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di Elisa Gagliardi e Alice Magnani

Antenne di fortuna, bassi costi degli impianti, attrezzature fai-da-te e facilità di comunicazione furono gli ingredienti di base che negli anni Settanta determinarono la proliferazione delle radio libere. In un clima di fervore partecipativo favorirono il coinvolgimento degli ascoltatori con il meccanismo delle dirette, esaltarono il collettivismo e la vocazione libertaria del movimento studentesco.
L’attività di radiodiffusione è stata regolarizzata nel 1976, anno in cui la Corte Costituzionale ha sancito la liberalizzazione di un etere che già da un paio anni era stato in parte colonizzato da pionieri dell’emittenza autogestita che avevano sfidato il monopolio della Rai con trasmissioni radiofoniche pirata.

Tra le città italiane fu il capoluogo emiliano a battezzare, con “Radio Bologna per l’accesso pubblico”, il primo esperimento di radiofonia indipendente, funzionando da laboratorio anche per altre esperienze radiofoniche alternative destinate a lasciare il segno. Come quella dell’iconoclasta radio Alice che, prima di essere sequestrata dalla polizia nel 1977 delle contestazioni studentesche, fece in tempo a sovvertire i canoni della radiofonia ufficiale e a dirottare i propri ascoltatori sulle frequenze di Radio Città, chiamata in causa come fonte di “ulteriori informazioni” nei concitati minuti che precedettero lo sgombero delle forze dell’ordine. Quel numero telefonico comunicato in diretta «è tuttora il nostro recapito», svela con una punta di emozione Alessandro Canella, direttore di quella che, dal 2004, ha mutato il suo nome in “radio Città Fujiko” e, con la sua storia ultratrentennale, si attesta come una delle esperienze più longeve nella storia della radiofonia indipendente italiana.
«Radio Città nacque nel 1976 per iniziativa di una cooperativa di giornalisti della sinistra bolognese come radio libera privata», racconta Canella. Una storia di attivismo radiofonico legata a doppio filo agli ambienti del movimento antagonista bolognese e non immune all’inveterata mania per le scissioni che tanto ha condizionato le sorti dei partiti di sinistra: «Nel 1986 una costola della redazione fuoriuscì dal collettivo per dissensi politici dando vita a radio Città del Capo», ricorda ancora Canella, precisando che la divisione si consumò «tra un’ala più filo Pci e un’altra più vicina a Democrazia proletaria». Mentre Lucia Manassi, direttrice di Città del Capo, individua all’origine della diaspora «una divaricazione tra chi voleva restare ancorato a forze politiche strutturate e chi voleva che la radio continuasse a fare scelte editoriali in autonomia, svincolandosi da qualsiasi linea politica».

Mentre radio Città del Capo muove i primi passi nella prima sede di via Cartolerie, radio Città rinsalda la sua identità aggiungendo al suo nome storico il numero della frequenza occupata. Ed è da “Radio Città 103” che, nel 2004, si fonde con i ragazzi di radio Fujiko, emittente giovane, popolarissima tra gli studenti bolognesi, che l’editore Arci aveva sollevato dalle difficoltà economiche cedendone la frequenza a radio Città del Capo.
Pur connotandosi ancora come strumenti di evasione dal pensiero unico degli organi ufficiali, le emittenti superstiti della rivoluzione radiofonica degli anni ’70 hanno scelto di adottare una configurazione meno “situazionista”: «Al contrario di radio Alice – sottolinea Manassi – sia Città del Capo che l’originaria radio Città hanno sempre posseduto una struttura interna ben definita, con una composizione precisa della redazione e dell’organico». Anche se, come precisa Canella a proposito dell’attuale radio Città Fujiko, un retaggio della prima stagione delle emittenti libere sopravvive nell’assenza di «una struttura piramidale» e in un’organizzazione priva di gerarchie consolidate che «lascia molto spazio all’autonomia delle persone». Più ancorata all’irregolarità libertaria della prima ora appare radio Kairos, piccola emittente comunitaria inglobata nel Tpo di via Casarini, ed erede dell’esperienza di radio K Centrale, che negli anni ’90 aveva propagato nell’etere la protesta degli studenti militanti nella Pantera.

«Alle trasmissioni lavora un collettivo di 30 volontari», spiega Flavia Tommasini, direttrice dell’emittente, ma senza vincoli di palinsesto: «La programmazione risponde alla disponibilità del momento perché non possiamo contare sull’apporto di forze stabili». Così l’emittente ha detto addio agli spazi di informazione continua che gremivano inizialmente il palinsesto: «Abbiamo riflettuto sul tipo di radio che dovevamo essere e ci siamo detti che sarebbe stato meglio scavare nella propria comunità che sforzarsi di dare notizie in anteprima». Ora che Il lavoro di redazione si incardina sull’approfondimento delle questioni ritenute interessanti, l’unica finestra informativa sopravvissuta alla ristrutturazione è “Il caveau”, trasmissione mattutina di lettura dei giornali e interviste in onda dal lunedì al venerdì.

Fin dal nome le radio libere rivendicano la loro specificità: mentre quello di radio Città del Capo è un omaggio alle proteste anti-apartheid che a metà degli anni ’80 si tenevano in una delle capitali del Sudafrica, Città del Capo, appunto, radio Fujiko lo mutua dal personaggio femminile immaginario della serie di manga e anime “Lupin III” creata da Monkey Punch. Fujiko, detta anche Margot, «rappresenta un ideale di donna libera, furba e attiva, che ci sembrava potesse incarnare al meglio l’immagine di una radio indipendente», rivela Federico Minghini, detto Mingo, uno dei fondatori dell’emittente. Quanto al nome di radio Kairos, deriva dalla K di radio K Centrale, cui, al contempo, si aggiunge il concetto filosofico di Kairos, parola che, nell’antica Grecia, significava “tensione, momento giusto o opportuno, attimo in cui far accadere qualcosa”.

Quello che emerge dalla descrizione della pratica redazionale di questi operatori radiofonici è un attento lavoro di cesello che leviga il taglio informativo dei contenuti secondo criteri di correttezza e di rigore: «Battezziamo delle notizie nostre e le seguiamo fino in fondo – illustra Manassi – ma non ci affidiamo mai a voci di corridoio non confermate. Di solito verifichiamo le notizie incrociando due o più fonti, dobbiamo essere solidi in quello che facciamo, non possiamo permetterci querele, ci condurrebbero al fallimento» – conclude la responsabile di radio Città del Capo. «Non abbiamo la presunzione di essere imparziali, abbiamo la nostra linea di pensiero e non la nascondiamo», chiosa Canella, che aggiunge: «L’attenzione viene mantenuta alta sulla correttezza delle notizie. Non ci limitiamo a diffondere un lancio di agenzia, ma andiamo a scavare la problematica che emerge da un fatto, confrontando fonti diverse prima di dare una lettura delle notizie».

Quanto allo spettro dei temi privilegiati e al raggio di copertura dei notiziari, l’azione di questi avamposti dell’informazione alternativa si sprigiona in un’esaltazione del localismo, un saper stare sul territorio che non disdegna incursioni in scenari di interesse nazionale e internazionale: «Siamo radicati nella dimensione bolognese – chiarisce Manassi – ma non ci limitiamo a restare confinati nel recinto del locale, su temi come la musica, la cultura e la tecnologia, il nostro sguardo si fa globale». «Privilegiamo la questione dei diritti e delle diversità – sottolinea la responsabile di radio Kairos – e teniamo gli occhi puntati sui fermenti che animano la scena culturale cittadina». Ma i maggiori sforzi dell’emittente di via Casarini si concentrano sui temi della decostruzione di genere e sulla centralità del linguaggio, «importantissimo strumento di costruzione del pensiero su cui è fondamentale fare attenzione», per evitare che un suo uso tendenzioso continui a fuorviare le nostre costruzioni di senso su argomenti spinosi come l’identità di genere e l’immigrazione.

1.CONTINUA

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Redazione di Periscopio

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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