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“Se la vittoria ha molti padri, la sconfitta è orfana”, come sosteneva John Keats. E’ soltanto uno dei tristi volti con cui viene rappresentata la perdita: una condizione inevitabilmente frustrante che dà origine a sentimenti di infelicità, rabbia, insicurezza, rifiuto, desiderio di rimozione o rivalsa. Essere sconfitti brucia, a volte lacera, lascia spesso dietro di sé una scia vischiosa di rancore, rammarico, rimpianto e delusione, che rischiano di creare un terreno paludoso e mefitico che intrappola come le sabbie mobili, impedendo l’obiettività, la presa reale di coscienza, la ripartita. La sconfitta, come tema narrativo, gode di grande considerazione per le numerose sfaccettature che questa condizione offre, perché non si narra una vittoria, la si festeggia, mentre si racconta qualcosa che è irrisolto come una disfatta. Sembra quasi che la vittoria e la felicità non siano raccontabili mentre la sconfitta e la perdita assumono un interesse che le pone al centro.

Gran parte della letteratura ama gli sconfitti, i vinti, gli angeli caduti in disgrazia, i titani in crisi, gli eroi tolti ingiustamente a un destino glorioso. E l’elaborazione della sconfitta, nei romanzi e nella realtà, assume i toni più disparati, incredibili, inaspettati e a volte assurdi, che coinvolgono i singoli individui, nuclei familiari o interi contesti sociali. Nel romanzo di Israel Joshua SingerLa famiglia Karnowski‘ (1943), una famiglia di ricchi commercianti ebrei polacchi, migrati in Germania all’inizio del Novecento, negli anni Trenta dell’antisemitismo si vede costretta a lasciare tutto e fuggire negli Stati Uniti. I Karnowski ripartono da esuli in miseria, mendicando lavoretti di giornata. La loro grandezza sta nell’accettare la sconfitta della vita senza lamentarsi, riuscendo perfino a ironizzare sugli eventi nel tipico umorismo yiddish, alleggerendo la tragedia che è piombata addosso loro. Nel romanzo ‘Zorba il greco‘ di Nikos Kazantzakis, (1946), Zorba, lo strambo anarcoide di Creta vive tra successi e fallimenti in continuazione, che rappresentano la linfa della sua esistenza. Diventa riferimento di un giovane intellettuale, lo scrittore inglese Basil, con cui condivide progetti di vita che naufragheranno miseramente, senza scalfire più di tanto l’originale Zorba. Le sue ultime parole nel salutare l’amico prima che egli parta sono: “Ne ho fatte di cose nella mia vita, però non ne ho fatte abbastanza. Uomini come me dovrebbero vivere mille anni. Buonanotte!” Anche Giovanni Arpino scrive di un tragico insuccesso nel romanzo-cronaca ‘Azzurro tenebra‘ del 1977. Racconta della fallimentare spedizione della nazionale italiana di calcio ai mondiali tedeschi del 1974. Un’Italia che gioca male e viene eliminata subito, nonostante i grandi nomi presenti come Zoff, Riva, Facchetti, Mazzola, Rivera. E’ una squadra allo sbando che non sa sfruttare il proprio talento, incapace di valorizzarsi. Una partita amara che diventa metafora di un Paese, si legge tra le righe e le intenzioni di Arpino, che rispecchia quella fatica ad emergere e decollare come meriterebbe veramente.
Ma è nel durissimo saggio di W.G. Sebald del 2001, ‘Storia naturale della distruzione‘, che troviamo la totale difficoltà di elaborazione della sconfitta, quando l’autore solleva l’accusa agli autori tedeschi del periodo post-hitleriano, di non aver lasciato traccia in letteratura, delle macerie e del dolore della guerra e di una Germania in ginocchio, fino agli anni Cinquanta. Non si è avuto il coraggio di affrontare la disfatta, di entrare fino in fondo nella tragedia, tabù per molto, troppo tempo; non si è subito scritto delle maggiori città tedesche distrutte – prima fra tutte Dresda -, non si è parlato delle bombe, della sofferenza, della vergogna e del senso di vuoto. Una cristallizzazione del dolore durata anni, una rimozione temporanea che ha creato un vuoto letterario nell’immediato dopoguerra, stigmatizzata da Sebald.
E di fallimento parla anche ‘Ultimo parallelo‘ di Filippo Tuena (2007), il racconto dell’impresa di Robert Scott e della sua spedizione in Antartide. E’ il 1912 e Scott raggiunge con quattro compagni il Polo Sud a piedi, dopo una marcia di centinaia di chilometri nel ghiaccio. Per la prima volta l’uomo raggiunge il punto dove il mondo finisce. Ma subito l’amara scoperta: una spedizione norvegese capitanata da Amundsen li ha preceduti di cinque settimane. Al ritorno i cinque muoiono, sopraffatti dal clima e forse dallo sconforto profondo. Una storia di sconfitta, non di conquista, che mette in luce aspetti profondi dell’animo umano e ne sonda i limiti. Facile parlare di eroi: è più complesso parlare di sconfitti, perdenti, ammettere errori, allontanare presunzioni, raccontare di sfide all’impossibile, rabbia, frustrazione, ma anche voglia di riscatto. Scott ha lasciato i suoi diari miracolosamente salvati, ritrovati vicino al suo corpo, scritti finché le sue dita non si sono congelate definitivamente.
Vittorie e sconfitte diventano anche le protagoniste del libro autobiografico del tennista Andre Agassi, ‘Open‘, del 2011. Un raccontarsi fatto di sofferenza, un ricordarsi un padre dispotico che lo ha sempre costretto a ritmi massacranti, educato alla vittoria a tutti i costi, pianificando ogni aspetto della vita del campione che ha vissuto ogni vittoria come una messa in discussione e ogni partita persa l’ha fatto sprofondare. Nessuna vittoria ha mai spazzato via del tutto l’abisso e il dubbio in se stesso. “Adesso che ho vinto uno slam, so qualcosa che a pochissimi al mondo è concesso sapere. Una vittoria non è così piacevole quant’è dolorosa una sconfitta” scrive.

Trionfi e poi tonfi e cadute. Perdere ci mette a nudo, ci costringe a fare i conti con noi stessi e ci cambia. Ci deve cambiare. Ci obbliga a guardare in faccia le nostre debolezze, le fragilità, ci impone di capirci, di prendere atto di che sostanza siamo fatti e fin dove possiamo spingerci. Harper Lee, l’autrice di ‘Il buio oltre la siepe‘ scriveva: “Il vero coraggio, tu credi che sia rappresentato da un uomo col fucile in mano. Avere coraggio significa sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare egualmente e arrivare sino in fondo, qualsiasi cosa succeda. E’ raro vincere in questi casi, ma qualche volta succede. Ed è un grande momento”.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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