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Vite di carta. Tre volte Ferrara

‘Tre volte Ferrara’, perché della mia città non ho scritto finora e in questo modo riguadagno terreno e perché la ritrovo protagonista di tre libri che ho letto, o riletto, in queste settimane.

Storia di Anna di Giuliano Giallini è il più recente in quanto è uscito nel febbraio del 2020. Mi ha affascinato la prospettiva da cui la protagonista conosce Ferrara dopo che vi si è trasferita per motivi di lavoro; infatti sono i luoghi bassaniani a farle da guida.

Il romanzo comincia così: ”Con Il romanzo di Ferrara, Anna Mantovani andava alla scoperta della città. Aveva venticinque anni. Tra le strade volava, rapida e curiosa. Un giorno fantasticò da Via del Pozzo, dove viveva in un minuscolo appartamento, fino alla Porta degli Angeli. La sua vita stava cominciando, finalmente la sua. Voleva prendersi ogni cosa. Anche il giardino dei Finzi-Contini”.

Di una così, che porta con sé la letteratura come fa la chiocciola con la sua casa, mi importa subito. Ho continuato a leggere chiedendomi quali angoli della città e quali atmosfere potevano colpirla di più, e se diventasse presto consapevole della bellezza che è diffusa e palpabile, specie quando è la nebbia fredda a spalmarla sulla pelle, o quando la canicola la fa bruciare con la sua luce bianca.

Mi ha intrigato vedere che Anna ben presto conosce Marco e se ne innamora sentendosi leggera. Seguono il matrimonio e la nascita di Giovannino. Come pars construens nella parabola di una vita è tutto perfetto. Però non mi lascio andare fino in fondo a gioire di tutta questa regolarità, temo che ci saranno cambiamenti.

Subentra infatti dalla pagina seguente un netto processo di peggioramento nella vita della protagonista, come del resto accade nel romanzo di Bassani, di cui parlerò tra un momento. Dopo il fallimento del suo rapporto col marito e i problemi di salute del figlio, Anna cede e attraversa un lungo periodo di buio, colta dalla malattia mentale che la tiene lontana dalla sua casa in Via Camposabbionario e dalla famiglia.

Qui interviene di nuovo la città: nelle sue uscite solitarie dalla struttura che la ospita, Anna è di nuovo di fronte agli spazi di Ferrara da percorrere in bicicletta. Non ci sono relazioni umane in questa fase di risalita dal buio che ha dentro; ci sono i dialoghi con la statua di papa Paolo V, ci sono solo gli sguardi su di lei dei passanti e degli automobilisti che la incrociano tra Viale della Costituzione e Viale IV Novembre. Il finale implicito del romanzo lascia credere che Anna ritrovi se stessa e una dose accettabile di libertà.

Le città del dottor Malaguti è un romanzo visionario del 1993, che Roberto Pazzi ha dedicato interamente alla sua città, tirandole le orecchie per la sua assenza di vitalità. L’ho riletto d’un fiato, spinta dalla storia difficile di Anna che si ammala nella indifferenza del suo contesto di vita, mi viene da dire che si ammala anche a causa della indifferenza che sente all’intorno. Il dottor Malaguti dal canto suo è morto ormai da vent’anni, ma non sa staccarsi dalle vicende dei suoi familiari e di Ferrara.

Pare che molti altri morti si aggirino soprattutto di notte tra le pieghe della città e si diano da fare per intervenire quaggiù, incapaci di partire una volta per tutte per il loro viaggio verso l’infinito. Nel romanzo, il cui finale lieto ristora il lettore, Ferrara è un luogo dotato di grande bellezza, ma privo di grandezza.

Fin dalle prime pagine il dottore, che è il narratore della storia, smaschera la malattia da cui sono colpiti i suoi abitanti, cioè l’arrivismo e la sete di ricchezza e prestigio da mettere in mostra: “se uno dei più tipici mali del secolo è vivere di rappresentazione agli occhi altrui, nessuno è più moderno e narcisista dei miei concittadini…

Per questa precoce coscienza del malessere della mia città, da ragazzo…decisi che all’università avrei studiato medicina per diventare oculista. L’età mi faceva considerare quel male come una miopia. Per quasi cinquant’anni ho cercato nella vista dei miei concittadini il segreto di una deformazione che, dall’anima, sembrava salita tutta agli occhi”.

Dopo la fase splendida del Rinascimento ferrarese la città è caduta nell’apatia, tradita dalla storia: partito l’ultimo duca del casato estense nel 1598,  “l’inerzia dei secoli successivi si è consumata come una degenerazione dell’anima: ne è nata l’attesa perpetua di un’epifania, di un padre che non ritornerà più”.

Nel suo romanzo Gli occhiali d’oro uscito nel 1958, Bassani rimette in campo la chiusura dei ferraresi, stavolta messi di fronte al tema della omosessualità attraverso la figura esemplare del dottor Fadigati, “Athos Fadigati, sicuro…, l’otorinolaringoiatra che aveva studio e casa in Via Gorgadello, a due passi da piazza delle Erbe, e che è finito così male, poveruomo, così tragicamente, proprio lui che da giovane, quando venne a stabilirsi nella nostra città dalla nativa Venezia, era parso destinato alla più regolare, più tranquilla, e per ciò stesso più invidiabile delle carriere…”

La storia si sviluppa tra la primavera e l’autunno del 1937, da quando il dottor Fadigati fa amicizia con il gruppo di studenti universitari che viaggia ogni mattina sul treno per Bologna e di cui fa parte il narratore. Nell’estate a Riccione scoppia lo scandalo della relazione amorosa tra Fadigati e il  giovane più brillante del gruppo, che gli si concede ma poi lo sfrutta e presto lo abbandona. Lo abbandona a se stesso e al disdoro delle famiglie bene di Ferrara, che frequentano la stessa spiaggia, lo condanna alla emarginazione da parte dell’intera città.

Il narratore, che veste i panni del giovane Bassani, rientra a Ferrara in autunno e condivide con Fadigati un feroce senso di esclusione: per il dottore a causa della sua omosessualità divenuta ora palese, per Bassani a causa della campagna denigratoria contro gli ebrei che si è scatenata sui giornali. Manca poco alla promulgazione delle leggi razziali e il clima si va facendo pesante, solo girando per la città fino al punto che gli è più caro, fino alla Mura degli Angeli, egli ritrova la bellezza che può placare il suo senso di lacerazione.

La provo a mia volta, poiché mi rendo conto di avere estrapolato dalle mie letture i poli di un contrasto antico che anima Ferrara, da una lato la bellezza delle sue vie e dei palazzi, delle torri e dei giardini, e poi delle chiese e dei monasteri. Dall’altro il grigiore del suo provincialismo.

In una pagina degli Occhiali d’oro Bassani nomina il mio paese, quando descrive il viaggio in treno da Ferrara a Bologna e ritrae coloro che salgono alle stazioncine intermedie come “gente della campagna che parlava già nello sguaiato dialetto bolognese” e precisa che “l’assalto die vilàn cominciava a Poggio Renatico”. Ecco, io di questa definizione dei miei compaesani mi sono adontata alla prima lettura, quando ero ragazza, e ancora mi procura un leggero fastidio.

Lessi queste parole e le misi in relazione subito con l’atteggiamento di superiorità che in quegli anni una delle sorelle di mia madre riversava su di noi, i parenti rimasti in paese, mentre lei aveva sposato un ferrarese e si era trasferita in città dalle parti dei grattacieli, alla ricerca vorace di un imborghesimento che la riscattava e di cui andò fiera per tutta la vita.

Le misi in relazione anche con l’indifferenza di alcuni miei compagni di liceo, che in cinque anni non seppero trovare un soprannome diverso da dedicarmi, se non il nome del mio paese. Ci ho poi insegnato per trentacinque anni, in questa città, cercando di aprirmi e di aprire lo sguardo dei ragazzi. L’ho apprezzata e anche amata.

Ancora non riesco a sottrarmi, però, alla empatia che provo davanti alla sofferenza delle sue vittime. Nei capitoli finali delle Città del dottor Malaguti si affaccia il nuovo scenario della migrazione, che nel ’93 Pazzi ha letto con lucidità e ne ha prefigurato gli sviluppi.

A parte la generosità tutta personale di Fabio, il nipote del narratore, che accoglie due giovani extracomunitari nella sua tenuta di campagna, la reazione della città è fatta di paura. Nella discussione che avviene in famiglia sulla migrazione dal sud e dall’est, il padre stesso di Fabio “si difende schierandosi dalla parte di chi teme nel diverso da sé il nemico”.

Per leggere gli altri articoli e indizi letterari di Roberta Barbieri nella sua rubrica Vite di cartaclicca [Qui]

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Roberta Barbieri

Dopo la laurea in Lettere e la specializzazione in Filologia Moderna all’Università di Bologna ha insegnato nel suo liceo, l’Ariosto di Ferrara, per oltre trent’anni. Con passione e per la passione verso la letteratura e la lettura. Le ha concepite come strumento per condividere l’Immaginario con gli studenti e con i colleghi, come modo di fare scuola. E ora? Ora prova anche a scrivere

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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