Tra elezioni e migrazioni. I danni del pensiero politicamente corretto
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Tra lo stupore ipocrita dei perbenisti, in mezzo allo sbraitare dei politici, si sta manifestando ciò che a ogni osservatore imparziale era del tutto ovvio da tempo: le migrazioni e i migranti sarebbero (sono) diventati il vero tema focale delle prossime elezioni.
Ne ho scritto più volte e in tempi non sospetti su Ferraraitalia, in particolare qui e qui.
I recenti discorsi intorno ai fatti di Macerata rappresentano, per ora (che su queste cose il fondo non si tocca mai), il punto più basso non solo della politica ma del profilo morale di certa Italia. Nelle Marche, in verità, un fatto simile era già successo qualche anno fa (omicidio di Fermo il 5 luglio 2016) scatenando i furori ciechi e quel proliferare di insinuazioni, rancori, odii e menzogne che oggi riesplodono, amplificati, in vista delle elezioni.
Al di là dei fatti criminosi su cui farà luce la magistratura, non si può negare che la concatenazione dei fatti avvenuti sia quanto di più perfetto potesse essere immaginato per dar fuoco alle polveri e scatenare quella violenza che da tempo cova sotto la cenere. Lo confermano la sequela di accuse e contro-accuse, le manifestazioni di piazza, gli scontri, gli insulti mediatici, gli articoli, le discussioni feroci sui social. Incombe su tutto il sospetto e la paura: in un colpo solo sembra che la sequenza criminosa sia riuscita a portare alla luce, contemporaneamente, tutte le mille contraddizioni che caratterizzano la migrazione in Italia e la cosiddetta accoglienza: le narrazioni opposte innanzitutto, gli schieramenti partigiani ottusamente schierati l’uno contro l’altro e poi – spigolando tra giornali e tv – disagio giovanile, irregolari senza permesso mantenuti in hotel a 4 stelle, spacciatori africani, mafia nigeriana, innocenti colpiti a tradimento, nullafacenti, droga e abuso giovanile, violenza sessuale, oscure ritualità tribali, giustizia privata, vendetta collettiva, violenza di branco, motivazioni politiche, ideologia, rancore etnico e razziale, disagio sociale, fake news di diversa matrice, minacce di morte, razzismo, scontro politico violento, accuse di presunte responsabilità morali. Certa destra che pone l’accento sull’omicidio minimizzando la sparatoria, certa sinistra che amplificando quest’ultima fino al parossismo tace sull’omicidio.
Forse stupisce un poco l’assenza – in una città come Macerata che pochi mesi fa (novembre 2017) aveva organizzato una Giornata mondiale contro la violenza sulle donne – di quei discorsi che accompagnano sempre la violenza di genere e il (cosiddetto) femminicidio. Forse non è il momento o, forse, il timore che possibili riflessioni in tal senso vengano frettolosamente accusate di razzismo è tale da convincere chi solitamente se ne fa carico a tacere.
Proprio dalla incontenibile pluralità di queste narrazioni voglio partire per mettere a fuoco un aspetto (uno fra i tanti) che ha contribuito e contribuisce ad alimentare un clima di odio e intolleranza tra italiani ancor prima che ad aizzare l’astio di una parte di questi contro i migranti, o, meglio, contro alcuni gruppi di essi. Si tratta di quel pensiero politicamente corretto che si è impadronito del nostro linguaggio sostituendo alla franca discussione sui fatti una serie di obblighi e di divieti linguistici sempre più invadenti.
Questo tipo di approccio, attentissimo a scovare ogni remota traccia eretica rispetto al pensiero mainstream, nel caso della migrazione, per anni, ha negato l’esistenza di un problema, infamando e accusando di razzismo, xenofobia e fascismo chiunque osasse mettere in discussione l’assioma che i migranti sono sempre e comunque una risorsa, che l’accoglienza è sempre e comunque giusta e doverosa, che l’accettazione deve essere incondizionata, senza se e senza ma.
Applicazione verbale, questa, che si riallaccia a quel cambiamento genetico di tutta la sinistra occidentale che – abbandonato il concetto di lotta di classe e la relativa retorica popolare centrata sulla difesa e la valorizzazione del lavoro – si auto-qualifica oggi, prioritariamente, come entità politica che agisce in difesa dei diritti delle minoranze (a onor del vero di alcune minoranze), intese come pure astrazioni portatrici di diritti codificabili in leggi, norme e regolamenti.
Di questo sentire, hanno fatto le spese perfino soggetti francamente insospettabili come la presidente Pd del Friuli Seracchiani, ferocemente attaccata per aver osato dire che “la violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede ed ottiene accoglienza” (maggio 2017).
Questo atteggiamento culturale diffuso e tutto centrato sulla difesa aggressiva dei diritti delle minoranze si traduce in una fortissima pressione sociale e ha contribuito a impedire che la costellazione di problemi reali connessi alla complessità dei fenomeni migratori venisse celermente alla luce, fosse francamente discussa e venisse affrontata seriamente partendo dai dati reali, riconoscendo i giochi geopolitici e gli interessi – a volte inconfessabili – dei diversi attori in gioco.
Invece, in nome di principi astratti politicamente corretti, si sono sottovalutati i rischi per la pacifica convivenza di un fenomeno così vasto ed esteso, che è stato anzi rappresentato come un emergenza temporanea e non come un drammatico fatto strutturale. Per anni si è taciuto (anzi: si è imposto il silenzio), evitando con cura di esplorare il fenomeno leggendolo sullo sfondo dei giochi geopolitici, della disoccupazione e della precarizzazione del lavoro, dell’impoverimento delle classi medio-basse, della concentrazione della ricchezza verso l’alto, della sostituzione del lavoro umano con le nuove tecnologie e della crisi irreversibile dello stato sociale.
Quindi gli eventi più scabrosi delle migrazioni sono stati negati platealmente, lasciando campo aperto a narrazioni alternative che hanno finito con l’alimentare quel processo di costruzione della paura, che ora, come era logico, si sta rivelando una moneta elettorale particolarmente preziosa.
Così, in ottemperanza ai principi politically correct, si è finito con il separare il piano degli intendimenti generali da quello della realtà quotidiana; si è eliminato l’ascolto dal basso escludendo quel popolo sovrano che, da base che era della democrazia, è ormai visto dalle elites politicamente corrette come nemico, giudicato con infamia secondo le regole di un’ideologia che pretende di avere sia la verità che la superiorità morale per porsi al di sopra di tutti. Questo atteggiamento perdurante, ha sostituito, alla scoperta e all’analisi dei sentimenti e delle ragioni che stanno alla base dei rumors e delle critiche rivolte alla cosiddetta accoglienza, il giudizio senza appello, la condanna a priori e la pubblica diffamazione a prescindere.
Alla doverosa e spassionata analisi dei fatti ha sostituito non di rado le accuse di complottismo e la retorica delle fake news (che pure esistono entrambe) per ridimensionare non solo le patenti sciocchezze ma anche le riflessioni più ponderate.
Al dovere di interpretare e affrontare il profondo disagio sociale (acuito dalla crisi che ha spostato ricchezza dal basso verso l’alto mettendo in competizione le fasce più deboli della popolazione), ha preferito la semplificazione, cosicché, quando esso si è (malamente) espresso, è stato sanzionato pubblicamente con il marchio dell’infamia, bollato sic et simpliciter come razzista, xenofobo e fascista.
(S)Qualifica che non di rado è stata affibbiata pure a quanti cercavano (e cercano) semplicemente di capire e raccontare un fenomeno enormemente complesso con concetti, teorie e parole diversi da quelli dell’ortodossia cosiddetta “buonista”. E a nulla sono valsi i richiami di quella parte di intellettuali progressisti capaci ancora di pensare con la loro testa al di fuori della gabbia di ferro della retorica politicamente corretta (cito in questo articolo su Ferraraitalia un intervento di Luca Ricolfi).
Paradossalmente (ma non troppo), tutto questo politicamente corretto sta fortemente contribuendo a costruire un nuovo muro tra italiani che ora sembra davvero difficile da superare: un esito tanto più stupefacente considerato che lo slogan “costruire ponti ed abbattere muri”, caro a papa Francesco, sembrava (e sembra) essere un principio condiviso, se non sostenuto con forza, proprio dagli elementi più influenti del pensiero politicamente corretto italico.
A fronte di questo, ora più che mai, servirebbero invece parole nuove che non siano mere etichette cognitive, idee che sappiano unire sentimenti, emozioni e ragione; dialogo capace di connettere punti di vista diversi; servirebbero coraggio per dire, con tatto, verità molto scomode, onestà intellettuale per cogliere ciò che di giusto può esserci in (quasi) ogni argomentazione, umiltà per accettare che una cosa sono i nobili principi ed altra la bruta realtà che sta sotto il naso; servirebbe fermezza per dichiarare che le regole servono e vanno rispettate da tutti; serve un minimo di orgoglio per tornare a sentirsi italiani, eredi e protagonisti di una grande cultura che avrebbe ancora qualcosa di buono da dire. Servono con urgenza azioni anche piccole, segni di discernimento e di distensione capaci di dare speranza al futuro. Bisogna uscire dai salotti dei talk show, analizzare i dati e le fonti, andare sul campo e capire la reale consistenza del problema partendo da un’attenta analisi degli interessi in gioco.
Adesso però il popolo dei “rincoglioniti” (cito il sottotitolo della trasmissione Otto e mezzo, andata in onda su la 7, venerdì 9 febbraio) deve andare a votare e lo farà, suppongo, seguendo la pancia, in barba alla verità rivelata e all’ottuso senso di superiorità morale dei profeti e dei militanti (non sempre pacifici) del pensiero politicamente corretto. Comunque vada però, questi hanno già chiare le colpe e le responsabilità e, a priori, hanno già emesso la loro inappellabile condanna: bisogna accogliere tutti senza se e senza ma, il problema migrazione non esiste, il disagio sociale è causato dai populisti mestatori d’odio razzisti e xenofobi.
Tra poche settimane vedremo con che risultati.
Bruno Vigilio Turra
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