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Pubblicato il 4 Novembre 2016

La criminalità in città aumenta, ma gli esperti dicono che è solo “percezione”

La criminalità in città aumenta, ma gli esperti dicono che è solo “percezione”

Pubblicato il 4 Novembre 2016

Tempo di lettura: 9 minuti

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In occasione della Festa della Legalità, l’incontro avvenuto all’Arengo la scorsa settimana getta le basi per una riflessione su ciò che viene detto e ciò che viene invece trascurato dell’argomento criminalità. Ecco un’ulteriore interpretazione legata al nodo, oggi più delicato che mai, dell’immigrazione.

Il crimine si può tradurre come un delitto grave, ovvero un reato, un illecito che provoca conseguenze particolarmente rilevanti e nocive alla vittima che lo subisce. Per capire di cosa parliamo occorre spiegarsi e chiarire bene le cose che diciamo, pertanto se parliamo di crimine, criminalità e affini dobbiamo sapere cosa significano e soprattutto come influenzano le nostre vite: è a questo che servono le parole. Anche se all’Arengo si è scelto di privilegiare i numeri.

Quando vado all’incontro pubblico tra gli addetti ai lavori e la cittadinanza sul tema della sicurezza nel nostro territorio, mi trovo in mezzo ad una platea di giornalisti in attesa dei relatori che arriveranno di lì a poco.
Così, mentre la deliziosa saletta dell’Arengo si riempie di gente, mi sistemo in prima fila ad armeggiare col registratore e a controllare il mio taccuino. Sono insolitamente puntuale, tanto che ho scelto il posto migliore che potevo, subito dopo un collega seduto al mio fianco apre il suo portatile e un giovane tecnico del comune accende il proiettore delle slide puntandolo sullo schermo alla mia sinistra. Poi finalmente arrivano.
Sono quattro: c’è l’addetto stampa del comune, Alessandro Zangara, che precede il responsabile regionale alla sicurezza Nobili, li seguono il vice questore Crucianelli e l’assessore ai lavori pubblici Modonesi. Quindi, a parte l’ospite, ci sono un funzionario della regione, un funzionario di polizia e un politico. Quale parterre più adatto per parlare di crimine e criminalità? Magari un commissario (e quello più o meno c’era), un sociologo, un antropologo, uno psicologo, un criminologo, un giudice… chissà.

Dopo le presentazioni capisco subito che la serata si tradurrà molto probabilmente in una lunga elencazione di numeri e statistiche, di tabelle e percentuali, il tutto puntualmente condito di considerazioni su ciò che è stato in passato e su ciò che è nel presente. E per il futuro? Non si sa, non ci sono i dati…
Vabbè, ma almeno qualche previsione potevano azzardarla però!
Comunque, plaudo all’onestà intellettuale dei tecnici che, non avendo sfere di cristallo, generalmente evitano per mestiere di parlare di cose che non siano comprovate da dati certi. Evviva le certezze dunque!
Ma di quali certezze stiamo parlando? Ebbene ve lo dico subito: la più eclatante è che l’Italia è il paese più mite e sicuro del mondo!
Proprio così. L’ha fatto intendere Nobili, l’ha confermato con tanto di tabelle luminose e illuminanti Crucianelli, l’ha ribadito alla fine Modonesi, aggiungendo che il vero problema sta nella “percezione”.
Ma “percezione” è comunque una parola e delle parole tratterei alla fine, concentriamoci pertanto sui numeri (che in ogni caso non trascriverò).

Da qualche anno, in Europa, così come in Canada e Stati Uniti, i crimini più violenti contro la persona, ovvero gli omicidi, sono in calo. L’Italia segue il trend di tutti gli altri paesi occidentali, col pregio di essere tra i paesi a più basso indice di violenza d’Europa. Se a questo aggiungiamo che l’Europa è il continente col più basso indice di violenza di tutti e cinque i continenti, l’equazione dei nostri esperti “Italia uguale isola felice” non fa una grinza.
La questione si fa più delicata e complessa quando spostiamo lo sguardo su altri tipi di crimini, come gli stupri e le lesioni gravi, ma soprattutto sui crimini contro la proprietà, come i furti e le rapine.
In questo caso, purtroppo, il panorama appare invece preoccupante: i numeri infatti ci dimostrano che sono in costante aumento i furti commessi nelle proprietà private (appartamenti, ville, luoghi di lavoro), ed è soprattutto il fenomeno delle rapine effettuate all’interno delle abitazioni che desta più sconcerto. Si tratta ormai di una pratica criminosa sempre più frequente che prende di mira le case isolate di campagna, magari abitate da persone anziane che hanno scarse possibilità di reagire e difendersi. Lo sconcerto aumenta quando al furto si aggiunge il pestaggio delle vittime inermi, spesso gratuito, immotivato e inferto con inaudita violenza, che qualche volta ha provocato la morte dei rapinati.
Questa generale tendenza al rialzo dei reati di tipo predatorio (termine usato dagli esperti), ossia contro la proprietà, inizia e prosegue costante da vent’anni ad oggi e, dai dati evidenziati, la prospettiva di un’inversione di tendenza non lascia molto margine all’ottimismo. Quindi, a metà serata, la domanda che mi pongo è se l’Italia sia davvero un’isola felice, o forse si profili l’ipotesi di qualcosa simile alla rassegnazione ad accettare un progressivo peggioramento delle proprie sicurezze con l’idea (ribadita con insistenza dalle istituzioni presenti) che altrove sia stia decisamente peggio.

E Ferrara? La nostra città e il nostro territorio rispecchiano sostanzialmente l’andamento nazionale con una “piccola” differenza in controtendenza, ovvero l’aumento degli omicidi: nella nostra provincia, nel 2015 ci sono state quattro uccisioni! Il dato è comunque del tutto eccezionale poiché, si affretta a dire Crucianelli, la casistica di omicidi nel nostro territorio resta talmente bassa (in media zero o un omicidio all’anno) che quest’ultimo dato non può rappresentare un valore di tendenza utile a fini statistici. In pratica, nel nostro futuro, la possibilità di essere più o meno ammazzati lo scopriremo solo vivendo.
In aggiunta a queste considerazioni e grazie alle domande di alcuni giornalisti meno annoiati di altri, è poi emerso che, restando sempre in ambito ferrarese, è avvenuto un progressivo spostamento degli equilibri nelle attività di smercio e spaccio della droga, mercato che da qualche tempo è passato nelle mani della comunità nigeriana, relegando al secondo posto gli spacciatori magrebini che ne detenevano il controllo da anni. Resiste qualche outsider italiano che spaccia facendo concorrenza a proprio rischio e pericolo agli africani. Risulta, tra l’altro, che gli stessi nigeriani gestiscano il racket della prostituzione delle ragazze di colore, all’interno di un apparato organizzativo che allunga le sue maglie ben oltre i confini del nostro territorio.
A questo punto, all’esplicita richiesta di qualcuno di poter avere qualche informazione più precisa sulla provenienza della droga che viene smerciata nelle nostre strade, Crucianelli si trincera in un ben collaudato “Non posso rispondere perché sono informazioni riservate e le indagini sono tuttora in corso”, che personalmente ho inteso in questo modo: “Accontentatevi di quel poco che vi ho detto perché lì in mezzo ci sono nostri infiltrati che rischiano la pelle”.
Con tutto ciò, resta da dedurre che il mercato della droga è e rimane un affare tra extracomunitari, e questo già si sapeva.

Ma c’è dell’altro. Sempre negli ultimi anni, per quanto riguarda le lesioni personali, gli stupri e altri reati come scippi e borseggi, i dati oscillano tra alti e bassi in un sostanziale equilibrio verso l’alto, cioè in una generale tendenza ad aumentare. Anche se i fattori che portano a questo risultato sono diversi e necessitano di approfondimento. In altre parole, se il tendenziale aumento delle aggressioni e delle violenze personali viene motivato da un aumento della litigiosità tra le persone (a questo punto sarebbe stato opportuno capirne pure le cause, magari coinvolgendo sociologi e antropologi, o no?), l’aumento degli stupri e delle molestie sessuali ai danni delle donne viene spiegato con una maggiore sensibilità al problema che è all’origine di un aumento delle denunce, come dire: siccome sappiamo che spesso in passato tali stupri non venivano denunciati, non possiamo affermare con certezza che rispetto a prima ci sia stato un oggettivo aumento dei reati oppure solo un aumento delle denunce.
Viene poi fatta un’ulteriore considerazione che delinea un generico identikit di chi commette questi crimini: sono giovani maschi di età compresa tra i quindici e i trent’anni circa!
Ebbene sì, avete letto bene, sono giovani maschi… Io mi sarei aspettato che dicessero che erano vecchiette psicopatiche o casalinghe frustrate, o mariti cinquantenni in piena crisi di mezza età. In pratica una rivelazione sorprendente!
Nonostante il generale clima di ottimismo e buona volontà che si respira all’Arengo, posso dire, a mio modesto e insignificante parere, che le prospettive per il futuro appaiono desolanti.

Certo è vero, rispetto agli altri paesi occidentali, il nostro rimane tuttora in una condizione privilegiata a basso indice di criminalità violenta, è un fatto indiscutibile. Guardando però meglio quali sono gli altri paesi con cui ci confrontiamo, alcune cose mi appaiono più chiare: se lasciamo da parte il caso di Stati Uniti e Canada che hanno contesti storici e sociali assai differenti dal nostro (e che comunque stanno registrando negli ultimi anni, a differenza di noi, un repentino calo del tasso di criminalità), vediamo che in Europa al primo posto tra i paesi più violenti c’è il Regno Unito (che peraltro, come oltre oceano, sta avendo anch’esso un notevole calo di criminalità), seguito da Francia e Germania. Paesi dunque con una componente multirazziale assai più radicata e diffusa della nostra, ma anche con un’economia più stabile e florida di quella italiana.
All’incontro si è pure accennato ad una maggiore devianza giovanile di questi paesi rispetto al nostro, fenomeno ad esempio testimoniato dall’incredibile divario del numero di giovani attualmente nei riformatori inglesi rispetto a quelli italiani (circa quarantamila in Inghilterra contro gli appena millecinquecento in Italia), certo occorre anche dire che l’ordinamento giudiziario britannico è assai diverso rispetto al nostro e simili differenze andrebbero analizzate in modo più serio e approfondito.

A questo punto mi assale una serie di dubbi e quesiti, il guaio è che ho la spiacevole consapevolezza che gli esperti interlocutori che ho di fronte non possano soddisfare le domande che mi faccio e vorrei far loro, semplicemente perché rispondere a tali domande non rientra nelle loro competenze. Per cui non mi resta che esporle adesso, sperando che qualche lettore più illuminato di me abbia le risposte.
Per quanto ancora resteremo un paese a basso indice di criminalità violenta se il nostro apparato statale persevera nella sua politica di accoglienza d’emergenza, senza cioè un serio ed accurato programma d’inserimento sociale e lavorativo duraturo dell’immigrato? Voglio dire: è logico accogliere fiumi di disperati, ospitarli in strutture provvisorie (spesso creando contrasti con le popolazioni che entrano forzatamente in contatto coi rifugiati), accudirli, affidarli a organizzazioni di assistenza sociale per un periodo di tempo limitato, e, scaduto il tempo, abbandonarli a se stessi, senza lavoro né soldi, in una società che li vede come degli intrusi? Accogliere persone e sistemarle come pacchi qua e là senza un programma di inserimento sociale serio e complesso a lungo termine non genera il rischio di aumentare malcontento e frustrazione sia tra coloro che arrivano che tra coloro che già abitano nel territorio? Non è forse questo modo di concepire l’accoglienza che ha causato il proliferare di enclave etniche chiuse, terreni fertili per la criminalità, come l’esempio della comunità nigeriana di Ferrara starebbe a dimostrare? Non è forse vero, ad esempio, che gran parte dei furti e delle rapine nelle ville sono commessi da persone originarie dell’est europeo?

Credo che abbiamo di fronte un problema serio: ovvero la tendenza da parte delle istituzioni a mettere in conto un progressivo innalzamento del livello di criminalità come un fatto inevitabile e fisiologico. Fatto generato da un contingente mutamento sociale in direzione di quel melting pot previsto e preventivato da certa parte politica. Se a questo aggiungiamo la difficoltà del paese ad uscire da una crisi economica che si trascina da anni e, contrariamente ai proclami di ripresa occupazionale che puntualmente vengono annunciati dal governo per essere poi subito smentiti dalla realtà, continua a rilasciare per strada migliaia di disoccupati, si comprende quanto questa compressione sociale stia evolvendo in un potenziale e pericoloso teatro di nuovi conflitti tra poveri.
E ribadisco il concetto di “guerra tra poveri” che di implicazioni razziali ha poco o nulla, poiché, a proposito di percezioni più o meno motivate dai fatti, è un fatto che molti pregiudizi si siano concentrati in comunità come quelle slave e rumene che, almeno da un punto di vista “razziale”, sono assolutamente identiche agli italiani. In effetti un italiano non è più razzista di un rumeno, di un albanese, di un serbo, o di un nigeriano, di un pakistano, di un cinese, eccetera. E nigeriani, tunisini, filippini e tutti gli altri non sono più violenti di noi italiani.
Da sempre, la tendenza è di guardare agli individui e alle comunità giudicando le loro azioni e i loro comportamenti per etichettarli e trasformarli in strumenti di propaganda ideologica in un senso o nell’altro. E da sempre l’errore è quello di trascurare le cause profonde all’origine di tali comportamenti che sono uguali per tutti, a prescindere dal colore della pelle e dalla provenienza.
Se creiamo le basi per generare malessere sociale, ovvero un abbassamento generalizzato della qualità della vita (l’aumento della disoccupazione e della soglia di povertà, la concentrazione nel territorio di altri gruppi etnici percepiti come possibili minacce, un sempre più diffuso sentore comune di ingiustizia sociale seguito da una conseguente mancanza di fiducia nel futuro), corriamo il grave rischio di trasformare la nostra società in una polveriera di conflitti e violenze dalle conseguenze inimmaginabili.

Concludo tornando all’argomento criminalità: secondo gli esperti della serata quindi, il nodo non sarebbe tanto nel pericolo concreto corso dal cittadino, ma nella “percezione” che quest’ultimo ha del pericolo. In altre parole trattasi più di pericolo paventato che reale! Vuoi vedere che siamo tutti diventati dei timorosi visionari, palesemente insicuri e pure un po’ vigliacchi? Può darsi, ciò non toglie che quando si “percepisce” qualcosa, spesso e volentieri ci si azzecca.

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Carlo Tassi

Architetto mancato, dopo vari mestieri si laurea a pieni voti in Scienze e Tecnologie della Comunicazione. Due passioni irrinunciabili come il disegno e la scrittura, poi tanti interessi e una grande curiosità verso le cose del mondo sono i motivi che l’hanno convinto a cimentarsi come autore satirico e illustratore freelance. Per anni ha collaborato come autore e redattore nel quotidiano online Ferraraitalia, ora continua la sua collaborazione con Periscopio. https://www.carlotassiautore.altervista.org
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Francesco Monini

[1] La storia del giornale è piuttosto lunga. Il primo quotidiano della storia uscì a Lipsia, grande centro culturale e commerciale della Germania, nel 1660, con il titolo Leipziger Zeitung e il sottotitolo: Notizie fresche degli affari, della guerra e del mondo. Da allora ha cambiato molte facce, ha aggiunto pagine, foto, colori, infine è asceso al cielo del web. In quasi 363 anni di storia non sono mancate novità ed esperimenti, ma senza esagerare, perché “un quotidiano si occupa di notizie, non può confondersi con la letteratura”.

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