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Intervista a Karl Marx

«Ciao Ka!»

«Ciao Cri!»

«Eh quindi? Cioè volevo dire, anzi non sono bene cosa volevo dire, sarebbero tante, troppissime le domande che vorrei farti, vorrei chiederti soluzioni, opinioni, vorrei che mi, anzi ci, indicassi la via, ci dessi una mano a trovare il bandolo della matassa, ma ancor di più vorrei chiederti perché?»

«Beh intanto io sarei morto da una cento quarantina d’anni, le tue perplessità e domande mi sembrano assai poco chiare, altresì dovrei essere io a chiedere a te e a voi perché? Si certo io sono stato veggente, ho visto lo sviluppo della vostra misera società con un secolo d’anticipo, ho visto nascere e morire poeti, economisti, scrittori, politici, donne e uomini del popolo che hanno creduto in me, le masse, il famoso proletariato, vedeva in noi una speranza, l’unica. Il quarto stato come dal bel dipinto di Pellizza marciava verso la propria autodeterminazione. Poi, cos’è successo?»

«Ok Ka, ma non è che puoi farmi il verso, sei tu l’economista, filosofo, poeta e il libero pensatore, il traino delle masse, se lo sapessi di sicuro non sarei un alienato all’interno di una fabbrica»

«Vabbè, intanto noto che hai utilizzato un termine a me caro e che è in un certo qual senso uno dei perni del mio pensiero, che ti ricordo non essere marxista, mi spiego meglio, io KM ero Comunista, il mio pensiero era marxista in quanto nasceva da me medesimi. Vabbè non è troppo chiaro, ma non è questo il punto.»

«Esatto, qual è il punto, dove si è fermato il nostro cammino, dov’è che i posteri hanno sbagliato, come è stato che ti hanno messo da parte?»

«E ridaje con queste domande. Secondo me bisogna partire da lontano, molto lontano. In vita le nostre teorie, le mie e quelle di Federico, ma pure di altri compagni, anarchici, socialisti, non riuscirono ad attecchire come avremmo voluto. Ti ricordo che noi inventammo o almeno cercammo di perseguire la democrazia (con buona pace degli antichi greci), che all’epoca non esisteva come concetto. Oppure era solo e esclusivamente appannaggio delle classi dominanti, la borghesia stava plasmando i propri partiti, pure qualcuno progressista, altrettanto vero che la Rivoluzione Francese già da cinquanta anni prima della mia nascita aveva abbozzato l’idea di raggruppamenti di persone che perseguivano una stessa idea o ideale, parola che nei vostri tempi ha assunto una accezione negativa, non ho mai capito il perché. Questo era il nostro punto di partenza. Il proletariato industriale stava nascendo in Inghilterra ed è lì dove io pensavo ci sarebbe stata la scintilla rivoluzionaria, certamente non in Russia, dove era da poco stata superata la servitù della gleba e il popolo non aveva la benché minima coscienza di classe. Chiaro questo, sì?»

«No»

«Vabbè, non è che sei poi tanto sveglio»

«Mai detto questo, sono solo diplomato con il minimo dei voti»

«Va bene, riprendiamo il concetto, la Russia era l’ultima delle nazioni europee che aveva le potenzialità per far vincere la rivoluzione, semplicemente perché non esisteva una classe, in grado di emanciparsi. Ma lì avvenne, grazie a Vladimiro e ai Bolscevichi. La rivoluzione fu cruenta, come tutte le rivoluzioni, è un concetto mutuato dalla fisica. Vlad, pur con errori fece un gran lavoro, lui, la Russia e i comunisti divennero una speranza per i derelitti e per i bisognosi, i mezzi di produzione divennero dello stato, e in estrema sintesi la dittatura del proletariato fu messa in pratica. Chiaro sì, cosa intendevo per dittatura del proletariato? No, credo proprio di no, i posteri, gli studiosi, gli elaboratori del mio pensiero, su questo concetto non ce  l’hanno mai fatta a fare chiarezza, a rendere ineccepibile il concetto. Dittatura del proletariato è un ossimoro, il comunismo non può essere dittatura, perché è il popolo che decide per se stesso, per il proprio bene, per la propria dignità. Ho sempre apprezzato George Horwell, dai tempi in cui combatteva con le Brigate internazionali in Spagna e lui nel suo simpatico romanzo lo spiega bene, uguali vuol dire uguali, non come i maiali che divennero più uguali degli altri e ricondussero la fattoria alla schiavitù e al culto della personalità impersonato da quel famoso Giuseppe che mai ha rappresentato il mio pensiero e la mia visione? Chiaro questo concetto?»

«Si questo a me è chiaro, credo di ripeterlo a pappagallo dai tempi delle elementari, ma a tutt’oggi esiste gente che si ritiene dei compagni che sta storia non l’ha ancora digerita.»

«Proseguiamo perché la storia è ancora lunga, dalla presa del Palazzo d’inverno a oggi è passato davvero tanto tempo e io benché l’avessi vista lunga mai mi sarei immaginato un mondo con queste fattezze. Anche se il concetto di fondo lo avevo capito. Ma andiamo con ordine. Nel secolo breve, quel famoso novecento dove noi e le nostre idee acquisimmo dignità, grazia alle speranza (disattese) della Russia, ma soprattutto per merito di pensatori che fecero progredire il mio pensiero, nella politica ma anche nelle arti. Ora i nomi li conosci, in Italia vi furono ragazzi che ebbero davvero a comprendere ciò che io volevo dire, Antonio, Giuseppe, Enrico, Pietro, Lucio, Luciana, Nilde e tante altre donne e uomini del partito, ma pure nella poesia, Pier Paolo, Jan Paul, Pablo, Vladimir, Nazim e tanti, tantissimi altri dopo e prima di loro. In quel ‘900 il quarto stato davvero camminò e trainò le messe. Insegnò ai proletari a leggere e a scrivere, insegnò ai cafoni a non togliersi il cappello davanti al padrone, insegnò a lottare per i diritti di tutti, questo facemmo noi comunisti. Questo fu il percorso e il lungo cammino di autodeterminazione. Gli anni sessanta e settanta, pur nella violenza furono anni di grande fermento, dove la reazione pareva sconfitta. Ma così non fu.

Il capitale il nostro grande nemico, si sviluppò e diventò all’apparenza umano, anzi, vi furono davvero casi in cui il capitalista aveva a cuore l’operaio, ma furono casi e pure quelli ora sono morti. Il superfluo, l’inutile divenne religione, gli anni ’80 del famoso edonismo sancirono l’inizio della fine. Da lì in poi cominciaste a vergognarvi di essere comunisti mentre altri vollero essere più comunisti di me, dando spazio alla moderazione, alla reazione, al trionfo del capitale. Produci, consuma e muori, questo è il vostro percorso di vita.»

«E quindi? Il capitalismo ha vinto?»

«No ragazzo mio, siamo noi ad avere perso. Il capitale continua, anzi amplifica ciò che ha sempre fatto, aumenta le disuguaglianze, crea sfruttati e sfruttatori, definisce confini e frontiere, cataloga i popoli in vincenti e sconfitti, accende focolai di guerra sempre e solo per gli stessi motivi, potere, imperialismo, religione (ricordi l’oppio dei popoli?). Un manipolo di oligarchi che detiene la ricchezza di tutto il mondo, i pochi contro i tanti, gli ultimi che combattono e si uccidono fra loro arricchendo i potenti pancioni che nascondono i soldi sporchi di sangue, olio e petrolio nelle stesse banche di un secolo fa. Con una grande differenza rispetto ad allora, non c’è più nessuno che prende per mano i miserabili e li conduca nella speranza di un avvenire migliore. Il sole dell’avvenire si sta spegnendo nel trionfo del capitale che continua a mettere gli ultimi contro i penultimi, gli umili contro i derelitti, gli operai contro gli operai, mandando al macello generazioni di giovani, inquinando e desertificando l’unico pianeta che avete, andando a passi da gigante incontro all’ignoto.»

«Quindi Ka, l’inevitabile è oramai raggiunto?»

«Sì in effetti l’avevo vista lunga, ma non sono mai stato un mago. Se posso darvi un consiglio, rileggetemi e e soprattutto capite ciò che ho scritto, magari una nuova speranza esiste e che non sia ancora una volta ciò che scrisse un tizio … “proletari di tutto il mondo unitevi”»

«Ciao Ka, e grazie di tutto»

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Cristiano Mazzoni

Cristiano Mazzoni è nato in una borgata di Ferrara, nell’autunno caldo del 1969. Ha scritto qualche libro ma non è scrittore, compone parole in colonna ma non è poeta, collabora con alcune testate ma non è giornalista. E’ impiegato metalmeccanico e tifoso della Spal.

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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