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Con l’inasprirsi della contesa politica, l’immaginario verbale degli addetti ai lavori si restringe e metafore, simboli, allusioni si concentrano ancora e soprattutto sulle poche parole che sembrano reggere alla velocissima usura a cui sono sottoposte.
In prima linea rimane e impera la parola principe “culo” nelle sue varie e molteplici varianti: dall’elegante ma un po’ vecchia definizione di papa Bergoglio “là dove non batte il sole” all’intramontabile “vaffan…” usato indifferentemente da tutti gli schieramenti politici, nonostante la indubitabile premazia grillina, naturalmente raccolto e adattato alle esigenze italiote dall’intramontabile espressione anglo-americana, “fuck”, accompagnata dal dito medio alzato. Anzi, direi che è frequentata con entusiasmo proprio da coloro che per le loro scelte sessuali dovrebbero sentirsi offesi da un simile invito.
In mezzo corrono, anche se un po’ smorzate se non icasticamente rilevate, locuzioni come “cul de sac” o la meno frequente “parlare con la bocca a culo di gallina”, corretta traduzione dell’immortale e tipicamente francese “cul de poule”.
Ma sono le funzioni scatologiche (eh sì! correte a controllare sul vocabolario che è sempre un utile esercizio) che trionfano. Il primato spetta allo straordinario “Merdinellum”, neologismo strepitoso e di finezza ineguagliabile proposto dal senatore della Lega Stefano Candiani per definire l’emendamento Esposito, a cui l’informatissimo Filippo Ceccarelli su La Repubblica accoppia il termine “tafazzismo” che mi ha obbligato a ricerche sulla rete e che qui riporto integralmente: “Tafazzismo” è un neologismo che nasce negli anni Novanta ed è sinonimo di “masochismo”. Tafazzi è un personaggio comico interpretato da Giacomo Poretti: è vestito con una calzamaglia nera e un sospensorio bianco. Si colpisce le parti intime con una bottiglia, ricavandone piacere e intonando una melodia tratta dalla canzone klezmer “Gam Gam”, del film “Jona che visse nella balena”. Da allora capita sovente che si parli di “tafazzismo” quando si vuole indicare una pratica dolorosa autoinflitta.
Come si può capire non è proprio un “bel dire”, anche se la storia della Repubblica italiana in certe svolte storiche ha reagito con violenza ancor maggiore a passaggi epocali, ma quel che in questo momento sconcerta è la piatta adesione naturalistica all’escremento e ai canali del corpo umano interessati. Ben commenta Ceccarelli: come a scuola, come allo stadio.
Che la cultura dello stadio diventi dunque fondamentale per la lotta politica molto dice sull’elevato senso di responsabilità e di dignità proprio ai rappresentanti del popolo, in tutte le varianti dell’arco costituzionale o anche al di fuori di esso. Il grandissimo Crozza potrà nutrire la sua insostituibile satira per mesi o forse per sempre.
Altro segno di un mediocre ripiegamento dei segni corporali della politica le ‘mises’ dei parlamentari e senatori. Tramontati alla buon’ora gli sciarponi alla Renato Brunetta, ora si usano sciarpette anguilliformi attorcigliate ai colli non avvenenti di maturi politici (Orfini?). Sempre indice di un’interpretazione stile ‘mauvais gôut’, i grandiosi stilemi del senatore Calderoli: barbetta incolta (che si potrebbe declinare nelle due versioni – vocabolario!!! – incòlta o incólta); occhiali bicolori, pochette verde-lega, formale giacchetta – a volte doppio petto – su blue jeans molto usurati. Incommentabili le tute e i maglioni di Salvini. Resiste ancora il vestito ‘intero’ impiegatizio di Bersani o l’imponente doppio petto berlusconiano che viene allacciato con aria sopraffina tutte le volte che l’ex cav. scende dalla macchina. In mezzo a questi segni d’eleganza maschile, dove si distingue lo stile sobriamente adatto alla bisogna di Dario Franceschini, impazzano le giustamente notabili scelte delle signore della politica. Ridimensionata la borsa gigantesca tenuta al braccio col segno dell’ombrello, resistono i tacchi 12, gli abbinamenti giacchetta-pantaloni, i vestiti da sera indossati alle sedute delle sette di mattino o scollature generose, come quella esibita dalla ministra Pinotti a confronto con madame Le Pen nella trasmissione “Di martedì”, dove la suprema eleganza della francese risaltava in uno straordinario cappotto che imitava con tutta l’esperienza della couture francese una divisa militare ricca di pellami e di tasche.
La più elegante per me? Naturalmente la Rosy Bindi con i suoi vestiti da casalinga toscana; a seguire l’acconciatura della ministra Marianna Maida evocante prati fioriti e situazioni pre-raffaelite.
Dell’esasperazione modaiola del premier troppo ho già detto. Insomma! Se volessimo concludere questo scherzo fatto in modo di “ragionar per isfogar la mente” (sì! il solito Dante…) allora quale conclusione dovremmo trarre?

Che la ‘mediocritas’ politica non è sempre aurea.

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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