Nient’altro che fiori
“Una volta c’era un centro commerciale, adesso è tutto coperto di fiori. Se questo è il paradiso, vorrei avere un tagliaerba”
Talking Heads, Flowers (1988)
Nient’altro che fiori
La vicenda della famiglia anglo-australiana composta da Catherine Birmingham, Nathan Trevallion e dai loro tre figli, che dopo un tratto di vita “normale” ha scelto di vivere in una casetta nel bosco vicino a Chieti, senza luce acqua e gas, senza scuola, senza “civiltà tossica”, mi ha evocato la canzone dei Talking Heads “Nothing but flowers“(qui). Il testo parla di una coppia di moderni Adamo ed Eva che vive in uno stato di natura che ha riconquistato i suoi spazi a danno di ipermercati, pizzerie, autostrade, parcheggi, completamente soppiantate da campi fioriti, alberi e uccellini cinguettanti. Niente cinema, centri commerciali, negozi, aeroporti, stazioni. Niente più civiltà. Solo fiori, fiumi, natura incontaminata. Un incubo bucolico. Un sardonico David Byrne conclude il pezzo, che si sviluppa su una stravagante aria musicale afro-latina con echi hawaiani, cantando uno sconsolato “usavamo il microonde, adesso mangiamo noci e frutti di bosco; qui c’era un discount, ora è diventato un campo di pannocchie; non mollarmi qui, non posso abituarmi a questo stile di vita”.
Ma non voglio ridere della famiglia Trevallion. Un tribunale italiano gli ha appena sottratto i tre figli minori, affidandoli ad una casa protetta. Se non ci fosse stata una malandrina intossicazione da funghi raccolti nel bosco a mandare all’ospedale tutti, probabilmente li avrebbero lasciati stare. Probabilmente li avrebbero lasciati stare, fino a che il tetto di casa non fosse crollato sotto il peso di una nevicata eccezionale, o per una scossa di terremoto; oppure fino a che qualche ficcanaso non avesse segnalato alle forze dell’ordine di andare a controllare quella gente strana. Quindi no, non li avrebbero lasciati stare. Non li avrebbero lasciati stare anzitutto perché non minacciavano, non avevano armi, non spaventavano. Se fossero stati soggetti prepotenti, dagli atteggiamenti intimidatori, avrebbero vissuto giorni più tranquilli. Purtroppo la cronaca facilita le generalizzazioni: non possiamo incolpare il tribunale dei minori de L’Aquila della morte del bambino di nove anni a Muggia, Trieste, per mano della madre, cui un altro giudice lo aveva appena riaffidato. Resta in entrambi i casi uno sgradevole sapore di burocrazia, che qualche volta conduce alla tragedia.
Il giudice invoca problemi di stabilità e igienico sanitari dell’abitazione. Chissà se in giro per l’Italia ci sono famiglie cui hanno sottratto i figli perché il tetto non regge, o potrebbe non reggere, una brutta nevicata, o per assenza di adeguati presidi antisismici. O perché si lavano tutti con l’acqua attinta da un pozzo e si scaldano con una stufa a legna, come facevano cinque famiglie su dieci, ottant’anni fa. Se la logica fosse questa, temo che il trenta per cento delle famiglie italiane sarebbe orfano di prole.
La ragione preminente però, quella che ha indotto il Tribunale dei minori a sottrarre i tre figli dalla dimensione familiare, pare sia il danno alla vita di relazione derivante da uno stile di vita che potrebbe essere «produttivo di gravi conseguenze psichiche ed educative a carico del minore». Di sicuro, non è uno stile ordinario: i ragazzini non vanno a scuola, e la loro istruzione è affidata ai genitori affiancati da un insegnante privato.
Come sempre accade in questi casi che diventano pubblici, migliaia di sociologi e psicologi della domenica sputano le loro sentenze. Non ho la minima intenzione di aggiungere la mia, né contro i genitori né contro i giudici. Confido che il provvedimento – che spero assolutamente temporaneo – di allontanamento dei figli dalla “casa nel bosco” convinca questa coppia che le scelte radicali vanno rispettate, ma possono essere anche meno intransigenti. Il fanatismo rende cattive le buone cause, così come le ideologie, così come le religioni.
Dopodiché: battezzare i figli, fargli fare il catechismo, la comunione, la cresima per forza, (così come dare loro una educazione coranica da quando sono in fasce), mettergli in mano uno smartphone all’età di quattro anni, nutrirli a merendine e cocacola e portarli in passeggino in mezzo a strade inquinate dall’ossido di azoto – come succede a otto bimbi su dieci nella nostra way of life, per tacere di quelle famiglie dove succede di peggio – può essere considerato più nocivo del fatto di passare l’infanzia dentro un bosco. Ma anche cooptare i propri figli di sei e otto anni dentro una dimensione di integralismo anticonformista, antimodernista, antitecnologico e socioselettivo, non è detto che sia un bene. Diventare anticonformisti o anticonvenzionali è il frutto di un processo che non può che trarre origine dal conformismo del proprio ambiente, rispetto al quale maturare progressivamente una posizione critica. Non si può diventare individui anticonvenzionali per imposizione, senza frequentare, almeno in parte, le convenzioni sociali, culturali, religiose del proprio tempo e luogo. Altrimenti il rischio è quello di diventare i conformisti dell’anticonformismo.
I Trevallion forse un giorno sorrideranno di questa situazione, e spero apprenderanno, come dovremmo fare tutti, che le migliori intenzioni possono fare molti danni se diventano dogmi; che avere un bagno in casa può essere un progresso, anziché una resa alla civiltà tossica; che rischiare di trasformare i propri figli in hikikomori ecologici non è la soluzione contro un mondo inquinato e malvagio. Lo stesso sforzo di equilibrio lo facciano i giudici e gli assistenti sociali chiamati a indirizzare la vita dei minori: professionisti dei quali spesso apprezziamo lo zelo burocratico, molto meno la capacità di mettere realmente al centro il bene dei bambini.
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Mi pare alquanto equilibrato come commento a una situazione che va rispettata a prescindere e che va considerata solo nella tutela del benessere dei bambini, ora e nel futuro. Benessere che comprende anche sicuramente un approccio graduale e di mediazione ai cambiamenti necessari nella loro vita familiare. Qui non c’è rischio immediato di niente, non si vede perchè affliggere dei traumi imposti da un atteggiamento puramente burocratico.