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“L’état c’est moi” pare che abbia detto Luigi XIV, re di Francia, il 13 aprile del 1655 nell’imporre nuove tasse ai suoi sudditi. E qui muore ogni velleità di definire millenaria la democrazia francese. Si sa che l’onorevole cittadino Di Maio ha qualche problema con la geografia e potrebbe aver scambiato la Francia d’oltralpe con la Grecia di Pericle.
Ma poi, perché stupirsi con la solita spocchia da professoroni! Questo governo è finalmente lo specchio del popolo, che può serenamente riflettersi in esso senza correre il rischio di provare complessi di inferiorità.
Lo scrive l’Istat nell’ultimo Rapporto sulla conoscenza del 2018, in cui certifica che l’Italia è tra i paesi europei con la minore scolarizzazione della popolazione adulta. Inoltre il livello di istruzione della famiglia di provenienza incide ancora fortemente sul destino formativo dei nostri giovani insieme al persistere del differenziale tra nord e sud del paese.
Sebbene chi governa oggi non manchi l’occasione per dimostrare di possedere un’istruzione carente, lo studio continua a costituire lo strumento fondamentale per migliorare le proprie condizioni socio-economiche e la principale leva nelle mani della politica per correggere la diseguaglianza delle opportunità.
Ma il problema è che la macchina della formazione non funziona più, non è in grado di produrre più qualificazione e maggiore mobilità sociale. L’esito è un sistema che si incarta su se stesso, con imprese che non assumono manodopera qualificata, perché non fanno ricerca e non si rinnovano, pertanto destinate prima o poi a uscire dal mercato. Non c’è reddito di cittadinanza e riconversione professionale salvifici, se il mercato del lavoro nostrano non cerca personale qualificato, con livelli alti di formazione, che poi dovrebbe pagare di più.
Scarsa istruzione, scarsa economia e il serpente si morde la coda. Se il paese manca di una politica della formazione, è difficile prefigurare una qualsiasi ripresa.
Succede invece che si finisce con l’addossare la colpa agli altri anziché a se stessi, con l’isolarsi e il dividersi, pensando nel frattempo di allontanare da sé le parti più deboli del sistema. E siccome in materia di istruzione tutti i dati confermano che l’Italia è un paese a due velocità, da un lato si racconta di voler dare seguito al dettato degli articoli 116 e 117 della Costituzione, dall’altro in realtà si pensa di correre ai ripari, lasciando che ogni regione si gestisca la sua scuola in modo da liberarsi della zavorra che rallenta la corsa, specie se la corsa è già dura in partenza.
Invece di rispondere con politiche di investimenti sull’istruzione, in modo da colmare il gap tra le scuole del sud e quelle del nord, si dà libero sfogo ai propri pregiudizi, incapaci di concepire un pensiero articolato sul nostro sistema scolastico.
È il caso del ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca, in visita alle scuole di Afragola e Caivano nel napoletano, il quale pensa bene di dichiarare pubblicamente che alle scuole del Sud non servono più soldi ma più impegno. Insomma, come alunni svogliati al Sud non ci si impegna abbastanza, il solito Mezzogiorno sfaticato.
Incidente di percorso? Gaffe, luoghi comuni? No, semplicemente la subcultura nutrita da decenni di trascuratezza, a cui ora sono affidate le sorti del paese.
Alla stessa stregua la Regione Veneto rivendica l’autonomia per introdurre il dialetto e i corsi di veneto in tutte le sue scuole, oltre ai test di ingresso per i professori meridionali.
Questa il programma della regione per qualificare l’offerta formativa, in un paese in cui restano scoperte le cattedre di matematica, perché gli insegnanti sono pagati una volta e mezzo il reddito di cittadinanza.
Si inventano i navigator, ma nessuno è stato sfiorato dal grande tema della formazione permanente, dalla realtà dei Centri provinciali per l’istruzione degli adulti, istituzioni dello Stato, dipendenti dal Miur, che potrebbero essere preziose risorse per la riqualificazione di chi cerca lavoro. Tra i 25 e i 64 anni la quasi totalità delle attività formative è realizzata al di fuori del sistema dell’istruzione, in attività non formali come corsi, seminari, formazione sul lavoro e informali, quelle attuate nel corso delle attività quotidiane di lavoro, in famiglia e nel tempo libero.
Il Rapporto sulla conoscenza del 2018 segnala che questo dell’educazione permanente è un terreno di intervento urgente, a partire dal quale andrebbe ripensato il sistema formativo di un paese avanzato. Ma la politica è distante, perché culturalmente impreparata.
Come tutta risposta, invece, il governo intende azzerare i vertici dell’Istat così da mutare la narrazione dell’Italia nel mondo, perché noi siamo un paese sovrano di santi, di poeti e ora di navigator. Intanto incrociamo le dita e speriamo di restare a galla.

in copertina illustrazione di Carlo Tassi

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Giovanni Fioravanti

Docente, formatore, dirigente scolastico a riposo è esperto di istruzione e formazione. Ha ricoperto diversi incarichi nel mondo della scuola a livello provinciale, regionale e nazionale. Suoi scritti sono pubblicati in diverse riviste specializzate del settore. Ha pubblicato “La città della conoscenza” (2016) e “Scuola e apprendimento nell’epoca della conoscenza” (2020). Gestisce il blog Istruire il Futuro.

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