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Presto di mattina, anche oggi, forse intravediamo all’orizzonte, insieme all’aurora, il desiderio di prossimità che fa breccia in noi, smuovendo un poco la coltre delle pesantezze e dei pensieri notturni. La volontà muove libera i suoi passi tra le pieghe e gli strappi delle nostre fragilità, per distendere o ricucire la nostra quotidiana risposta di responsabilità al vivere della gente. Certo non mancano anche stamattina quelle afflizioni che non ci abbandonano mai nello sprofondo del cuore. Eppure anche oggi percepiamo, almeno un poco, un poco ancora, di essere in compagnia di presenze luminose, silenziose, soccorritrici e solidali, che lasciano orme sul nostro cammino: sono i santi e i beati.

Così in punta di piedi mi preparo, per domani, a varcare con voi la soglia della festa di Ognissanti e poi, il giorno dopo, quella dei beati, che è la memoria viva dei nostri cari che ci sono passati avanti, braci sotto la cenere ancora ardenti, ma nascoste. Pur vivendo nell’ombra della luce, «nella rugiada senza fine», essi non si sottraggono alla nostra compagnia, né alla familiare mensa; sono ancora sulla stessa nostra strada, ma un poco oltre, come quando la vita al modo di una strada sembra scomparire dietro una curva sotto i nostri sguardi smarriti e tuttavia la nostra incredula fede, attende trepida, ancora una volta, di lasciarsi prendere per mano dalle mani ormai sciolte e libere, e dal garbo mite e forte del Risorto dai morti che sussurra nel vento: “Oh Pasqua che sciogli ogni pena, che perdoni ogni colpa, tu restituirai agli abbracci e ai baci coloro che si amano!”.

Scrive Maria Zambrano: «Dal fondo della solitudine e ancor più dell’infelicità, se è dato che una finestra si apra, si può, affacciandosi a essa, vedere, poiché avanzano lontani e intangibili, i beati. Essendo gli esseri perfettamente felici, si fanno presenti, si manifestano, soltanto quando l’infelicità è più profonda»; essi vivono «nel grazie e nel sì», esseri di silenzio «per avvicinarsi a loro, tocca partecipare in qualche modo della semplicità che è la loro condizione» (I Beati, SE, Milano 2010).

Sulle prime, la Festa di Ognissanti e la Memoria dei defunti sembrano ricorrenze talmente differenti e contrastanti da apparire, così appaiate, stridenti, anzi stonate; il nostro animo è infatti costretto a passare come per una porta stretta, dalla letizia al pianto, dalla speranza allo sconforto. Una dissonanza visibile anche nei colori dei paramenti liturgici che cambiano di brusco dal bianco della festa al viola del lutto, mutando con ciò anche la diversa intonazione della preghiera: prima il Gloria e subito dopo il De profundis.

Nondimeno si tratta di ricorrenze quanto mai prossime e spiritualmente unite. Ognissanti è la vita risorta e vittoriosa che discende nell’oscurità dei nostri lutti e distacchi per mutarne la sorte; memoriale della discesa agli inferi del Risorto che riconduce, dalle tenebre di morte alla luce della sua nuova vita, l’Adamo e la sua discendenza. Ma ancor più prossime per l’identico vangelo proclamato in entrambe le celebrazioni, quello delle Beatitudini: è questo il legame di amore che le tiene perfettamente unite.

Cosa sono dunque le beatitudini? Rivelazione di un amore che non dimentica che non prende sonno. E, con le parole di una mistica Madeleine Delbrêl, sono «Gioie venute dal monte. Poiché le parole non son fatte per rimanere inerti nei nostri libri ma per prenderci e correre il mondo in noi, lascia, o Signore, che di quella lezione di felicità, di quel fuoco di gioia che accendesti un giorno sul monte, alcune scintille ci tocchino, ci mordano, c’investano, c’invadano. Fa’ che da esse penetrati come “faville nelle stoppie” noi corriamo le strade della città accompagnando l’onda delle folle contagiosi di beatitudine contagiosi di gioia. Perché ne abbiamo veramente abbastanza di tutti i banditori di cattive notizie, di tristi notizie: essi fan talmente rumore che la tua parola non risuona più. Fa esplodere sul loro frastuono il nostro silenzio che palpita del tuo messaggio. Nella ressa confusa senza volto fa’ che passi la nostra gioia raccolta, più risonante che le grida degli strilloni di giornali, più invadente che la tristezza stagnante della massa», (La gioia di credere, Torino 1994, 40-41).

Ho anche ritrovato in questi giorni uno scritto del poeta libanese, cristiano maronita, Khalil Gibran, il quale dà voce a diversi personaggi del vangelo, tra cui riporta le parole dell’apostolo Andrea alla morte del suo Maestro: «L’amaro della morte è meno amaro della vita senza di Lui. I giorni sono immobilità e silenzio da quando Lui è stato messo a tacere… Una volta lo sentii dire: “Seguite il desiderio che vi porta tra i campi, sedete tra i gigli: li sentite parlare sommessamente nel sole. Non tessono la propria veste, né si costruiscono un riparo di legno o di pietra, eppure cantano. A loro provvede Colui che lavora nella notte, e la rugiada della sua grazia è sui loro petali. Non è forse anche per noi la cura insonne e instancabile?», (Gesù figlio dell’uomo, SE, Milano 2009, 122).

Questo inatteso ritrovamento mi ha spinto a ricercare così l’interpretazione delle beatitudini proposta dallo stesso Gibran dando voce all’apostolo Matteo: «Un giorno nel tempo del raccolto Gesù ci chiamò sui monti con altri compagni. La Terra era colma di fragranze e indossava come figlia di re che vada sposa, tutti i gioielli: suo sposo era il cielo. Quando giungemmo sulle alture Gesù si ergeva immobile nel bosco degli allori. Ci disse: “Sedetevi. Regni la pace nella vostra mente e l’armonia nel vostro cuore perché molto ho da dirvi”. Allora ci disponemmo sull’erba, i fiori dell’estate erano ovunque, Gesù sedette tra noi e disse:

Beati coloro che sono sereni in spirito.
Beati coloro che non sono posseduti da ricchezze perché saranno liberi.
Beati coloro che conservano memoria del dolore e nel dolore attendono la gioia.
Beati coloro che hanno fame di verità e di bellezza, perché la loro fame porterà pane, e acqua di fronte la loro sete.
Beati i benevoli, perché saranno consolati dalla loro benevolenza.
Beati i puri di cuore, perché saranno una cosa sola con Dio.
Beati i misericordiosi, perché avranno in sorte la misericordia.
Beati coloro che operano la pace, perché il loro spirito vivrà al di sopra della battaglia e trasformeranno il campo del vasaio in un giardino.
Beati coloro che sono inseguiti perché avranno ali e il loro piede sarà veloce.
Gioite e rallegratevi perché avete trovato il regno dei cieli è dentro di voi»,
(ivi, 37).

Un’ultima suggestione infine, quella ispirata dall’accostamento di un passo del profeta Isaia con uno scritto di Cristina Campo, all’amica, per Ognissanti: «Maria Luisa quante volte/ raccoglieremo questa nostra vita/ nella pietà di un verso, come i Santi/ nel loro palmo le città turrite?» (La tigre assenza, Milano 1991, 31). Sono diverse le rappresentazioni di santi che sorreggono nel palmo delle mani aperte – segno di custodia e di cura – le architetture dei luoghi e delle città, in cui resero al vivo il discorso di Gesù sul monte dei beati. Mi ricordo, per esempio, le raffigurazioni della beata Beatrice II d’Este che stringe a sè con la mano il suo monastero o lo sorregge sul palmo della mano. Ma anche il dipinto di Francesco del Cossa del san Petronio con il modellino della città di Bologna tra le mani ed ancora, con lo stesso soggetto, la scultura di Pierpaolo dalle Masegne, nel museo civico medievale della città dalle cento torri.

Allo stesso modo il passo di Isaia ricorda, con l’identico simbolismo del palmo della mano, la cura di un Dio che raccoglie il suo popolo disperso tra le genti, lo raduna dall’estremità della terra e lo riconduce al suo riposo nella città della pace, non più straniero. Egli non lo ha dimenticato «perché forte è il suo amore e la sua fedeltà dura per sempre» (Sal 117 [118], 2). Così Isaia: «Sion ha detto: “Il Signore mi ha dimenticato”. Si dimentica forse una donna del bambino che allatta, cessando d’aver pietà del frutto delle sue viscere? Anche se costoro si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, sulle palme delle mie mani ti ho disegnato, le tue mura sono sempre davanti a me» (49, 14-17).

Ma se le cose stanno così, perché non credere, fosse pure con occhi piangenti, che anche noi non siamo dimenticati dai nostri cari, e pure loro, davanti al Risorto, tengono disegnati i nostri volti sul palmo delle loro mani aperte?

 

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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