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Caro Francesco, da Valencia, e dunque scusa la concisione. 
In breve, elaborando un’intervista di qualche giorno fa, ho messo insieme 400 parole (non una meno, non una di più) per ricordare ancora Antonio Tabucchi, prima che scada con la fine del 2022 il decennale della scomparsa. Un po’ dovunque, non solo in Italia, ma anche all’estero, quest’anno è stata, oltre che di libri, una staffetta di testimonianze e ricordi. Dunque, dovendo parlarne a partire da una sola parola, quella di testimone (visti oltretutto i tempi bui che stiamo attraversando) mi è parsa particolarmente significativa. 
Splendida Valencia (ti mando una foto del locale dei tuoi ricordi. Ma incredibile tutta la parte moderna, fatta da Calatrava, compreso il teatro dove abbiamo visto una notevole Anna Bolena.)
Ti giro la mia schedina. Vedi se può interessarti.  Con un caro saluto
Anna

Per ricordare Antonio Tabucchi nel decennale della scomparsa, mi piace scegliere una parola come testimone, che ben lo rappresenta, come uomo e come scrittore.

Antonio (non solo nei libri – per semplificare mi limito a citare Piazza d’Italia e il dittico portoghese Sostiene Pereira e La testa perduta di Damasceno Monteiro – e tra gli scritti giornalistici L’oca al passo. Notizie dal buio che stiamo attraversando) è sempre stato testimone di accusa dinanzi alle ingiustizie, alle violenze perpetrate dai singoli e degli stati, testimone di accusa contro i facili accomodamenti, la pavida vigliaccheria, l’allineamento colpevole al potere.
Ma è stato anche un teste (dunque testimone a difesa) che si è speso per i più deboli, gli emarginati (si pensi a Gli zingari e il Rinascimento), offrendo il suo nome e la sua notorietà a sostegno della loro causa.

Eppure, detto questo, c’è un altro campo nel quale in un certo senso tutti gli altri si possono riassumere, visto che per esercitarli, da grande scrittore qual era, ha usato la penna e la scrittura è stata la sua vera voce.
Si tratta della testimonianza che ha reso continuamente in favore della cultura e della letteratura, che, se sono tali, aiutano a sollevare dubbi, a inquietare, a capire, insegnando a porre domande, dunque a crescere. Aiutano anche a vivere perché offrono gli spazi ludici dell’immaginazione e delle sue possibilità prospettando mondi complementari e alternativi rispetto a quello in cui viviamo e che inevitabilmente, in ogni senso, non basta.

Non è un caso allora che il suo romanzo più conosciuto dal pubblico, Sostiene Pereira, abbia come sottotitolo Una testimonianza, che  prospetti la storia di un’educazione sentimentale tardiva combinata alla riscoperta di una paradossale giovinezza, e che con il suo misterioso sostenere dinanzi a un destinatario non meglio individuato (la repressiva PIDE, la storia, un tribunale che indaga crimini contro l’umanità, lo scrittore?), inneschi un gioco di trasmissione della testimonianza, visto che delle parole di accusa di Pereira si fa carico lo scrittore che le trasmette a noi perché continuino ad avere vita.

Il lettore senza accorgersene finisce così per collaborare con il testo, con l’autore, preso dentro il lascito etico che Tabucchi ci ha lasciato insegnandoci, con Celan, che ci vuole sempre qualcuno che prenda il testimone, che testimoni per i testimoni che sono stati costretti al silenzio dalla sopraffazione, dal tempo, dal caso, o dalla morte.

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Anna Dolfi

Anna Dolfi, professore emerito dell’Università di Firenze (dove ha insegnato fino al 2018 Letteratura italiana moderna e contemporanea), è Socio Nazionale dell’Accademia dei Lincei. Tra i maggiori studiosi di Leopardi, di leopardismo, di ermetismo, di narrativa e poesia del Novecento, ha progettato e curato volumi di taglio comparatistico dedicati alle “Forme della soggettività” sulle tematiche del journal intime, della scrittura epistolare, di malinconia e malattia malinconica, di nevrosi e follia, di alterità e doppio nelle letterature moderne, e raccolte sul tema dello stabat mater, sulla saggistica degli scrittori, la riflessione filosofica nella narrativa, il non finito, il mito proustiano, le biblioteche reali e immaginarie, il rapporto tra notturni e musica, letteratura e fotografia, ebraismo e testimonianza. Dopo due libri su Tabucchi (“Antonio Tabucchi, la specularità, il rimorso”, 2006; “Gli oggetti e il tempo della saudade. Le storie inafferrabili di Antonio Tabucchi”, 2010), ha curato per la Feltrinelli l’ultimo, postumo libro di saggi dello scrittore (“Di tutto resta un poco. Letteratura e cinema”, 2013). Su Bassani imprescindibili i suoi libri che ne leggono l’intera opera alla luce della malinconia e delle strutture e proiezioni dello sguardo (“Giorgio Bassani. Una scrittura della malinconia”, 2003; “Dopo la morte dell’io. percorsi bassaniani ‘di là dal cuore'”, 2017). A sua cura l’edizione critica e commentata delle “Poesie complete” di Bassani (Feltrinelli, 2021).

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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