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«A una fermata del metro − L’apparizione di questi volti nella folla/ Petali sopra un ramo umido, nero» (Ezra Pound).

Un’epifania del volto nei sotterranei della storia, nel ventre oscuro della città, petali chiaroveggenti. Noi non giungiamo a noi stessi, né veniamo alla luce senza un’epifania dell’altro e senza il manifestarsi delle cose.

L’epifania del volto funge da orientamento, facendoci attraversare fitte e umide nebbie sino a schiarirci dentro, nell’oscurità dell’esistere. Mostrandoci cosa è in gestazione, cosa si esprime e si incarna nella realtà – la sua consistenza più intima – l’epifania traccia un sentiero asciutto attraverso l’umano palustre.

Di più. L’epifania del volto, come volto d’altri, apre l’umanità e in essa vi scopre il suo segreto: la gioia promessa, la possibile fraternità: «Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima». (Mt 2,10).

Non si giunge a noi stessi e non si nasce davvero alla vita se non attraverso l’altro. Non si dà ex-sistentia neppure atto di essere – l’esistente – senza uscita fuori di sé, senza un’epifania, senza l’altro: il suo volto; l’etimologia del verbo esistere esprime l’apparire, l’essere fuori, l’emergere da, il manifestarsi, essere a partire da qualcuno.

Abbiamo bisogno di questa luce che viene dall’alto/altro, che si riceve prima, che ci è donata e poi ridonata per poter corrispondere in maniera coerente alla vocazione cui ciascuno è chiamato nel momento in cui entra in questo mondo.

Nella poesia di Ezra Pound [Qui] l’immagine poetica dei petali come volti è il mondo impenetrabile, sotterraneo, nascosto e inaccessibile dell’altro, che affiora e si dà a conoscere, sorprendendo.

Qui le parole poetiche vengono alla luce da un’epifania: come guidate da una stella, ci pongono in presenza di una realtà altrimenti inaccessibile senza il suo rivelarsi e il venire incontro dell’altro: «Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva»; urge nel cuore allora il mettersi in cammino, porsi alla sua sequela recando doni.

Bisogna qui chiarire l’esperienza da cui trae origine la poesia di Ezra Pound, scritta nel 1926, dopo un viaggio all’interno della metropolitana parigina di La Concorde; il fatto è ricordato da Charles Taylor [Qui] (Radici dell’io. La costruzione dell’identità moderna, Milano, 1993, 576).

Il poeta «vide improvvisamente “un bel volto, un altro, un altro ancora, e di nuovo un bel volto di bambino e una donna piacente”. E aggiunge: “Per tutta quella giornata cercai di trovare parole capaci di esprimere ciò che essi avevano significato per me, ma non riuscii a trovarne nessuna che mi sembrasse degna di quella improvvisa emozione”. Pound scrisse la poesia dopo più di un anno, e dopo numerose false partenze».

Per il filosofo Emmanuel Levinas [Qui], nell’epifania del volto viene alla luce anche l’Assoluto. Così come nel semplice incontro di un uomo con l’altro uomo si gioca l’essenziale della vita, parimenti nell’epifania del volto dell’altro scopro che il mondo mi appartiene solamente se lo posso condividere con l’altro.

Il mistero nascosto nell’umano si rivela nella prossimità del volto altrui: è lì di fronte al mio sguardo, davanti a me, presente e alla portata della mia libertà che deve allora decidersi ogni volta all’azione verso un gesto di complicità o di aggressività, di rifiuto o di accoglienza ospitale. L’infinito dell’umano viene alla luce nell’epifania del volto.

Per Enrique Dussel [Qui] uno dei fondatori del movimento Filosofia della Liberazione, che ha sviluppato temi di etica e di filosofia politica, «il volto del povero è epifania di Dio. Egli viene incontro a noi nel povero e nell’oppresso. Così ogni atto gratuito verso il povero, l’oppresso, l’altro, anche se gratuito, è nella sua origine un atto di giustizia, si dà all’altro ciò che è ricevuto dall’Altro».

Scrive Ricardo Noceti: «L’Altro Assoluto appunto rivela la sua realtà assente propriamente nel povero, il quale non si autoafferma nel potere o nella ricchezza (che non possiede), ma rimanda al di là di se stesso, al di là dell’ente.

Il volto del povero è veramente – al di là di tutti i fenomeni che esistono – l’epifania di Dio; la sua indigenza diventa invocazione dell’infinitamente Altro. L’Assoluto infatti è il Principio (origine) e l’Ultimo (Futuro). L’Origine si rivela nella storia; l’Ultimo salva da tutto ciò che è caduco nella storia.

Orbene, ciò significa che, da una parte, nella presenza ‘enigmatica’ del povero si rivela l’Origine e, dall’altra, in lui si annunzia anche l’Ultimo, verso la cui Gloria cammina la storia… L’esistenza del povero in cui si rivela l’Infinito è la pro-vocazione e il richiamo ai profeti perché s’impegnino nella sua liberazione».

Con la colonizzazione spagnola delle Americhe nella forma di una conquista e in ogni altra forma di asservimento e predazione è proprio il valore di epifania del ‘volto’ dei popoli conquistati e delle persone schiavizzate che non si vuol riconoscere. Voltando loro le spalle i volti scompaiono sotto una terra divenuta disumana; solo il grido dei poveri testimonia del volto negato e attende la sua epifania avvenire» (R. Noceti, “Enrique Dussel. Il volto del povero epifania di Dio” in: Quale Dio?, Quaderni Salesianum, 13 Roma 1987, 102).

E ora una storia, quella del quarto Re Magio (tratta da L’altro Re Magio di Henry van Dyke [Qui] 1852-1933, il testo di Gthamban).

«Nell’antica Persia, in una città di nome Ecbatana, viveva un uomo chiamato Artaban. Artaban faceva parte di una remota comunità di studiosi zoroastriani conosciuti come Magi. Gli Zoroastriani erano astrologi e credevano nella ricerca del bene e della luce.

All’apparire di una Stella più lucente delle altre, Artaban annunciò alla sua comunità che presto avrebbe raggiunto altri tre Magi, per cercare con loro il Re d’Israele appena nato. Venduti tutti i suoi beni, Artaban comprò tre preziosissimi gioielli: uno zaffiro, un rubino e una perla. Voleva portarli con sé per farne omaggio al Re.

Cominciò così il viaggio di Artaban.

Quando partì, aveva solo dieci giorni per incontrarsi con i tre compagni al monte di Nimrod, presso il Tempio delle Sette Sfere. Ma, mentre Artaban si avvicinava al Tempio, il giorno dell’incontro, vide sulla strada un uomo agonizzante, che si lamentava. Che fare? Dare una coppa d’acqua a quell’uomo morente o proseguire, affrettandosi per raggiungere gli altri Magi? Dato che i Magi non erano solo astrologi, ma anche medici, Artaban si fermò. Con la sua perizia e la sua sapienza assistette per ore l’infermo, lo curò, fin quando non gli tornarono le forze.

Dopo essere ripartito e dopo aver raggiunto il luogo dell’appuntamento, Artaban scoprì che i suoi amici se n’erano andati. Fu così costretto a vendere lo zaffiro per comprare una carovana di cammelli per affrontare il prosieguo del viaggio.

Arrivò a Betlemme proprio mentre i crudeli soldati di Erode stavano massacrando i bambini innocenti di quella città. L’uscio di una casa era aperto, e Artaban poté ascoltare una mamma che cantava la ninna nanna al suo bambino.

La donna gli disse che i suoi amici Magi erano giunti a Betlemme tre giorni prima. Avevano trovato Giuseppe e Maria e il loro bambino, e avevano lasciato i loro doni ai suoi piedi. Quindi erano scomparsi misteriosamente com’erano arrivati. Giuseppe aveva preso sua moglie e suo figlio ed era partito in segreto. Girava voce che fossero andati molto lontano, in Egitto…

All’improvviso, all’esterno della casa, rumori, grida, confusione, pianti di donne. E poi un grido disperato: “I soldati di Erode stanno uccidendo i bambini.” Artaban si affacciò all’uscio e vide una banda di soldati che correva per strada, con le spade sguainate e le mani insanguinate.

Il capitano raggiunse la porta, ma Artaban lo fermò e gli diede il rubino, chiedendogli di lasciare in vita la mamma e il suo bambino. Quindi Artaban, sempre seguendo il Re, raggiunse l’Egitto, cercando dappertutto le tracce della piccola famiglia che era fuggita prima che arrivasse a Betlemme.

Per 33 anni, Artaban continuò a vagare alla ricerca del suo Re, spendendo la sua vita aiutando i poveri e i malati. Alla fine, arrivò a Gerusalemme, nei giorni della Pasqua. C’era una grande commozione a Gerusalemme.

Improvvisamente, una donna, fatta schiava per debiti, mentre veniva trascinata in catene dai soldati, si gettò ai piedi di Artaban. Prendendo l’ultimo dei suoi tesori, la perla, lo diede alla ragazza: “È per la tua libertà, sorella! È l’ultimo dei tesori che avevo tenuto per il mio Re”.

Mentre Artaban parlava, un forte terremoto scosse la città. Fu colpito a morte dal crollo di un muro, stava per morire senza aver trovato il suo Re. Sentì che la ricerca era finita, ed egli aveva fallito. Fu trovato dalla giovane schiava riscattata, la quale, abbracciando quell’uomo vecchio e morente, udì una voce dolcissima, accorgendosi poi che le labbra di Artaban si muovevano lentamente come parlasse con qualcuno.

Artaban diceva “Ah, Maestro, ti ho tanto cercato. Dimenticami. Una volta avevo preziosi regali da offrirti. Adesso non ho più nulla.” Si sentì rispondere: “Artaban, tu mi hai già dato i tuoi doni.” Artaban: “Non capisco, mio Signore.”

Allora quella voce inconfondibile tornò a farsi sentire, e la donna poté udirla chiaramente. “Quando ero affamato, mi hai dato da mangiare, quando avevo sete, mi hai dato da bere, quando ero nudo, mi hai vestito. Quando era senza un tetto, mi hai preso con te.”

Artaban: “Non è così, mio Salvatore. Non ti ho mai visto affamato, e neanche assetato. Non ti ho mai vestito. Non ti ho mai portato nella mia casa. Per trentatré anni ti ho cercato, ma non ho mai visto il tuo volto e non ti ho mai aiutato, mio Re. Non ti ho mai visto fino ad oggi.”

Gesù rispose: “Quando hai fatto queste cose per l’ultimo, per il più piccolo dei miei fratelli – tu le hai fatte per me.” Artaban si rivolse alla donna che aveva liberato dalle catene: “Hai sentito che dice Gesù? Abbiamo trovato il Re. L’abbiamo trovato ed egli ha accettato tutti i miei doni.”

Sospirò a lungo con brevi respiri fino all’ultimo. Il suo viaggio era finito. I suoi regali erano stati accolti. L’altro Re Magio aveva trovato il Re. E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. (Mt 25, 40).»

Per leggere gli altri articoli di Presto di mattina, la rubrica di Andrea Zerbini, clicca [Qui]

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Andrea Zerbini

Andrea Zerbini cura dal 2020 la rubrica ‘Presto di mattina’ su queste pagine. Parroco dal 1983 di Santa Francesca Romana, nel centro storico di Ferrara, è moderatore dell’Unità Pastorale Borgovado che riunisce le realtà parrocchiali ferraresi della Madonnina, Santa Francesca Romana, San Gregorio e Santa Maria in Vado. Responsabile del Centro di Documentazione Santa Francesca Romana, cura i quaderni Cedoc SFR, consultabili anche online, dedicati alla storia della Diocesi e di personaggi che hanno fatto la storia della chiesa ferrarese. È autore della raccolta di racconti “Come alberi piantati lungo corsi d’acqua”. Ha concluso il suo dottorato all’Università Gregoriana di Roma con una tesi sul gesuita, filosofo e paleontologo francese Pierre Teilhard de Chardin.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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