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Sotto il fiume

Appena dopo l’assunzione avevo cominciato a intuire qualcosa, ma fu durante quell’inverno che tutto divenne chiaro e lampante. Erano passati dieci anni da allora e capii che l’azienda non aveva mai avuto bisogno di me. Seriamente. Appena imbarcato, per così dire, ero arrivato in porto: alla WineMouse Inc. non servivano le mie mani per costruire mouse. Le mani, per così dire, furono le prime parti del corpo a morire.

Gli attrezzi, come giocattoli abbandonati nella mia stanzetta da bambino, erano lì sul banco da lavoro a impedire il movimento piatto proprio di quell’oggetto, il mouse, accucciato nei pressi dello schermo. Si scorgevano, a terra i segni dello sgabello sul quale mi ero ingobbito ben bene come Snoopy in una sua celebre imitazione. Tra quei segni, mi sembrava di riconoscere le centinaia di impronte lasciate dalle scarpe che si erano succedute ai miei piedi, dalle adidas che mi portavo da casa nei primi anni, fino agli ultimi modelli aziendali sempre più protettivi con i puntali rinforzati e le suole rigide. Anche i piedi cominciavano a morire.

La casa, dove io e mia moglie Anna vivevamo, si trovava più in basso del livello del mare, gettandoci in un’angoscia soffocante e lagunare dall’umore grigio e salmastro come quello del fiume che immaginavamo passare, a pochi chilometri di distanza, sopra le nostre teste. Era inverno, neanche un po’ di neve per lasciare un’orma, e per tutta la stagione le strade sarebbero rimaste zuppe di nebbie impolverate e rimasugli di fiume, il cielo vuoto di stelle e luce, gli alberi fradici e sgocciolanti.

La città così piatta da non produrre ombre si era distesa ancora più in basso della nostra casa e mi ricordava, ancora una volta, il mouse fermo sul suo tappetino. Per tutto l’inverno le luci della festa rimasero sospese tra il frontone del duomo e la torre del comune in un inverosimile Gran Pavese.

Dal nostro balcone si vedeva la sagoma del liquidambar che abbracciava la facciata e la casa di fronte sfarinata dalla nebbia. La gente continuava a parlare di un inverno più umido del solito e in effetti il sole stentava ad asciugare le lenzuola. Il fiume gonfio si riversava dal cielo al mare. Gli impianti del polo industriale sbuffavano un affanno stanco. Le fabbriche stentavano a convertirsi. I topi scappavano; i… mouse pure.

Il nostro piccolo appartamento si trovava al secondo piano di un palazzo di mattoni, poco lontano dal fabbricone, come veniva chiamata da tutti, in città, l’area industriale. Ora anche noi, come gli altri condomini, avevamo il nostro problema di lavoro. Erano già tanti quelli che non riuscivano a pagare l’affitto. Al piano ammezzato c’era un uomo che percepiva il reddito di cittadinanza. Di sera lo vedevamo affacciato alla finestra accanto al portone di ingresso intento a fumare e alle sue spalle la televisione accesa. L’uomo aveva le dita ingiallite e una maglia, molto intima, dello stesso colore.

Al primo piano viveva una coppia di anziani. Non si sentivano. Non si vedevano. La donna telefonava per lamentarsi del rumore dei nostri passi per casa che disturbavano il marito che riposava. Sempre. A qualunque ora della notte o del giorno noi provassimo a muoverci per casa, puntuale arrivava lo squillo. Niente da dire: ci sentivano bene. Ogni settimana un volontario portava loro delle scatolette di legumi, qualche biscotto e del latte.

Da una settimana stavamo sperimentando, buoni ultimi, l’appartenenza ad una nuova categoria sociale. Mia moglie disoccupata, io in cassa integrazione, una bambina piccola ed un’altra in arrivo. Avevamo notato che le persone del palazzo non erano più le stesse. Ad esempio l’anziano dell’ultimo piano, che prima di me aveva perso il lavoro in fabbrica, nelle ultime mattine ci salutava più calorosamente. Da quando era in pensione non riusciva a starsene con le mani in mano ed ogni mattina si alzava, prendeva la bicicletta e girava per tutta la città. Fino a poco tempo prima , sentirmi uscire di casa per andare a lavoro, lo teneva in uno stato di mal dissimulata invidia, ma ora che mi sapeva disoccupato era scattata in lui una insospettabile solidarietà.

Tutto, apparentemente, sembrava procedere allo stesso modo delle precedenti passate stagioni,  ma le aziende cominciavano a chiudere davvero, i macchinari a fermarsi per tempi sempre più lunghi e anche la WineMouse Inc., che fino a poco tempo prima sembrava – così recitava lo slogan aziendale – “stringere il mondo in una mano”, stava tagliando il personale. Come qualunque altra risorsa, quella umana era la prima ad essere sfruttata e ad esaurirsi.

Pure se quasi tutto e tutti soffrivano l’inverno umido, nessuno faceva cenno alla primavera: di illudersi anticipatamente non se ne vedeva ragione.

Ma nell’ultima settima, la prima da disoccupato e con una seconda figlia in arrivo, dal nostro balcone io e Anna potevamo accorgerci dell’arrivo della primavera, perché… stavamo guadagnando tempo da perdere. All’inizio fu una nebbia più scucita con un’aria che filtrava dallo strappo proveniente dai colli lontani. Poi furono i rami del liquidambar che cominciarono a inzupparsi di un verde muschioso e a rigonfiarsi alle estremità apicali. Il cielo cominciò ad alleggerirsi e a stare decisamente più in alto – era la primavera, nessun dubbio. Per noi, poi, questa anticipazione era ancora più evidente per via del taglio di luce in cucina che colpiva la credenza per quasi tutta la sua altezza.

La primavera stava arrivando ma, nel resto della città, questo non faceva differenza. Eppure tutti ricordavano troppo bene una delle precedenti stagioni stagnanti e, in fondo in fondo, erano terrorizzati dal fatto di doverla rivivere. Nel passaggio dai campi agricoli alle ciminiere industriali non si erano preoccupati per le nuove necessità, ma solo a salvaguardare e conservare i loro svaghi: la caccia, i viaggi, le cene esclusive nei circoli. L’aperitivo serale.

Nessuno sembrava nutrire dubbi: tutto sarebbe ripartito un’altra volta. Il buono e il cattivo tempo non si mischiano tra loro, si alternano in cicli, a volte caotici, ma si alternano. Eravamo lì sotto il fiume, tutti a guardare la primavera arrivare come la grande onda di Hokusai.

Sabato mattina non uscimmo a fare la spesa come avevamo sempre fatto. Affacciati al balcone aspettavamo Piergiorgio che arrivò con una macchina scintillante per portarci nella sua casa di campagna. Ci mostrò quanto fosse veloce la sua nuova macchina aziendale e ci spiegò tutte le funzioni del computer di bordo. Poi scendemmo per una stretta strada di campagna e girammo intorno ad un enorme olmo che nascondeva completamente un viale d’accesso ricoperto di ghiaia.

Il casale di mattoni a vista, con il fiume a sinistra e il frutteto che arrivava quasi al fiume, era completamente ripulito e ordinato. Le pietre sembravano più squadrate e non v’erano tracce degli arbusti e dei fiori spontanei che un tempo spuntavano dalle fessure. Le api e altri insetti si accalcavano sui fiori alle finestre che la moglie di Piergiorgio aveva sistemato. Eleonora venne alla porta passando il dorso delle mani sul grembiule azzurro e toccò il pancione di Anna, poi si inginocchiò per abbracciare nostra figlia. Un calabrone che ci ronzava intorno la fece alzare di scatto. Agitando le mani disse che la primavera era arrivata e imprecò contro gli insetti.

Il cielo era così grande da riempire ogni cosa. Gli uccelli lo attraversavano come fossero miracoli. Alla fine del fiume, lì in fondo, sopra la nostra casa, sopra la città ogni cosa era ferma. I topi annegavano nei canali. In fabbrica nessuno più verificava il funzionamento dei mouse. Le finestre erano tutte chiuse.

Eleonora disse che la primavera era tornata e si accese nervosamente una sigaretta – Sì, è primavera – sussurrò felice Anna, muovendo dolcemente la mano sul pancione, quasi a voler aprire una nuova finestra sul mondo.

Cover: immagine tratta da https://pixabay.com/it/images/search/

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Giuseppe Ferrara

Giuseppe Ferrara – Nato a Napoli. Cresciuto a Potenza fino alla maturità Classica presso il Liceo-Ginnasio Q.O. Flacco. Laureato in Fisica all’Università di Salerno. Dal 1990 vive e lavora a Ferrara, dove collabora a CDS Cultura . Autore di cinque raccolte poetiche; è presente in diverse antologie. In rete è possibile trovare e leggere alcune sue poesie e commenti su altri poeti e autori. Tiene un blog “Il Post delle fragole”: https://thestrawberrypost.blogspot.com/

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