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12 Agosto 2018

La parabola

Tempo di lettura: 8 minuti


Si era sposata in pompa magna, accompagnata all’altare dal padre elegante ed orgoglioso di quella figlia, applaudita dalla folla di invitati in abito da cerimonia e le amiche che la attorniavano come fosse una regina. Un’immagine canonica di un bel matrimonio cattolico, secondo tutti i carismi, curato nel dettaglio per mesi e mesi, atteso e onorato in ogni minimo aspetto. Monsignore che celebrava solennemente e commuoveva con le sue parole di partecipazione, una chiesa barocca fin troppo ridondante, il ristorante più quotato, il menu pantagruelico, le danze che si erano protratte fin quasi mattina. Non era mancato il lancio del riso e del bouquet, che era finito nelle mani tese, quasi supplicanti, di sua cugina Veronica, zitella in attesa di trovare qualcuno che si accorgesse di lei.
Gli sposi erano due belle creature, lei bionda e lui castano scuro, fatte apposta per stare insieme, così apparentemente perfette da sembrare fasulle, una finzione holliwoodiana. Si conoscevano da quando erano bambini, stessa città, stessa zona residenziale, stesse scuole e stessa compagnia di amici godimondo con cui condividere interminabili sbaraccate da raccontare ai posteri con toni divertiti. Nessuna sorpresa, quindi, nessun dubbio e nessuna esitazione nell’affrontare quel matrimonio, conseguenza naturale di ciò che era stata la loro esistenza fino a quel momento ed anche le famiglie, i parenti ed i conoscenti si attendevano esattamente quello. Una vita così lineare, precisa, scontata, esente da episodi tristi, drammi familiari, avvenimenti problematici che nemmeno ad averla programmata sarebbe potuta risultare più soddisfacente. Una specie di telenovela, di quelle che piacciono da morire alla portinaia, alla zia Clelia, alle quindicenni quando guardano la tv libere dalla scuola e alla parrucchiera che lavora nel salone in fondo alla via. A dire il vero, queste storie infinite piacciono un po’ a tutti perché attutiscono la tristezza, la noia e l’inevitabilità del dolore, dando l’idea che esista prima o poi un finale splendido per tutti, un epilogo positivo dopo ogni difficoltà. Sono delle suggestive, affascinanti ombre cinesi proiettate su uno schermo bianco dove niente è come sembra, abili finzioni messe in scena per stupire, catturare, illudere e convincere che la realtà è un lungo susseguirsi di vicende che condurranno necessariamente alla felicità.
I primi anni di quel matrimonio, in effetti, erano trascorsi in un’aurea di normalità e compostezza, ordine e convivenza pacifica in cui ognuno dei due, calato nella propria parte, viveva il proprio ruolo con efficienza e trasporto. Matteo si recava ogni giorno nella sua agenzia di assicurazioni e, come ogni giorno, si tratteneva a pranzo con amici o colleghi, rientrava la sera e si dedicava alla moglie, la casa ed ai suoi hobbies: nuoto e palestra. Anna usciva la mattina a lavorare presso un polo museale, di cui era responsabile, e quell’attività le piaceva, la gratificava e le permetteva di frequentare gente ed ambienti sempre nuovi. Ciascuno raccontava all’altro le proprie esperienze quotidiane e la sera diventava il momento più intimo e significativo. I fine settimana erano puro relax o puro divertimento: viaggi, teatro, cinema, concerti e sale da ballo, pranzi conviviali e qualunque evento interessante a portata di mano. Una vita piena e appagante che sembrava destinata e predisposta solo al meglio.
Dopo un po’, i parenti cominciarono a ficcanasare entro le pareti domestiche della coppia, alludendo all’opportunità di un figlio o chiedendo del tutto apertamente di allargare la famiglia per completare tanta ‘felicità’ ed anche, forse non proprio in subordine, espletare un presunto ‘dovere sociale’ che rispondesse al loro status. Era un pensiero che fino ad allora non li aveva mai sfiorati, che si insinuò un po’ alla volta nel loro ménage perfetto e calcolato al centesimo, costringendoli a qualche riflessione. Non occorse pensare a lungo ed approfondire, perché Anna rimase incinta inaspettatamente, tra l’esultanza del parentado e lo sconcerto del marito, che non aveva ancora maturato l’eventualità.
Bastarono quei nove mesi per rendersi conto che la loro esistenza avrebbe subìto una virata irreversibile e che il mondo non sarebbe più gravitato intorno a loro, come erano abituati che fosse. Dare vita ad una creatura non era come creare un avatar in Second Life comodamente seduti davanti ad un pc e decidere il corso degli eventi. E il giorno in cui nacque Giorgio, fu una grande festa ma anche la pietra miliare che segnava chiaramente un percorso terminato e l’inizio di uno nuovo.
Anna era passata alle notti insonni, i pannolini da cambiare, le pappe e tutti quei particolari che caratterizzano la vita, le esigenze e le abitudini di un figlio piccolo, accantonando tutto ciò che si concedeva prima. Aveva perso anche alcuni vezzi circa il lato estetico di sè che prima curava in modo maniacale.
Quando arrivò il secondo figlio, maschio anche lui, dopo uno stacco troppo breve per riprendersi completamente, lasciò definitivamente il lavoro per dedicarsi anima e corpo a quelle due creature che dipendevano totalmente da lei. Dal canto suo, Matteo rimaneva in casa il tempo necessario per organizzare il resto della sua giornata fuori ed i momenti in cui curare la relazione con la moglie ed i bambini divennero sempre più infrequenti. Stare accanto a quella donna indaffarata e sempre meno attraente era diventato per lui un castigo ed i pianti dei due piccoli, insopportabili. Usciva sempre più spesso anche la sera o rimaneva fuori fino ad ore impossibili.
Nella sua nuova e frenetica situazione, Anna reagiva ignorando volutamente la piega che stava prendendo il rapporto con quel marito sempre più assente ed estraneo. I parenti erano vigliaccamente spariti dietro mille pretesti ed impegni ed anche quelli che erano rimasti si stavano un po’ alla volta allontanando da quella donna che diventava ogni giorno più strana, diversa da come l’avrebbero voluta, malata. Le giornate scorrevano come un fiume in piena e ogni giorno che finiva, se ne andava un pezzetto della sua anima. Ormai i figli erano un dovere senza soddisfazioni e dell’uomo che aveva sposato era rimasta solo l’ombra che andava e veniva, silenziosa e senza più alcun significato. Il vuoto che aveva soppiantato tutta la sua vitalità ed energia la induceva a galleggiare in quella sua esistenza senza sentimenti, emozioni, sogni ed interessi. Le mancava soprattutto la voglia di vivere del passato e tutto le era estraneo, incomprensibile, lontanissimo. Nemmeno le lacrime erano rimaste, quel toccasana salato che dava sfogo al malessere che covava negli anfratti più nascosti dell’anima ma che traspariva da quegli occhi segnati e stanchi.
Quando, un giorno, si infilò in quella grande sala da gioco, provò per la prima volta dopo molto tempo qualcosa che aveva dimenticato, una leggerissima scossa che l’aveva percorsa lungo la spina dorsale. E se avesse vinto? E se con quei pochi spiccioli fosse riuscita a sentire il tintinnio della cascata di monete che si riversava davanti a lei? E perché non provare? Era uno spazio discreto, fuori dalla portata di sguardi curiosi, un luogo che garantiva tutta la tranquillità che il giocatore richiede. L’avevano aperta da poco, in un quartiere abbastanza distante da casa sua e abbastanza comodo da essere raggiunto in breve tempo. E perché no? Sorrise dentro di sé, come una ragazzina che sa di essere in procinto di combinare qualcosa. Si sentiva elettrizzata e lucida, in quel limbo in cui era immersa, che la teneva in sospeso, isolata da tutto e tutti da tanto tempo. Sentiva che quel posto la rimetteva in connessione con la realtà, le forniva un po’ di linfa vitale che lei era intenzionata a bere d’un sorso. Tutto, – pensava – fuorchè il vuoto, quello no, ti fa morire.
Era entrata titubante ma decisa a giocarsi qualche biglietto da 5, 10 euro. Poca cosa, – si ripeteva – cosa sarà mai? Non avrebbe fatto torto a nessuno e nessuno se ne sarebbe accorto. Non aveva vinto nulla ed i soldi se n’erano andati velocemente ma lei tornò a casa, quel pomeriggio, più carica e reattiva.
Le visite alla sala da gioco divennero frequenti, ormai la conoscevano e la trattavano come un prezioso abitué da coltivarsi e mantenere. Ad Anna piaceva tutto questo e in quei momenti i figli, la casa e l’uomo evanescente che aveva sposato erano all’ultimo posto nei suoi pensieri. Davanti alle slot machine si trasformava in una superdonna in preda ad una frenesia mai sperimentata, una febbre che le prendeva la testa, una smania che la consumava per tutto il tempo delle giocate, la esaltava quando vinceva e la deprimeva quando non realizzava nulla. Una sferzata emotiva che la faceva sentire presente a se stessa. Le puntate si trasformarono presto in significative somme che andavano ben oltre i 5-10 euro con cui aveva cominciato ed i timidi sensi di colpa che all’inizio si affacciavano di tanto in tanto sparirono del tutto, cancellati da quella forza invisibile che la attirava come calamita verso quel posto.
Slot, tavoli verdi, giochi di luci, grandi specchi e separè troneggiavano in quella sala che si affollava negli orari più frequentati, prima e dopo il lavoro ma anche negli intervalli e pause pranzo. Ma era la sera che quel popolo febbricitante animava magicamente quella grande ruota della fortuna su cui ciascuno si giocava tutto, tenendosi disperatamente aggrappato al proprio posticino. Si vinceva e si perdeva in pochi minuti. Un tizio si era suicidato, dopo essersi giocato anche la casa. Slot, scommesse, Videopoker, Baccarat, Trente et quarante, Roulette americana… era una folle corsa alla vincita che diventava l’oggetto del desiderio assoluto.
Anna era ormai persa in quel mondo a parte in cui ognuno era in lotta con se stesso e con le macchine, luminosi totem da adorare, incitare, maledire ed esaltare.
Qualcuno in famiglia si era accorto: non i figli che erano troppo piccoli per capire, non il marito che ormai viveva fuori casa avventure di ogni tipo. La voce girava ma nessuno parlava.
Arrivò il momento in cui i soldi sottratti al budget familiare non erano più sufficienti ed allora la donna pensò bene di vendersi qualche gioiello, di quelli che indossava poco e che valevano piccole fortune. Ormai davanti a sé c’era la china e lei non si sarebbe arrestata pur di continuare a giocare con quella smania, quel desiderio insano continuo che la faceva rivivere.
Guardava negli occhi quelli come lei, pallidi e con lo sguardo allucinato davanti a slot e tavoli verdi e si capivano senza parlare: era un dialogo muto, disperato, un forte legame tra disgraziati che condividevano la follia di quei momenti.
Il gioco governava la sua vita, fatta ormai di rapide sbrigative incombenze, la consegna dei figli, un minimo riordino della casa e poi via, a puntare.
Arrivò inevitabilmente il momento in cui non seppe più di cosa disfarsi e come racimolare quanto le serviva ma per questo c’erano gli usurai. Qualcuno le indicò con solerzia un tizio che le avrebbe dato una mano ad un tasso vertiginoso e lei non ci pensò due volte, anche perché doveva restituire una certa somma a qualcun altro. Era ormai diventato un labirinto intricato di cui non si intravvedeva l’uscita; ogni azione comprometteva altre ed ogni considerazione conduceva al punto di partenza, una sottile ragnatela dove un ragno immobile e famelico la aspettava al varco.
Smetto, pensava, ma sapeva che l’indomani sarebbe stata ancora là davanti a quella porta perché era l’unico rifugio per non ripiombare nel niente.
Tutto dissolto.
Una lunga, interminabile parabola discendente.

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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