il sospetto. Ora le neuroscienze sono in grado di dimostrarlo.
“La gente pensa che le emozioni portino fuori strada, ma non è così. L’emozione dirige il nostro pensiero. È il timone che orienta la nostra mente e organizza quello che dobbiamo fare”, sostiene Mary Helen Immordino-Yang, professore associato di pedagogia, psicologia e neuroscienze all’Università di Southern in California, autrice del libro “Emotions, Learning, and the Brain”.
Immordino-Yang e i suoi colleghi dell’USC’s Brain Creativity Institute hanno scoperto che gli studenti impegnati in un compito imparano nuove regole, come per esempio il modo più efficace per rispondere a un problema di matematica o la migliore strategia da scegliere in un gioco di carte, fornendo risposte emotive ancor prima di essere consapevoli delle regole o di essere in grado di applicarle. Queste risposte emotive del pensiero provengono da una sensazione, dall’impressione d’aver trovato la strada giusta. E questo è il primo segno di apprendimento, quando si è impegnati nella soluzione di un compito.
L’esperienza di Immordino-Yang nasce da vent’anni di ricerche in laboratorio con pazienti affetti da diversi tipi di danni cerebrali, che hanno però preservato le abilità dell’area cognitiva, sebbene totalmente incapaci di gestire la loro vita quotidiana. Gli studi che ne sono derivati dimostrano che le persone con un particolare tipo di danno al cervello, a quella parte che connette emozioni e strategie cognitive, non apprendono dal fallimento e continuano a scegliere condotte inadeguate a risolvere un problema, anche se consciamente “conoscono” le regole. Questo succede perché il pensiero che non si accompagna alle emozioni non ci rende in grado di ricordare.
Nel contesto di una classe significa che se emozione e apprendimento non si incontrano sarà sempre più difficile ricordare e applicare. La capacità di provare emozioni per qualcosa è una competenza.
Dobbiamo insegnare ai bambini che l’emozione, l’appassionarsi per qualcosa non sono limiti, ma promesse. È in questo modo che può nascere l’interesse anche per ciò che inizialmente può presentarsi privo di interesse.
Queste ricerche aiutano a provare anche l’effetto negativo di emozioni come l’ansia, la paura, la noia. Funzionano come feedback, fin dalle elementari, incidendo sull’impegno e sul rendimento, in definitiva sul destino scolastico di ciascuno.
Il modello emotivo diviene sempre più negativo nel corso degli anni di scuola, il piacere decresce, l’ansia da prova e la noia aumentano, innescando la spirale del fallimento scolastico. Uno studente in ansia durante la lezione di matematica in seconda classe alla fine dell’anno otterrà risultati più bassi. Sarà quindi ancora più ansioso al terzo, accrescendo il rischio di prestazioni in matematica ancora più basse e così via attraverso l’intero arco della scuola elementare. Anche la noia produce un ciclo negativo, mentre gratificazioni precoci in matematica innescano un ciclo di feedback positivi.
I ricercatori dell’Università Ludwig Maximillian di Monaco di Baviera hanno scoperto che le emozioni negative degli studenti, come rabbia, ansia e disperazione, sono contagiose, nel corso del tempo si trasmettono anche ai loro amici. Lo stesso però non accade per le emozioni positive come la soddisfazione e l’orgoglio.
Il piacere di apprendere è, dunque, qualcosa che ogni studente costruisce nel corso del tempo e suggerisce la necessità che la scuola prenda in seria considerazione le emozioni dei suoi alunni, in modo che a scuola ognuno ci stia bene fin da subito.
Immordino-Yang raccomanda agli insegnanti tre strategie per migliorare l’influenza emotiva sull’apprendimento: rendere significativo l’apprendimento nutrendolo di emozioni; incoraggiare gli studenti a usare le loro intuizioni nell’apprendere e nel risolvere problemi; creare un clima non solo aperto all’errore, ma di autentica fiducia e di reale rispetto.
Il messaggio delle neuroscienze è chiaro: non è più possibile pensare all’apprendimento come scisso dalle emozioni, il successo di ciascun studente non è responsabilità esclusiva del singolo, ma investe il clima e le strategie d’aula. Studenti e insegnanti interagiscono socialmente, imparano gli uni dagli altri in modi che i soli ‘freddi’ saperi scolastici non sono in grado di spiegare. Come altre forme di apprendimento e d’interazione, anche a scuola emozione e intelligenza si devono integrare nel contesto sociale della classe. Gli apprendimenti della scuola, per essere tali, è necessario che siano ‘caldi’, non ‘freddi’, non gelidi come la routine dell’attenzione e dell’ascolto senza emozione.
Piuttosto che diffidare delle emozioni, gli insegnanti possono usare questa prospettiva offerta dalle neuroscienze per promuovere un clima emotivo nella classe, in grado di saper cogliere i sottili segnali delle emozioni. Se gli studenti apprendono a riconoscerli ed a raffinarli, allora i loro saperi diverranno sempre più rilevanti e significativi, in definitiva sempre più generalizzabili e utilizzabili nella vita quotidiana.

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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