Non amo i gioielli preziosi. Sono pigra, li cambio di rado perché ho paura di perderli, però mi piacciono gli anelli. Gli anelli mi parlano. Raccontano storie. Per me sono il continuum. All’anello associo sempre l’immagine di una catena di ferro che tiene ancorata una nave: tanti grossi anelli di ferro uniti fra loro. Forse è per questo che, per me, gli anelli sono importanti; tenere ancorata una nave non è cosa da poco! Contengono tante storie, una dentro l’altra e questo li rende affascinanti. Credo che un buon artigiano di gioielli sappia che ogni anello debba raccontare almeno una storia perché diventi quello dal quale non ci separeremo e deve saper recuperare nella forma la storia che gli viene raccontata. È capitato così all’anello di cui vi voglio parlare. Il mio amico Matteo lo ha reso speciale, infatti tutti dicono: “ma che bello e che strano che è, dove lo hai preso?”

Era l’anello di mio nonno, il nonno materno che non ho conosciuto, è morto un anno prima che nascessi. Mia madre me lo regalò per i miei venticinque anni di matrimonio; una fascia irregolare d’oro che sulla parte superiore portava impresse le cifre per la cera lacca. Cifre che il tempo ha sbiadito e reso quasi in leggibili. Mia madre dice che ci fosse una C e una R, Carlo Reverdi; la R stava per il cognome della mia bisnonna e già questo me lo ha reso, da subito, simpatico. Portava in sé le tracce delle radici matrilinee e non, come si usa dal concilio di Trento, quelle del padre, e poi la R si adattava bene a me, al mio nome. Si penserà che ho dita tozze e un po’ è vero, si narra, che le sue fossero, invece, bellissime e molto affusolate, e infatti l’anello era piccolo per il mio anulare ma grande per il mio mignolo. L’ho indossato subito. Al mignolo poteva andare anche se rischiavo di perderlo.

Mi ricordava le lettere che il nonno, appena diciottenne, era un ragazzo del ’99, aveva scritto dal fronte. Le avevo lette quando all’università avevamo fatto un corso monografico sulle testimonianze di chi era stato in guerra: la storia raccontata dal basso e non da chi l’ha governata, anche se oggi penso che non si governa la storia, la storia non la fa uno da solo al comando, la storia la facciamo tutti noi insieme, ma allora non si pensava così. Lui faceva parte di un corpo privilegiato, era ufficiale di artiglieria, calcolava la traiettoria dei cannoni. Il freddo, la solitudine, il silenzio della morte, quello sì lo ha compreso e vissuto. Era stato felice di partire, sarebbe andato a salvare la patria e eventualmente a morire compiendo il suo dovere. Alla fine le domande interiori aprivano dubbi e contraddizioni. Raccontavano la complessità conosciuta, vissuta sulla propria pelle e sulla pelle dei compagni.

L’anello l’ho indossato subito, dicevo, e uscita dalla casa materna, sono balzata sulla mia moto. Mentre guidavo sul ponte Monumentale – era una splendida giornata – ho sentito un ticchettio a rimbalzo… Din Din Din. Ho guardato il mio mignolo destro e l’anello non c’era più. Ci sono voluti pochi istanti per realizzare che il din din era dell’anello, ho accostato in fretta e furia e messo il cavalletto alla Vespa. Sono corsa indietro sul ciglio della strada. Confidavo che l’oro luccicasse e rispondesse al bagliore dei raggi solari settembrini. La strada, come la maggiore parte delle strade, era al centro leggermente più alta e digradava sui lati. Mi sono detta che fosse finito vicino al marciapiede, ma c’erano le macchine parcheggiate.

È iniziata una ricognizione che è durata più di un’ora. Ho guardato al centro della strada alla ricerca di un luccichio, ho guardato sotto le macchine, dietro ogni ruota, in ogni angolo buio. Ho iniziato dal lato destro, il lato del senso di marcia, dove mi pareva più logico fosse finito, poi sono passata all’altro lato. A tratti si univa un netturbino e un passante che vedendomi rannicchiata sotto le macchine, mi domandava cosa cercassi. Qualcuno provava ad aiutarmi, ma l’urgenza era mia e poco dopo desistevano, come era giusto che fosse.

Passata un’ora e mezza mi sono detta che dovevo telefonare alla mamma e confessarle la perdita del prezioso ricordo. Lei stava andando all’aeroporto a prendere un’amica, non poteva fare dietro front e mi disse: “se lo hai perso è perché doveva succedere, non ti preoccupare!”. Mi sollevò la coscienza ma io non volevo mollare; cominciai a controllare ogni tombino. Avevo scoperto che, anche se pesante, la griglia dei tombini riuscivo ad alzarla e così sono passata al vaglio di tutti quelli che c’erano. Dopo circa venti minuti si è palesata mia madre con una squadra di amiche tutte ottantenni.

Esilarante, la squadra femminile si mise sulle tracce dell’anello perduto, tanto più che avevano fatto voto a Sant’Antonio! Chi con gli occhiali, chi un po’ sorda, chi zoppicante, tutte decise a ritrovare il cimelio. Sono giunta all’ultimo tombino. Le speranze ormai un lumicino. Il tombino era più profondo degli altri e sul basamento stagnava acqua sporca, impossibile vederne il fondo.

Ho detto a mia madre che dovevano trovare un bastone nella speranza che rimescolando avrei potuto udire un ticchettio. Mia madre si è ricordata di avere una racchetta da sci nel portabagagli e si è diretta verso la macchina; è curioso quanto i portabagagli degli anziani restino pieni di cose impensate!
Ha attraversato in curva a monte della mia Vespa. Poco dopo è tornata sorridendo; tra le mani l’anello schiacciato in piccoli pezzetti. Luccicavano sulla linea di mezzeria proprio nel tratto in cui lei aveva attraversato.

Nessuna di noi aveva pensato di controllare il pezzo di strada a monte dell’improvvisato parcheggio della mia Vespa. Era distrutto. Ma la storia era intatta. Sono andata da Matteo* e gliel’ho raccontata nella speranza che me lo potesse sistemare. Matteo è il cantastorie dei gioielli.  lo ha fatto con la cura dei veri artigiani!  Non potendo riunire i pezzi li ha incastonati su una fascia color argento. Ognuno con la sua forma particolare. Oggi quell’anello mi riporta alla catena che tengono le navi ancorate: tanti pezzi, ognuno con la sua piccola storia; brillano uniti su un unico pezzo e tengono ancorata la mia nave!

* ) Matteo Bonafede orafo e artigiano di San Sebastiano Curone

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Roberta Trucco

Classe 1966, genovese doc (nel senso di cittadina innamorata della sua città), femminista atipica, felicemente sposata e madre di quattro figli. Laureata in lettere e filosofia con una tesi in teatro e spettacolo. Da sempre ritengo che il lavoro di cura non si limiti all’ambito domestico, ma debba investire il discorso politico sulla città. Per questo sono impegnata in un percorso di ricerca personale e d’impegno civico, in particolare sui contributi delle donne e sui diritti di cittadinanza dei bambini. Amo l’arte, il cinema, il teatro e ogni tipo di lettura. Da alcuni anni dipingo con passione, totalmente autodidatta. Credente, definita dentro la comunità una simpatica eretica, e convinta “che niente succede per caso.” Nel 2015 Ho scritto la prefazione del libro “la teologia femminista nella storia “ di Teresa Forcades.. Ho scritto la prefazione del libro “L’uomo creatore” di Angela Volpini” (2016). Ho e curato e scritto la prefazione al libro “Siamo Tutti diversi “ di Teresa Forcades. (2016). Ho scritto la prefazione del libro “Nel Ventre di un’altra” di Laura Corradi, (2017). Nel 2019 è uscito per Marlin Editore il mio primo romanzo “ Il mio nome è Maria Maddalena”. un romanzo che tratta lo spinoso tema della maternità surrogata e dell’ambiente.

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