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La vicenda dell’orsa Daniza uccisa in Trentino, probabilmente non per errore, durante un tentativo di cattura e la scoperta in Abruzzo della carcassa di un altro orso, pare avvelenato, hanno scatenato in rete una quantità di reazioni molto accese, che alla fine e al di là degli episodi specifici rimandano all’irrisolta questione del rapporto etico che gli umani dovrebbero instaurare con le altre specie con cui condividono il pianeta. Dalla lettura dei social network e della stampa emergono posizioni che quasi sempre si collocano agli estremi: da chi pensa che la vita di un essere vivente è ugualmente preziosa indipendentemente dalla specie a cui appartiene, salvo poi non specificare quasi mai quali criteri etici vadano applicati qualora occorra necessariamente operare una scelta, a quelli che sostengono che gli esseri umani hanno il diritto di esercitare una potestà assoluta sulla natura di cui sono gli indiscussi signori e padroni, semmai rifacendosi ad una presunta investitura divina o comunque in quanto ritenendoli specie dominante.
Queste concezioni così distanti si riflettono inevitabilmente sul concetto di “ambiente naturale” che viene proposto nei diversi interventi. Così, mentre da un lato si tendono a sottovalutare il grado di antropizzazione e la densità abitativa dell’Italia che, diversamente da quanto accade altrove in Europa e per tacere degli USA, fanno del nostro paese uno dei luoghi più affollati del pianeta, dimenticando che molte specie selvatiche necessitano di spazi vitali dell’ordine di parecchie decine se non centinaia di chilometri quadrati, dall’altro emerge una visione brutalmente antropocentrica e strettamente funzionale alle presunte esigenze della nostra specie o, meglio, a quelle di alcune specifiche categorie economiche.
Allo stesso modo emergono spesso, sostenute con grande convinzione da parte di persone, viene da dire, che non hanno mai visto un gatto “giocare” con un topo o quello che rimane di un pollaio in cui sia riuscita a penetrare una volpe, posizioni che rimandano all’idea di una natura “buona” a prescindere, in cui gli animali uccidono solo e sempre per stretta necessità di sopravvivenza, come se l’aggressività umana fosse un accidente evolutivo e non un’eredità. Effetto probabilmente questo dei cartoni della Disney visti nell’infanzia, dell’assimilazione degli animali selvatici ai propri amici a quattro zampe e di una vita trascorsa prevalentemente in città o in spazi aperti “artificiali”. Ad esse si contrappongono concezioni altrettanto apodittiche che enfatizzano senza fondamento i gravi ipotetici rischi a cui escursionisti, agricoltori e pastori andrebbero incontro in ragione della presenza di qualche predatore sul territorio.
In mezzo a tanta polemica sono dell’idea che occorra ribadire che in medio stat virtus. Non in ossequio ad un anodino ed un po’ vigliacco principio di equidistanza fra due minoranze molto determinate, ma semplicemente perché la questione cui si alludeva all’inizio, quella cioè se esistano regole intrinseche che disciplinino il rapporto fra l’uomo e le altre specie, è in sé indecidibile, per quanto in molti continuino a provare di dimostrare il contrario. Per rendersene conto basta, da un lato, ricordare che se si considera l’uomo una delle tante specie che popolano il pianeta allora bisogna accettare fino in fondo, come avviene per le altre, che si comporti in modo tale da favorire la sopravvivenza dei propri simili rispetto agli altri esseri viventi; mentre, dall’altro, è opportuno tenere presente che l’evoluzione è un processo inarrestabile, per cui ogni specie, per quanto progredita, è necessariamente un punto intermedio in un percorso ipoteticamente infinito: pensare che l’essere umano rappresenti un punto d’arrivo ed abbia quindi per questo motivo privilegi particolari sulle altre specie è perciò una contraddizione in termini. Chi è convinto del contrario per motivi religiosi non è comunque in grado di dimostrarlo in modo irrefutabile.
Da ciò dovrebbe discendere che noi umani in quanto specie tecnologicamente più evoluta ed in grado di incidere più di ogni altra sull’ecosistema, dovremmo comunque essere tenuti ad applicare, anche nel nostro stesso interesse, il massimo di responsabilità nei confronti del pianeta e degli esseri viventi con cui lo condividiamo. E’ del tutto evidente che finora il nostro comportamento è andato quasi sempre in tutt’altra direzione. Occorre tuttavia avere presente che quando si ricorre alla categoria della responsabilità significa, come detto, che non esistono regole assolute, perché altrimenti basterebbe semplicemente applicarle, ma che ogni singola questione deve essere affrontata e discussa nel proprio contesto specifico, cercando di volta in volta di trovare il miglior equilibrio possibile. Un ruolo importante deve averlo l’educazione, intesa sia come conoscenza che come rispetto nei confronti delle altre forme di vita, senza la quale si rischia di restare preda di concezioni puramente ideologiche. Così come la visione prospettica degli equilibri del pianeta dovrebbe finalmente prevalere sulle logiche di brevissimo periodo di qualsiasi natura: anche qui valutando correttamente caso per caso il rapporto costi/benefici.

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Raffaele Mosca


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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