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I sette nani e l’angelo della morte

Sono molte le atrocità nel mondo
e moltissimi i pericoli:
Ma di una cosa sono certo:
il male peggiore è l’indifferenza.
Il contrario dell’amore
non è l’odio, ma l’indifferenza;
il contrario della vita
non è la morte, ma l’indifferenza;
il contrario dell’intelligenza
non è la stupidità, ma l’indifferenza.
È contro di essa che bisogna
combattere con tutte le proprie forze.
E per farlo un’arma esiste:
l’educazione.
Bisogna praticarla, diffonderla,
condividerla, esercitarla sempre e dovunque.
Non arrendersi mai.
(Elie Wiesel, scrittore di origine ebraica sopravvissuto all’Olocausto, premio Nobel per la pace nel 1986)

PREMESSA
A volte, pronunciando certe parole o certe frasi ci si immagina che il loro significato sia chiaro per tutti, che non ne derivino fraintendimenti, che siano talmente riconoscibili da non temere il rischio dell’ambiguità.
Credo invece che quanto più diamo per scontato il significato, tanto più siamo superficiali nel considerare il contesto culturale altrui simile al nostro.
Ad esempio, quando io uso l’espressione: “bene comune” penso che sia chiara, che chi legge capisca a cosa mi riferisco, che cosa intendo con questa espressione (potrei riferirmi all’acqua, alle risorse naturali, all’istruzione pubblica o comunque a qualcosa che realizzi il bene di una comunità).
Lo do per scontato perché penso che certe persone possano farmi credito di fiducia riconoscendosi nel mio stesso contesto culturale, nei miei riferimenti etici e politici.
Ma questa mia operazione mentale non può essere seria perché le ambiguità si possono evitare solo dopo aver esplicitato quel contesto e dimostrato di muoversi verso quell’orizzonte.
Per spiegarmi meglio userò alcune frasi di Heinrich Himmler, Ministro dell’Interno della Germania nazista, proprio sul “bene comune“.
“Gli oppositori del nazismo sono scarafaggi, esseri nocivi e abietti. Distruggerli, non solo non è peccato, ma significa operare per il bene comune, agire a favore della razza e della nazione tedesche.
Zingari, ebrei, pazzi ed emarginati, la lista di coloro che si dovrà imparare a maltrattare senza battere ciglio, a umiliare, a torturare e, per finire, ad asfissiare nella totale impunità e senza l’ombra del minimo rimorso, è lunga”.
Ne deduco che l’espressione “bene comune” non sia la stessa per noi e per Himmler: noi usiamo sullo sfondo il verbo “rispettare“, il ministro nazista usa invece il verbo “distruggere“.
Pertanto mi verrebbe da sintetizzare che il concetto di “bene comune” non sia di per sé bello, positivo, progressista ma che esso sia relativo al contesto socioculturale e politico di riferimento. Sarà solo quest’ultimo a creare il vero significato della parola e a dare senso alle azioni conseguenti.
Lo stesso principio vale naturalmente quando usiamo il sostantivo “cittadini” (quali destinatari di quel bene comune) e qualunque altro termine che riguardi soprattutto gli altri, in un modo più o meno diretto.

PROLOGO
Aktion T4 era il programma pensato dai nazisti per sopprimere le persone con disabilità.
I seguaci del Terzo Reich, dopo la campagna di sterilizzazione, decisero di passare infatti all’eliminazione fisica di bambini ed adulti.
Alcune stime parlano di oltre ottantamila persone uccise dal Terzo Reich, altre invece di quasi duecentomila esseri umani.
Un numero enorme ma sempre una piccola parte rispetto ai 15 milioni circa di esseri umani, vittime dell’Olocausto: ebrei, omosessuali, zingari, dissidenti politici, slavi e testimoni di Geova che il ministro Himmler definiva: “sottoumanità da estirpare“.

PERSONAGGI ED INTERPRETI
Josef Mengele: un giovane tedesco di bella presenza, socievole, educato e ben istruito.
Laureato dapprima in antropologia all’Università  Ludwig Maximilian di Monaco e successivamente in medicina alla Johann Wolfgang Goethe-Universität di Francoforte.
Nel 1940 si arruolò come volontario nell’esercito tedesco.
Nel maggio del 1943, a 32 anni, entrò nel campo di concentramento di Auschwitz dove iniziò i suoi esperimenti di eugenetica usando le persone deportate come cavie umane.
È conosciuto anche come “L’Angelo della morte“.
Rozika, Franziska, Avram, Frieda, Micki, Erzsebet e Perla Ovitz: sette fratelli: cinque femmine e due maschi, rumeni di origine ebraica (nati in Transilvania come Elie Wiesel), affetti da pseudoacondroplasia, che è una delle forme più comuni di nanismo.
Insieme formavano la Compagnia Teatrale “I Lillipuziani” che girava l’Europa dell’Est proponendo uno spettacolo basato su canti, balli e sulla loro inesauribile ironia.
Furono catturati in Ungheria e deportati ad Auschwitz alla fine del mese di maggio 1944.

TRAMA
Al dottor Joseph Mengele brillarono gli occhi quando quelli che per lui erano “I sette nani” arrivarono ad Auschwitz.
Perla Ovitz, a cui si deve la maggior parte delle testimonianze, ricorda che il medico nazista esclamò: “Ho lavoro per i prossimi vent’anni”.
Fu lui che decise di non ucciderli subito; ma non per pietà.
Lui li voleva vivi per i suoi crudeli esperimenti.
Fu così che i sette fratelli diventarono i suoi “preferiti”.
Ottennero qualche privilegio: fu permesso loro di portare i propri vestiti, di tenere una ciotola per lavarsi e di avere dei vasini da notte, tolti ai bimbi uccisi, per i loro bisogni.
In cambio subirono esperimenti tremendi e torture insopportabili, gli prelevarono quantità infinite di sangue e midollo, li sottoposero a continui raggi X, gli versarono acqua bollente e poi gelata nelle orecchie, gli strapparono i denti sani e i capelli, iniettarono sostanze nell’utero delle donne e li costrinsero ad altre atroci malvagità.
Un giorno il dottor Mengele fece uccidere un papà e un figlio acondroplasici, arrivati al campo tre mesi dopo di loro. Voleva esporre le loro ossa in un museo di Berlino perciò ordinò di bollire i loro corpi finché carne e ossa non si fossero separate.
I sette fratelli pensarono fosse finita anche per loro invece il medico nazista li portò in un convegno di alti ufficiali nazisti: li umiliò esponendoli nudi per dimostrare chissà quale teoria.
Fra un esperimento ed una tortura, gli Ovitz furono costretti a cantare e a ballare per il dottor Mengele ed i suoi collaboratori.
In questa sorta di girone infernale i sette fratelli riuscirono, incredibilmente, a vivere sette lunghissimi mesi ad Auschwitz sopportando crudeltà di ogni genere.
Nel gennaio 1945, quando i russi li trovarono erano in condizioni disperate, fra la vita e la morte; ma sopravvissero.
Riuscirono a tornare a Rozalia, il loro villaggio in Transilvania, quindi emigrarono in Israele nel 1949, dove si spensero nel corso degli anni.
Il dottor Joseph Mengele invece, finita la guerra, scappò in Brasile dove visse indisturbato fino al 1979 quando, durante un bagno nell’oceano, fu colto da un attacco cardiaco.
Perla Ovitz visse fino al 2001; grazie a lei si può raccontare la tremenda storia dei “Sette nani di Auschwitz“.

CONCLUSIONI
In questa trama non ho usato aggettivi per descrivere in maniera negativa i criminali nazisti; ciò non perché io non li consideri tali ma per evidenziare quello che Hannah Arendt scrive ne “La banalità del male“: “Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco né mostruoso; non erano persone particolarmente malvagie o perverse, ma banali cittadini che obbedivano più o meno inconsapevolmente all’autorità costituita“.
Questa conclusione, se possibile, genera ancor più terrore perché spiazza e fa indignare.
“Banali cittadini che obbedivano” è quasi un ossimoro perché nessun cittadino dovrebbe essere banale ma consapevole e nessun cittadino dovrebbe obbedire quanto piuttosto rispettare coscientemente o contestare criticamente le leggi.
Mi viene da dedurre quindi che anche l’espressione “cittadini” abbia più contesti di riferimento pertanto non sia di per sé bella, positiva e progressista e che il concetto di “cittadino” sia relativo al contesto socioculturale e politico di riferimento.
Per quanto mi riguarda, onde evitare fraintendimenti derivanti da una mancata chiarezza rispetto allo sfondo culturale, mi affretto subito a dire che, quando uso il termine “cittadini“, per me l’orizzonte di riferimento rimane l’articolo 3 della nostra Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale  e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.“
Se poi non fosse sufficientemente chiaro il significato che attribuisco alla parola cittadino, potrei farmi aiutare da un contrasto: quello fra partecipazione ed indifferenza.
Molto prima che in Tiergartenstrasse n°4, ad Auschwitz ed in altri luoghi spaventosi succedesse qualcosa di tragicamente inaudito per colpa dei militari nazisti e di “banali cittadini che obbedivano“, Antonio Gramsci, nel 1917, aveva immaginato una Città Futura ed in un capitolo intitolato “Indifferenti” aveva spiegato la sua idea di cittadini, scrivendo fra l’altro:
“Non possono esistere i solamente uomini, gli estranei alla città. Chi vive veramente non può non essere cittadino, e parteggiare. Indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. (…)
L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. (…)
Ciò che avviene, non avviene tanto perché alcuni vogliono che avvenga, quanto perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia fare, lascia aggruppare i nodi che poi solo la spada potrà tagliare, lascia promulgare le leggi che poi solo la rivolta farà abrogare, lascia salire al potere gli uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. (…)
Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti.“
Ricordo di aver avuto fra le mani, tempo fa, la copia di una preziosissima lettera che Giuseppe Mazzini aveva indirizzato a Carlo Mayr; la iniziava rivolgendosi a lui con il termine: “Cittadino“.
Forse oggi ci sembrerebbe spersonalizzante ricevere una lettera da qualcuno che ci chiama “cittadino” ma lì, in quel contesto, quell’espressione era talmente potente ed emozionante che riusciva a sottintendere tutta la forza ideale di cambiamento condivisa fra i due, tutta la sintonia di un senso di appartenenza che rappresentava il loro orizzonte di riferimento condiviso e ben definito.
C’è bisogno di lavorare ancora molto per costruire un vero orizzonte di cambiamento che riesca a formare cittadini attivi, critici, istruiti e consapevoli.
Io penso che occorrano impegno, tempo e pazienza ma che ci sia anche bisogno di proteggere le radici solide della nostra Costituzione, cresciute nel terreno della Resistenza, se vogliamo che l’albero della Democrazia cresca sano e robusto.
Infatti “i meccanismi della costituzione democratica sono costruiti per essere adoperati non dal gregge dei sudditi inerti, ma dal popolo dei cittadini responsabili e trasformare i sudditi in cittadini è miracolo che solo la scuola può compiere.“ (Piero Calamandrei, 1946)

FONTI
– Yehuda Koren e Eliat Negev “In Out Hearts We Were Giants – the remarkable story of the Lilliput Troupe” Carroll & Graff, 2004 (Nei nostri cuori eravamo giganti – La storia eccezionale della Compagnia Teatrale Lilliput).
– Warwick Davis “The Seven Dwarfs of Auschwitz” (I sette nani di Auschwitz), ITV
– Claudio Arrigoni, “Come gli Ovitz sopravvissero al’Olocausto“, in Invisibili

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Mauro Presini

È maestro elementare; dalla metà degli anni settanta si occupa di integrazione scolastica degli alunni con disabilità. Dal 1992 coordina il giornalino dei bambini “La Gazzetta del Cocomero“. È impegnato nella difesa della scuola pubblica. Dal 2016 cura “Astrolabio”, il giornale del carcere di Ferrara.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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