3 Novembre 2022

FERRARA E LE CITTÀ INVIVIBILI
Addenda apocrife alle Città di Calvino

Daniele Lugli

Tempo di lettura: 3 minuti

 

Già il Gran Kan stava sfogliando nel suo atlante le carte delle città che minacciano negli incubi e nelle maledizioni: Enoch, Babilonia, Yahoo, Butua, Brave New World.

E Marco Polo: Puoi aggiungerne altre di città invivibili e maledette, o una sola, addormentata sopra una gran pianura, che ne riassume molte.

Cangiascutmai è la città che cambia nickname, detta pure Camàlea, Da rossa che si fa faticosamente all’inizio del secolo XX, in armonia con i mattoni delle sue case, diventa nera in un batter d’occhio – e di legnate – per oltre un ventennio, per tornare rossa. Da poco è nuovamente nera. I cittadini si bastonano da sé, con pesanti schede elettorali.

Si è detta Bicicléta, il solo mezzo di trasporto che può portare al socialismo. Fa procedere alla giusta velocità, trasporta pesi incredibili, accompagna, in luogo del bastone, il passo che con gli anni si fa insicuro.

Ora è Màkina: tutti in auto, i pedoni sono automobilisti provvisoriamente appiedati. L’auto segna il passaggio all’età adulta, spesso anche a miglior vita e lo stesso concepimento. Qualche parte della città ne era faticosamente risparmiata. Ora non più da nessun mezzo, per quanto ingombrante.
Occorrono però interventi radicali per trasformarla nella mitica Tiro, la città dei TIR, come pure si vorrebbe.

E’ detta pure Nèbia,  Calìgo la dicono i visitatori goranti, Fumàna, i quasi mantovani. È indescrivibile perché non si vede niente. Lo spasso consiste nell’appoggiarsi al muretto – circonda il fossato del grande Castello, al centro della città – e dire “Vedi che non si vede. Si taglia con il coltello. Ci puoi appoggiare la bicicletta…”. 

Pandèmia è un nome che condiviso con altre città. Si stava molto in casa. Balli e canti dai balconi ora sono cessati. Quancuno esce ancora mascherato e con i guanti, per non lasciare impronte.

È anche chiamata  Sgàrbia, da un mecenate, generoso con i soldi di tutti. Invita gli amici a prendere posti di rilievo in città. Sono spesso persone stimate nei campi loro. Al suo tocco si trasformano. Una sorta di re Mida al contrario, lo si direbbe. I suoi ammiratori si salutano dicendosi “Capra, capra,  capra”,

Bàlbia è uno scutmai che pure si sente. Onora un grande trasvolatore, caro al mecenate esteta, forse perché raccomanda “A quel prete dategli delle bastonate di stile”. Ed era solo un prete di campagna.

Naòma è nome popolare. Non so se il Naomo locale – taluno lo vede bene emulo di Pietro Gonnella – abbia preso lo scutmai da un personaggio del comico Panariello, abituato a umiliare i suoi interlocutori.
Le sue gesta sono molte e quasi leggenda. Noto solo che sia Panariello che Gonnella sono un dono della città di Fiorenza alla quale la Ferrara Cangiascutmai ha dato Savonarola e il più noto degli Aldighieri.

La città, o almeno una sua parte, è detta Fòbia: ama il nero, ma non il negro, soprattutto se nigeriano.
Ha soppiantato, nel rigetto, il sempreverde zingaro e l’albanese, che ha ultimato la sua breve stagione.
La Nigeria, leggo, prende il suo nome dal fiume Niger. Questo però non deriverebbe dal latino niger ma dal portoghese negro o preto, che vogliono dire appunto nero.
È la differenza tra la zuppa e il pan bagnato. Ma se sono portoghesi si spiegherebbe l’aspirazione – proclamata a gran voce dai fobici – di condividere il nostro benessere senza pagare.
Mi piace di più che il nome derivi dal Tuareg gber-n-igheren (il fiume dei fiumi), abbreviato in ngher, un nome locale utilizzato lungo il medio corso nei pressi di Timbuctù. e, aggiungo, lungo il Po: negher, negar.

Infine Pentàgona, per la forma benaugurante della città, ispirata agli studi del grande Pellegrino Prisciani.
Molto ci sarebbe da dire, Gran Kan, a questo proposito. Forse sarebbe la risposta alle domande sullo scopo dei miei viaggi: “Rivivere il passato, ritrovare il futuro”. Così la città può farsi Tetràgona, pur restando Pentàgona. Non si restringe al quadrangolo del castrum, che l’ha generata. Si fa ferma, costante, resistente a ogni urto e contrarietà; irremovibile di fronte alle odierne sciagure. Lo dice un suo figlio, che ha avuto altrove fortuna: “avvegna ch’io mi senta Ben tetragono ai colpi di ventura”. Allora, Gran Kan, non sarà più tra le città minacciose e maledette.

In copertina: Dettaglio del sarcofago di Prisciano Prisciani,  commissionato dal suo “pio figlio Pellegrino”, come sottolineato nell’iscrizione.  


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L’autore

Daniele Lugli

Daniele Lugli (Suzzara, 1941), amico e collaboratore di Aldo Capitini, dal 1962 lo affianca nella costituzione del Movimento Nonviolento di cui sarà presidente nazionale dal 1996 al 2010, e con Pietro Pinna è nel Gruppo di Azione Nonviolenta per la prima legge sull’obiezione di coscienza. La passione per la politica lo ha guidato in molteplici esperienze: funzionario pubblico, Assessore alla Pubblica Istruzione a Codigoro e a Ferrara, docente di Sociologia dell’Educazione all’Università, sindacalista, insegnante e consulente su materie giuridiche, sociali, sanitarie, ambientali – argomenti sui quali è intervenuto in diverse pubblicazioni – e molto altro ancora fino all’incarico più recente, come Difensore civico della Regione Emilia-Romagna dal 2008 al 2013. È attivo da sempre nel Terzo settore per promuovere una società civile degna dell’aggettivo ed è e un riferimento per le persone e i gruppi che si occupano di pace e nonviolenza, diritti umani, integrazione sociale e culturale, difesa dell’ambiente. Nel 2017 pubblica con CSA Editore il suo studio su Silvano Balboni, giovane antifascista e nonviolento di Ferrara, collaboratore fidato di Aldo Capitini, scomparso prematuramente a 26 anni nel 1948.
Daniele Lugli

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