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Non tutte le sale d’aspetto in un ospedale hanno la stessa voce.
Ognuna è diversa nel timbro, cambia a seconda delle sale d’aspetto. A volte questo timbro è dolce ed esile, altre volte secco e squillante.
Le sale d’attesa dei servizi di oncologia ed ematologia non hanno voce: predomina il silenzio.
Un silenzio lungo, prolungato, a tratti soffocante.
Io ci sono stata.
Eppure le persone che sostano in quella sala d’attesa una voce ce l’hanno e per questo ho deciso di raccontare l’esperienza di due infermiere Donatella e Dorina che hanno prestato servizio rispettivamente in onco-ematologia e in radioterapia.
Loro quelle voci le hanno ascoltate. Ora sono entrambe in pensione.
Hanno svolto con orgoglio la loro professione raccogliendo la stima di tutti: colleghi e utenti.
La figura dell’infermiere è in prima linea nell’affrontare la malattia accanto al medico.
La professione infermieristica vive un momento di criticità: i giovani non la scelgono. Spesso chi la sceglie ad un certo punto della propria carriera lavorativa la lascia per fare altro.
L’argomento è molto complesso.
Tra l’altro chi lo tratta, spesso, è qualcuno che da tempo ha abbandonato l’operatività di questo lavoro.
Ho deciso, così, di dare spazio a chi è rimasto fino alla fine della propria carriera lavorativa chiedendo a loro: Come si fa a “rimanere”?
Donatella ha prestato servizio in ematologia e negli ultimi anni in onco-ematologia sede di Ferrara quando le due specialità si sono unite.
Quando le faccio la domanda rimane perplessa. Mi dice che a volte le è stato chiesto perché avesse scelto questa professione, ma per la prima volta qualcuno le chiede perché si rimane nella professione.
Donatella alza gli occhi quasi per cercare una risposta più in alto rispetto alla mia figura. Si tocca il mento e poi mi guarda dicendomi: “Fare l’infermiera non è come fare un altro lavoro. Non è sempre facile. Sono rimasta per i sorrisi, i pianti, le carezze delle persone che ho incontrato durante il mio percorso lavorativo.
Alcuni di loro li vedo ancora, quando vado a fare la spesa, faccio una passeggiata in centro o mi capita magari di andare a fare una visita.
Ho tifato per i pazienti che ho incontrato nel tentativo di raggiungere il traguardo della guarigione e quando questo non è stato possibile abbiamo deposto insieme le armi tendendoci per mano o guardandoci negli occhi.
Ci vuole il coraggio da parte di entrambi. Non lo si può fare se non te la senti”.
Dorina Adelaide è un’infermiera che ha lavorato in altre realtà prima di approdare in radioterapia. Una volta terminata la sua carriera lavorativa ha deciso di laurearsi in psicologia ed oggi, come volontaria, sostiene i pazienti e i loro famigliari in un punto d’ascolto presso la Radioterapia Oncologica di Ferrara.
Il colloquio con lei non è una tappa obbligatoria per chi affronta il percorso di cure radioterapiche, è riservato solamente a chi lo desidera.
La stessa domanda la faccio a Dorina. Rosicchia un’unghia, quasi cercasse un pensiero lontano – “Cosa mi ha fatto rimanere? La passione per il mio lavoro, la volontà di esserci per l’altro che ha bisogno e se lo ascolti ti orienta anche quando pensi di aver perso, anche solo per un istante la “bussola” per essergli d’aiuto.
Dal momento in cui ho iniziato a lavorare con utenti di radioterapia ho capito l’enorme ricchezza emotiva che mi trasmetteva il paziente oncologico raccontandomi il suo dolore, non tanto fisico che sicuramente avrebbe trovato soluzione, ma emotivo.
E’ il dolore che non puoi raccontare o non vuoi raccontare a nessun’altro se non a te stesso o a pochi altri.
Ecco perché ho pensato di aprire un punto di ascolto”.
La sera prima di mettermi a letto ripenso a tutti gli infermieri/e che sono rimasti, che non hanno teorizzato sulla professione, l’hanno vissuta. Ci hanno messo mente, forza fisica, cuore, anima.
Prendo in mano un libro che mi ha regalato anni fa un’oncologa. Non l’ho mai prestato per timore non mi fosse più restituito. Ogni tanto ne leggo alcune parti. Una di queste lo riporto qui.

C’era una grande forza che univa fra loro gli uomini di buona volontà e i sofferenti, una grande catena di affetto, di solidarietà d’amore… Per quella forza universale, ogni uomo che combatteva il dolore e la paura della morte era simile a quelle piccole formidabili cose di ogni giorno che noi sapiens sapiens ci perdiamo o non apprezziamo perché non abbiamo tempo e testa per farlo.
Tratto da L’albero dei mille anni di Pietro Calabrese.

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Marcella Mascellani

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