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Esco di casa, finalmente parto, prendo un treno dopo mesi di clausura forzata. Siamo ancora tutti mascherati, qualche colpo di tosse o soffiatura di naso che ancora insospettiscono e fanno girare istintivamente dall’altra parte. Mi accomodo, ho cercato, come sempre, una carrozza poco frequentata e un posto isolato, a costo immancabilmente più elevato, ma serve a poco, tutto pieno. Pieno di esseri umani vocianti e trafelati, carichi come somari, con tutto il rispetto per i somari, con valigie di una grandezza esasperata e spropositata. Mi domando sempre cosa mai si porteranno, e perché, forse stanno via mesi. Sarà che, da anni ormai, viaggio con bagagli leggeri, memore di tempi passati dove quei fardelli pesanti erano divenuti un incubo, pesi fatti di cose inutili e che sistematicamente restavano inutilizzate e chiuse nelle valigie.

Viaggiare leggeri credo che sia il lusso maggiore che ci si possa permettere, la fortuna è di chi ha la capacità di essere selettivo e indovinarci.

Dicevo, mi siedo e mi guardo intorno. Stesso spettacolo delle metropolitane, dei bus, dei parchi, dei giardini e, ahimè, spesso anche dei musei. Tutti chini sull’oggetto del desiderio, su quel telefonino attira-persona, o come lo chiamo io su quell’odioso e antipatico device, che ormai è una vera barriera a ogni scambio umano fatto di attenzione e ascolto. Nessun libro in vista. Rarissimi esemplari di bipedi ormai li sfogliano. Giornali tanto meno. Solo schermi. Non parliamo di bambini e ragazzini. Idem.

Tutti connessi, a mostrare quello che si mangia e si beve, a quanto si è felici e glamour, a come è bello il mare o la montagna, quella mania di presenza che ci allontana dal vero presente. Succede anche al ristorante, quegli schermi illuminati campeggiano sui tavoli, sempre a sbirciare, anche quando si parla, non esiste più un dialogo che non sia interrotto da un bip di WhatsApp, di un sms o di un e-mail urgente che necessita attenzione immediata, perché senza di noi il mondo non si salva o non va avanti. Tutti indispensabili. Diritto alla disconnessione? Siamo noi a non volerlo, a non esserne capaci.

Li odio, ammetto, li odio terribilmente, odio i telefonini e coloro che vi stanno sempre incollati. Appiccicati come la carta moschicida. Con lo sguardo perso e fisso di chi non vede quanto succede accanto.

È una presenza che diventa assenza, disattenzione verso colui che ti sta parlando che non viene puntualmente ascoltato, lo si capisce dalle risposte vaghe che si ricevono. A volte non sono da meno, e, allora, mi fermo.

Se avete visto il documentario su Netflix The Social Dilemma (se non lo avete fatto, ve lo consiglio) concorderete sul tipo di allarme e di controllo sulla e della nostra attenzione e delle sue motivazioni spesso commerciali, ma ciascuno di noi dovrebbe essere capace di fermarsi. Il cervello lo abbiamo, serve anche a quello, a farlo funzionare.

Basta onnipresenza, sempre e continua, alziamo gli occhi. Sempre di più leggo di persone che si prendono una pausa dai social network, non è semplice soprattutto per chi li utilizza per lavoro, ma va fatto. Bravi.

Stacchiamo gli occhi dal basso di uno schermo, guardiamo negli occhi la persona che ci sta di fronte, rivolgiamo lo sguardo al cielo per vederne le nubi o fuori da un finestrino del treno per cogliere la bellezza di alberi e prati.

Guardiamo intensamente il colore del mare e dei fiori, non importa se non li fotografiamo con un apparecchio di ultima generazione, la memoria farà il suo lavoro, quelle sensazioni resteranno per sempre nostre. Fermarsi a fotografare spesso fa perdere l’attimo, un attimo che si può fermare solo nella nostra mente. Perché la memoria e le sue sensazioni sono la sola vera ricchezza di ogni essere umano. Una sensazione che con gli anni si trasforma in un ricordo che diventa sempre più emozionante. Non è il posto che fa la differenza ma quel sentire che negli anni muta e spesso rincuora e conforta.

Guardiamoci intorno, allora, alziamo quella benedetta testa, cerchiamo i colori che nessuno schermo può darci, accarezziamo il nostro cane per sentirlo più vicino, allunghiamo la mano per sfiorare il capo di un genitore, di un nipote o di un nostro caro. Quella mano che è sempre sulla tastiera sia utilizzata per sfiorare, accarezzare, disegnare, dipingere, suonare, coltivare un orto, raccogliere un fiore, cucinare una verdura, ricamare, unirsi in preghiera per un salutare mudra di yoga.

Disconnettiamoci dalla finzione e ricolleghiamoci alla realtà. Su gli occhi, allora, via dagli schermi, sguardo dritto al cielo! Non è poi così difficile.

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Simonetta Sandri

E’ nata a Ferrara e, dopo gli ultimi anni passati a Mosca, attualmente vive e lavora a Roma. Giornalista pubblicista dal 2016, ha conseguito il Master di Giornalismo presso l’Ecole Supérieure de Journalisme de Paris, frequentato il corso di giornalismo cinematografico della Scuola di Cinema Immagina di Firenze, curato da Giovanni Bogani, e il corso di sceneggiatura cinematografica della Scuola Holden di Torino, curato da Sara Benedetti. Ha collaborato con le riviste “BioEcoGeo”, “Mag O” della Scuola di Scrittura Omero di Roma, “Mosca Oggi” e con i siti eniday.com/eni.com; ha tradotto dal francese, per Curcio Editore, La “Bella e la Bestia”, nella versione originaria di Gabrielle-Suzanne de Villeneuve. Appassionata di cinema e letteratura per l’infanzia, collabora anche con “Meer”. Ha fatto parte della giuria professionale e popolare di vari festival italiani di cortometraggi (Sedicicorto International Film Festival, Ferrara Film Corto Festival, Roma Film Corto Festival). Coltiva la passione per la fotografia, scoperta durante i numerosi viaggi. Da Algeria, Mali, Libia, Belgio, Francia e Russia, dove ha lavorato e vissuto, ha tratto ispirazione, così come oggi da Roma.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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