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Presto di mattina. In ogni cosa c’è una parola che attende

Rorate cieli de super

«… Finché un poeta inseguirà l’umano di Dio nei suoi versi, avrai materia per i tuoi mattutini. Non scoraggiarti e non temere, mio caro don». Così un carissimo amico mi ha scritto dopo l’ultimo mattutino a refrigerio dei miei “arsi calami”. Come rugiada, la sua parola amica, nel cespuglio arido, dal quale tuttavia, nell’umido della notte rinasce una promessa di parole nuove, ancora rosate, irrorate, asperse – dice la sua raffinata etimologia.

E così ricambio l’amicizia con parole antiche ma molto rugiadose: quelle di Ugo Foscolo nell’Adelchi (Coro Atto IV):

Come rugiada al cespite
Dell’erba inaridita,
Fresca negli arsi calami
Fa rifluir la vita,
Che verdi ancor risorgono
Nel temperato albor;
Tale al pensier,
Discende il refrigerio
D’una parola amica.

Così le parole nascoste negli steli riarsi delle espressioni logorate dall’uso sono come il Messia veniente cantato dal salmo 109 (110): “dal seno dell’aurora come rugiada sono generate». E allora sì «Rorate! stillate ancora o cieli dall’alto» e anche voi poeti continuate senza posa, perché si possa trovare ancora questa umanità di Dio che attende in ogni cosa.

Oggi il pensiero religioso e la stessa teologia soffrono di autoreferenzialità, prigionieri o di un linguaggio specialistico o di un devozionalismo superficiale, estetico e non estatico, senz’anima. Entrambi mancano di un’intima immaginazione, del soffio vitale. Eppure continuando su questa strada non avranno futuro. Senza immaginazione creativa, incapaci di pensare e dire l’umano di Dio, che attende in ogni cosa, in ogni esperienza, in ogni avvenimento e relazione, lo stesso vangelo resterà muto.

Scrive il teologo Pierangelo Sequeri: «Nella comunità cristiana come anche, rispettivamente, nella società civile, la teologia è praticamente senza peso. In entrambe, sia pure con le debite differenze, la dichiarazione di non voler aver nulla a che fare con la teologia dei teologi suona come un crisma di attendibilità, e rispettivamente di autenticità della testimonianza della fede.

La fede non è un’ideologia, non è una teoria, non è una morale, non è una politica, ripetono tutti. In questo senso, i più coraggiosi aggiungono: non è neppure una teologia. Naturalmente, tutto questo ha una sua essenziale verità: la fede non è una teoria» (Vita e pensiero, 4 2021, 71-72).

La teologia e il pensiero religioso devono così tornare a dischiudere il mistero nascosto in ciascuno e in ogni cosa, a partire dall’esperienza umana di tutti gli uomini. E lo potranno fare a condizione di un mutamento dell’immagine del divino e di un recupero della dimensione estetico-affettiva.

Continua Sequeri: «Diverso è l’orizzonte, se il campo di conoscenza e di azione del regno di Dio – ossia il piano del realismo della fede – è il mondo dato, la vita esistente, l’umano che è comune. Il futuro secolare avrà una teo-logia se la teologia cristiana cesserà di essere un semplice strumento di addestramento dottrinale del personale ecclesiastico…

Non sono necessariamente gli intellettuali più frequentati dalle accademie teologiche. Ma lo dovranno diventare, nel futuro della teologia. Perché nell’epoca che viene la teologia che scaturisce dell’adorazione di Dio in spirito e verità farà tesoro della testimonianza della samaritana e del pubblicano, non dell’isolamento dei leviti e dei sacerdoti» (ivi, 74; 76).

Per selve a me oscure perché la via era smarrita

walt whitman foglie d'erbaE così oggi ho intrapreso un sentiero sconosciuto verso quella selva oscura che è Foglie d’erba, l’opera poetica di Walt Whitman. Foglie d’erba che a un tempo simboleggiano il singolo, distinto e unito nell’uguaglianza agli altri individui, fili d’erba in una lussureggiante distesa di un popolo.

Inizio un cammino, ma non da solo, in compagnia di una buona guida, Antonio Spadaro sj. Scrittore, critico letterario e direttore de La Civiltà Cattolica, studioso della letteratura italiana e di scrittori statunitensi, e in particolare di Whitman. E così grazie a lui dal filo d’erba spero di riuscire a veder le stelle e in carne d’uomo e di donna il verbo incarnato e amante.

Credo che un filo d’erba non valga meno del lavoro
giornaliero delle stelle,
E la formica è parimenti perfetta, e un granello di sabbia,
e l’uovo dello scricciolo,
E il rospo volante è un chef-d’oeuvre supremo,
E la mora di rovo ben potrebbe ornare i saloni del cielo,
E la più sottile giuntura della mia mano si fa beffe di qualsiasi
macchinario,
E la mucca ruminante a testa bassa la vince su ogni statua

Credo che le zolle fradice diverranno un giorno amanti
e fiaccole,
E che compendio dei compendi sia la carne di un uomo
o di una donna,
E che culmine e fiore sia il sentimento che l’uno nutre
per l’altra

Io credo che quelli come te dovranno star per forza con le
mie poesie, e che anzi sono loro stessi le mie poesie,
poesie dell’uomo, della donna, del bambino, del ragazzo,
della moglie, della madre, del padre, del
giovane e della giovane. 
(Foglie d’Erba, Meridiani, Milano 2017, 141; 139; 237)

“Quel premere, quel premere delle onde verso terra. Eternamente in cerca della riva” (ivi, 1147)

L’opera poetica di Whitman consiste, si radica e si amplifica nella visione di una terra, sull’immensità sconfinata della sua terra, compresa non tanto nel suo essere ma nel suo divenire. Un popolo e una terra proiettati verso un futuro oltre le frontiere. I suoi scritti stanno al centro del canone letterario statunitense. Testi a cui la comunità ha riconosciuto un particolare valore, la cui influenza ha segnato anche la letteratura italiana del novecento.

Sarebbe meglio dire allora che le sue parole, i suoi versi, attestano piuttosto un’aspettativa insperata e pur attesa; l’attesa di una visione, come onde sempre in cerca di un nuovo approdo. Uno sguardo che guida il presente con una mano amica verso ciò che gli sta oltre.

Altri adornano il passato – ma voi, oh giorni presenti, siete voi che io
adorno!
Oh giorni del futuro, io credo in voi!
Oh America, poiché tu costruisci per l’umanità, io costruisco per te!
Oh scalpellini tanto amati! Guido quelli che decisi e abili, fanno
progetti,
Guido il presente con mano amica verso il futuro.

Questa notte sono felice,
Mentre guardo le stelle che brillano, mi viene un pensiero sulla
chiave dell’universo e del futuro.
(Foglie d’erba, Newton Compton Editori, Roma 2014, 268; 335).

Scrive Antonio Spadaro che quello di Whitman è «il tendere inesausto verso una novità radicale, la profezia di un rapporto pieno tra l’uomo e la sua terra, di una fratellanza radicale tra gli uomini, di una laboriosità maestosa che sia reale con-creazione del mondo, l’attesa di una parola “vera” che dica la realtà e non resti solamente appesa a fantasie. Ogni verso di Whitman vive dell’immagine realizzata di questo desiderio» (La Civiltà Cattolica, 3671, 2003, 440).

Celebro me stesso,
E ciò che immagino tu immaginerai,
Perché ogni atomo che appartiene a me appartiene davvero anche a
te.
Io fantastico e invito l’anima mia,
Mi adagio e fantastico a mio piacimento, soffermandomi su un filo
d’erba estivo
(ivi, 196).

La verità della terra non è una massima, ma un principio vitale.

Infinita ricerca è allora la sua poesia, quella di parole che attendono solo in ciò che vive, solo ciò che è vivo e rende vivi.

Tenere insieme gli uomini con carte e sigilli, o con la forza, a nulla
serve,
Solo ciò che è principio vitale tiene gli uomini uniti, come ciò che
unisce le membra del corpo o le fibre delle piante.
(ivi, 269)

La verità nell’uomo non è una massima, ma è parte vitale come la
vista,
Lì dove c’è un’anima, lì è la verità – dove c’è un uomo o una donna,

è la verità – dove c’è uno spazio fisico o morale, lì è la verità,
Se c’è volontà o equilibrio, lì è la verità – qualunque cosa vi sia sulla
terra, lì è la verità.
O verità della terra! O verità delle cose! Sono pronto a percorrere
tutta
la strada verso di te,
A sondare la tua voce! Dietro di te io scalo montagne o mi tuffo nel
Mare
(ivi, 232-233).

In lui, pertanto, la creatività poetica non è semplicemente espressione del sentimento o immaginazione fantastica, ma confronto con la vita, slancio vitale suo e di un intero popolo: slancio vitale che sboccia più fragrante delle rose dalle vive gemme, quando le piogge estive le gonfiano di rugiada. È un’immaginazione concreta, celata nel reale proprio perché partecipata e condivisa:

La terra non si nega, ma piuttosto è generosa,
Le verità della terra aspettano di continuo, e non sono neppure così
nascoste,
Sono calme, sottili, incomunicabili sulla carta,
Sono impregnate di ogni cosa e con gioia entrano in relazione,
Comunicando un sentimento e un invito della terra – non mi stanco
di
ripetere,
E io non parlo, ma se tanto tu non mi senti, a cosa ti posso servire?
Generare – migliorare – se manca questo, a cosa posso servire?
(ivi, 432)

Mentre guardo le stelle che brillano, mi viene un pensiero sulla
chiave dell’universo e del futuro
(ivi, 335).

Le verità attendono in tutte le cose

«Occorre lasciar vivere questa attesa, scrive Spadaro, e leggere Foglie d’erba come un libro che a partire dal presente dice un paradiso che sempre vivrà nel cuore dell’uomo, al di là di ogni realizzazione storica di quell’ideale… il desiderio e l’attesa di una pienezza umana al di là di ogni compimento», (Spadaro, 441).

Ogni verità attende in ogni cosa,
Non affretta il proprio parto né oppone resistenza,
Non ha bisogno del forcipe del chirurgo,
L’insignificante per me è grande quanto il resto,
Che cosa è più o meno importante del toccare?
La logica o un sermone non convincono mai,
L’umidità della notte arriva più a fondo nell’anima mia.
Solo ciò che arriva a dimostrarsi a ogni uomo o donna è quel che è,
Solo ciò che nessuno smentisce è quel che è
(Meridiani, 139)

Resta da chiarire un dubbio, si domanda ancora Spadaro: «Whitman è il bardo degli Stati Uniti? È, insomma, solamente un poeta nazionalista o liberista? Sarebbe un abbaglio sostenerlo. È l’ampia storia della ricezione dei suoi testi a dirci che non è così. I suoi versi, radicati in una terra e in un popolo, sono in grado di parlare a chiunque, come dimostra il numero e la varietà di scrittori che a lui si sono ispirati» (ivi, 433).

Non è lui allora, anche se “celebra se stesso”, il messia del nuovo mondo. Il messia veniente e presente al tempo stesso lo riconosce semmai nel volto di un giovane morente: «un volto né infantile né adulto, calmissimo, di un bel tono d’avorio, / O giovane, io credo di conoscerti – credo che questo è il volto di Cristo, / Morto, divino e fratello di tutti: che qui di nuovo è morto» (ivi, 442).

Il Cristo è sempre oltre, in divenire e tuttavia nascosto e in attesa nell’umanità dei suoi fratelli e sorelle: «Ricordati di Cristo, fratello dei reietti – fratello degli schiavi, dei criminali, degli idioti e dei matti e dei malati… Se non riesci ad afferrarmi subito, non ti scoraggiare, Se non mi trovi in un posto, cercami in un altro, Io da qualche parte mi fermo ad aspettare te» (Foglie d’erba, Newton Compton 370; 155).

Camminando e navigando attraverso lo spazio e il tempo

«Spazio tempo! Ora vedo che quel che intuivo era vero, quel che intuivo reclino sull’erba…/ E ancora camminando sulla spiaggia sotto le stelle che al mattino impallidiscono» (ivi, 126-127).

Così, per Whitman, la strada, le frontiere dei mondi, gli approdi dei mari, degli universi spirituali ed esistenziali costituiscono i luoghi in cui incontriamo gli impeti e le delicatezze delle sue visioni e il venire alla luce della sua immaginazione. Non le crea le immagini, ma le riceve strada facendo, lo attendono in ogni cosa. Così lungo la via canta le gioie della vita, le gioie di tutti: della natura e degli uomini e delle donne in cammino.

Camminando:

Sopra le floride canne da zucchero, sopra la pianta di cotone,
sopra la bassa umida risaia
Sopra il grano saraceno bianco e bruno, vibrante e frusciante
Come tutto il resto.
Sopra il verde scuro della segala che s’increspa e fa ombra nella
brezza,
Scalando montagne, sollevandomi con prudenza, reggendomi su rami
bassi e scheletriti,
Camminando lungo il sentiero battuto nell’erba e battendo contro le
foglie degli arbusti,
Dove la quaglia fischia tra i boschi e i campi di grano,
Dove il pipistrello vola nelle serate di luglio, dove il grande scarabeo
d’oro cade giù attraversando il buio,
Dove la trebbiatrice batte il tempo sul pavimento del fienile,
Dove il ruscello sgorga dalle radici di un vecchio albero e scorre
verso il pascolo.
(ivi, 127-128).

Conosci tu le gioie eccellenti della giovinezza?
Le gioie dei cari compagni e della parola allegra e del
viso ridente?
La gioia del lieto giorno radioso, la gioia dei giochi di ampio
respiro?
La gioia della dolce musica, la gioia della sala sfavillante
e dei ballerini?
E tuttavia, O anima mia suprema!
Conosci tu le gioie dell’assorto meditare?
Le gioie del cuore libero e solo, del cuore tenero e mesto?
Le gioie della passeggiata solitaria, dello spirito piegato
ma fiero, della sofferenza e della lotta?
Gli spasimi dell’agone, le estasi, le gioie delle solenni
riflessioni diurne o notturne?
Essere un marinaio nel mondo alla volta di tutti i porti
Esser la nave stessa (a guardare queste vele che dispiego al sole e all’aria).
Una nave veloce gonfia di vento, colma di parole preziose,
colma di gioie
(Meridiani, 421-423; 425).

Vai! Uno ti cammina accanto

E strada facendo, attraversando le colline della Giudea, Whitman incontra pure lo “splendido Dio gentile” che gli si avvicina e cammina con lui giorno e notte, quando arretra e quando avanza, quando è pieno e quando è vuoto, instabile o bramoso e conosce tutte le sue vie.

Approdando ad ogni porto per traffici e avventure,
Trascinato dalla folla moderna avido e volubile come chiunque altro…
Camminando per le antiche colline della Giudea, con lo splendido
Dio gentile [beautiful gentle God by my side] al mio fianco

Correndo [speeding thru] attraverso lo spazio, correndo attraverso il cielo e le stelle,
Correndo attraverso i sette satelliti, e l’ampio anello, e il diametro di
centomila chilometri,
Correndo con stelle comete, gettando globi di fuoco come fanno gli
altri,
Infuriando, gioendo, programmando, amando, ammonendo,
Arretrando e riempiendomi, apparendo e scomparendo,
Giorno e notte percorro queste strade
(ivi, 153-155)

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica quindicinale di Andrea Zerbini, clicca sul nome della rubrica o il nome dell’autore.

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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