Violante: il rosso e il nero, le contrapposte strategie dei terrorismi In Italia
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“Se un terrorista ti voleva ammazzare ci riusciva sempre. Non aveva senso avere molti agenti di scorta: significava solo esporre più gente al pericolo di morire. Il terrorista sapeva quando ti avrebbe colpito. Tu no”. Parla a braccio Luciano Violante, ex Presidente della Camera dei Deputati, della sua esperienza di magistrato negli anni di piombo durante il convegno ‘Terrorismo e antiterrorismo. L’Italia e la circolazione dei saperi negli anni Settanta e Ottanta’ che si è tenuto ieri a palazzo Bonacossi. Presenti, oltre a Violante, il sindaco Tiziano Tagliani, il giurista Paolo Veronesi dell’Università di Ferrara, Donato Castronuovo, ordinario di diritto penale presso l’Università di Ferrara, Lisa Bland dell’IMT di Lucca, Laura di Fabio del Centre Mauric Halbwachs di Parigi e Nino Blando dell’Università di Palermo.
“L’Italia ha conosciuti i ‘terrorismi’ e non il terrorismo – continua Violante – C’era il terrorismo nero di destra, che non rivendicava niente e aveva infiltrazioni nel tessuto pubblico della società e quello rosso di sinistra, noto per i suoi proclami fiume. Pur nelle costituzionali differenze, entrambi erano caratterizzati dall’essere reati a lunga preparazione ma a breve esecuzione, realizzati all’interno di un progetto unitario e dotati di una forte capacità intimidatrice. Il terroristi rossi, almeno quelli della prima ora, poi si caratterizzavano per un buon livello culturale, infatti dovette cambiare anche le modalità di interrogatorio: erano persone che non discutevano del delitto commesso ma volevano disquisire della legittimità della loro azione I primi atti terroristici furono dimostrativi. In pochi anni però si arrivò all’omicidio di coloro che erano definiti come nemici ideologici. In una terza fase l’obiettivo fu spostato a colpire i cosiddetti ‘anelli di congiunzione’, cioè tutti coloro che, per il loro ruolo e il loro agire, rendevano credibile lo Stato”
E se non mancano, nel racconto dell’ex presidente della Camera, momenti di ilarità, come quelli nei quali descrive i rudimentali strumenti di protezione messi a disposizione dei giudici (i fucili Mab “che si azionavano quasi da soli” tenuti scarichi dalla scorta per sicurezza, l’impermeabile anti proiettili che rendeva i magistrati un vero e proprio bersaglio mobile), il tono torna serio quando si ricorda la difficoltà, negli anni di piombo, di adeguarsi e capire un fenomeno nuovo come quello del terrorismo armato “ Il diritto penale è un sistema di risposta ad un fenomeno. Davanti al fenomeno del terrorismo ci si dovette attrezzare con nuove norme e un diverso procedimento di indagine. Ciò che si perseguiva non era più il singolo fatto di reato ma il progetto eversivo all’interno del quale veniva compiuto. Le leggi anti terrorismo definivano un ambito al cui interno ci si muoveva con una certa libertà e non tutti credevano alla bontà delle norme emergenziali emanate in quel periodo”.
La vera nota negativa per Violante è che il terrorismo ha trasformato la figura e il ruolo del giudice: da persona preposta alla tutela della norma a giudice ‘di scopo’. Dalla fine degli anni ’60 e fino ai primi anni ’80 la finalità è stata quella di sradicare il fenomeno del terrorismo dal nostro Paese. Il dover però perseguire una finalità generale, e non condannare il singolo fatto di reato, ha portato ad una strumentalizzazione della funzione giudiziaria che ancora non è finita: “ Il dover colpire un ‘fenomeno sociale’ era giustificato all’epoca, dalla contingenza del momento, ma poi doveva finire lì. Colpire un ‘fenomeno’ generale è compito della politica. Attualmente, vuoi per la debolezza della politica attuale, tale ruolo continua ad essere affidato ai giudici, ma così facendo si strumentalizza il loro ruolo”.
Nell’intervento di Donato Castronuovo invece si fa il punto delle origini storiche della normativa penale d’emergenza, emanata negli anni di piombo per combattere il terrorismo, ma poi estesa ad altri fenomeni ‘straordinari’ come il traffico di stupefacenti, la piaga dei sequestri di persona e, non ultimo, la lotta all’evasione fiscale.
“ L’emanazione di norme straordinarie nel nostro sistema giuridico ha origini antiche. Risale all’emanazione, nel 1863, della legge Pica contro il fenomeno del brigantaggio, diffuso nel Regno delle due Sicilie, che stabiliva che ‘i componenti di comitive armate saranno giudicati dai Tribunali militari’. Da allora il nostro ordinamento si è conformato all’uso di norme emergenziali che, come quelle contro il terrorismo, di fatto costituiscono una deroga al codice penale e allo statuto dei diritto dell’Uomo. Negli anni ’70 e ’80 ci si allontana dal diritto penale ‘del fatto’ per diventare un diritto penale ‘dell’autore’. Si persegue non il reato ma la tipologia di autore che lo pone in essere”.
Le norme emergenziali, spiega il docente, hanno delle caratteristiche peculiari che le rendono volte a colpire anche gli atti preparatori di un determinato reato (l’apologia, l’addestramento e l’indottrinamento) ma, in una visione tutta italica del fenomeno, dalla legge Reale in poi hanno previsto al loro interno un sistema premiale per coloro che prendevano le distanze dai gruppi eversivi.
“ Molti- spiega Castronuovo- rivengono questa volontà di andare incontro al proprio nemico nella morale cattolica. Di fatto si tratta di un sistema negoziale in una logica di scambio: mentre la lotta al terrorismo istiga ad una reazione muscolare, il sistema premiale pone l’accento su tutti i comportamenti attivi di ravvedimento e dissociazione dalla lotta armata”.
‘La soave inquisizione’, come venne argutamente definita dall’avvocato e professore di diritto penale Tullio Padovani, criticata da molti giuristi, portò però nel nostro Paese alla mancanza di fenomeni estremi presenti invece in altri Stati europei, quali Germani, Francia, Spagna e Inghilterra, impegnati a loro volta nella lotta a fenomeni terroristici di matrice politica ed etnica.
“Il carcere era la vera pietra di scambio su cui si giocava tutta la partita- dice Violante- e se è vero che esistevano carceri inumane, come l’Asinara o quella di Lecce, tanti magistrati si adoperarono per un miglioramento delle condizioni di vita all’interno delle strutture carcerarie. Basti pensare all’istituzione delle Aree Omogenee, cioè la possibilità per i terroristi che ne facevano richiesta, di stare insieme nello stesso carcere. Era un esperimento guardato all’epoca con sospetto ma che portò, nel giro di alcuni anni, ad una accettazione da parte dei terroristi incarcerati della propria sconfitta politica”.
Simona Gautieri
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