Dopo laccordo dell’OMC sulla fine delle sovvenzioni alla pesca eccessiva, arriva la tutela dell’alto mare. Nonostante il contesto internazionale sfavorevole e burrascoso, a causa principalmente del ritiro degli Stati Uniti dagli Accordi di Parigi sul clima, questo patto può essere considerato un’altra vittoria del multilateralismo ambientale.

Il trattato era stato adottato dagli Stati Membri dell’ONU a giugno 2023, dopo quasi vent’anni di negoziati. Rappresenta un valido strumento internazionale per la regolamentazione dell’alto mare, copre due terzi della superficie oceanica esclusi dalla giurisdizione nazionale dei singoli Stati. Stabilisce un insieme di norme giuridicamente vincolanti per conservare e utilizzare in maniera sostenibile la biodiversità marina, condividere i benefici delle risorse genetiche marine in modo più equo e rafforzare la cooperazione scientifica in ambito marittimo.

Tartaruga, foto da Rinnovabili

Il 19 settembre 2025 Marocco e Sierra Leone hanno ratificato il Trattato ONU per la Protezione dell’Alto Mare. Grazie a queste due ratifiche l’accordo diventerà finalmente norma internazionale a partire da gennaio 2026. Affinché entrasse in vigore, l’Agreement on the Conservation and Sustainable Use of Marine Biodiversity of Areas Beyond National Jurisdiction (BBNJ), questo il nome formale, doveva ottenere l’approvazione di 60 Paesi. Il patto è previsto che entri in vigore proprio proprio quando le acque internazionali stanno diventando sempre più oggetto di controverse per varie attività industriali, come l’estrazione mineraria in acque profonde.

Il Segretario Generale delle Nazioni Unite, António Guterres, ha parlato di “traguardo storico per l’oceano e per il multilateralismo“.

“In due anni, – ha proseguito Guterres – gli Stati hanno trasformato l’impegno in azione, dimostrando cosa è possibile fare quando le nazioni si uniscono per il bene comuneMentre affrontiamo la triplice crisi planetaria del cambiamento climatico, della perdita di biodiversità e dell’inquinamento, questo accordo è un’ancora di salvezza per l’oceano e l’umanità. La salute dell’oceano è la salute dell’umanità”. “Il patto costituisce un’opportunità di conservazione che si verifica una volta ogni generazione, se non di più” – ha affermato invece Lisa Speer, che dirige il Programma Internazionale per l’Oceano presso il Consiglio per la Difesa delle Risorse Naturali.

Il BBNJ trova fondamento nella Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, considerata alla stregua di una “costituzione dell’oceano”. Una volta entrato in vigore, precisamente il 17 gennaio 2026, il trattato per la protezione dell’alto mare fornirà un quadro globale utile al raggiungimento degli obiettivi internazionali in materia di biodiversità. Tra questi c’è l’impegno a proteggere il 30% delle aree terrestri e marine entro il 2030, secondo quanto previsto dall’Accordo Kunming-Montreal per la tutela della biodiversità. Trascorsi i 120 giorni, i singoli Paesi proporranno le aree da proteggere, da sottoposte poi al voto dei governi firmatari del patto.

La Francia è l’unico Paese dei G7 ad aver ratificato il trattato, oltre ad aver contribuito ad accelerare il ritmo delle ratifiche, nonostante la speranza di arrivare alla soglia delle 60 ratifiche già a giugno 2025, durante i lavori della Conferenza delle Nazioni Unite sull’Oceano organizzata a Nizza. Gli Stati Uniti, dunque, non sono i soli ad aver esitato. All’appello, infatti, manca anche il governo italiano, nonostante le promesse fatte in merito al BBNJ. Il governo britannico, invece, avrebbe presentato la proposta di legge di ratifica da parte del Parlamento all’inizio di settembre.

Come per altri Trattati ONU, anche questo, purtroppo, gode di opzioni di applicazione diretta alquanto limitate. I governi che hanno ratificato il patto si impegneranno a rispettarlo come norma internazionale e, se uniscono le forze, possono costringere gli altri governi non-firmatari a riconoscerne i termini.

A fine aprile 2025 il presidente statunitense, Donald Trump, ha firmato un ordine esecutivo finalizzato a “liberare le risorse e i minerali critici offshore degli Stati Uniti”. Lo scopo del documento è appunto sostenere le attività minerarie in acque profonde, attività devastanti per l’ecosistema marino ed oceanico. L’ordine esecutivo consente alla NOAA di emanare permessi per l’estrazione mineraria in acque profonde al di fuori delle acque territoriali statunitensi. Molti governi hanno osteggiato questa mossa, ritenendola una chiara violazione della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare, ma l’onnipotenza statunitense ha prevalso.

L’Autorità Internazionale per i Fondali Marini, l’ente ONU per il coordinamento di tutte le attività connesse allo sfruttamento dei fondali in acque internazionali, non ha ancora emesso le linee guida fondamentali a regolamentare il settore. Tale ritardo ha offerto ad alcuni Paesi, come gli USA, l’occasione di approfittarne. Infatti il Giappone avvierà l’estrazione di terre rare dai giacimenti dei fondali marini nell’ambito di un progetto pionieristico – ironia della sorte – proprio a gennaio 2026 e a dirigere l’operazione sarà l’Agenzia Giapponese per la Scienza e la Tecnologia Marina e Terrestre (JAMSTEC), come riporta il quotidiano Nikkei. La Chikyu, una nave per trivellazioni in acque profonde, stazionerà a 100-150 km di distanza dall’isola di Minami-Torishima, un atollo corallino a sud-est di Tokyo.

L’ex Capo della Casa Bianca, Joe Biden, era stato uno strenuo sostenitore del trattato sull’alto mare ma, con l’arrivo di Trump, gli USA hanno fatto marcia indietro. Non avendo ratificato il testo, non sono tenuti a rispettarlo. Tuttavia, come ha spiegato al NYT Russ Feingold, ex senatore democratico del Wisconsin, il patto “crea un regime internazionale che le aziende USA potrebbero avere difficoltà a ignorare se vogliono fare affari“.

In copertina: balenottera azzurra – foto di lotsotrash da Pixabay

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