Skip to main content

Raccontava mia nonna, vecchia contadina delle Alpi è vera leader di una famiglia frettolosamente definita “patriarcale”, che quando seppe che avrebbe avuto una pensione, che avrebbe ricevuto dei soldi senza per questo lavorare duramente, pensò per prima cosa ad uno scherzo da prete e poi, incassato il primo contributo, si sentì miracolata, la donna più felice del mondo, “na siòra”
Lei di politica non sapeva nulla, ma da donna pragmatica quale era, si sarà certo chiesta se questa fortuna si dovesse ad un intervento dell’Altissimo, alla bontà della Chiesa, al Progresso, all’interessamento di qualche Benefattore sconosciuto, o magari allo Stato. Resta il fatto che per lei, questo fatto della pensione, era, da solo, più che sufficiente per guardare con entusiasmo al futuro, per vederlo bello e per stupirsi positivamente di ogni cosa che per effetto del progresso arrivava ad ampliare i confini del mondo ristretto in cui era vissuta. Mia nonna, vecchia contadina, iniziava, in un luogo allora assolutamente periferico e caratterizzato da un economia di sussistenza, a godere dei frutti dello Stato Sociale sviluppatosi in quella società industriale che nelle città veniva già messa in discussione dai figli di coloro che ne avevano maggiormente beneficiato.
Oggi, non ci stupiamo più per simili cose; abbiamo dimenticato che quel che adesso molti di noi danno per scontato, lo Stato Sociale, il diritto al lavoro, la giusta pensione, i servizi essenziali gratuiti (etc.), rappresenta proprio l’eredità positiva della società industriale e delle lotte che l’hanno accompagnata: un lungo periodo caratterizzato dalla centralità del lavoro, dalla crescita economica e dall’aumento esponenziale del consumo e dall’aumento irresistibile del cosiddetto benessere; un sistema che nella sua avanzata inarrestabile ha anche distrutto culture, tradizioni, comunità, istituzioni secolari (ricordiamo le profetiche e feroci critiche di di P.P. Pasolini alla società dei consumi); un sistema che, a livello globale, ha imposto il modello capitalista occidentale con i suoi miti, le sue narrazioni, le sue istituzioni e la sua cultura (sempre più fortemente americanizzata).
Oggi quel tipo di società industriale non esiste più, ma non sono affatto caduti alcuni dei principi che ne avevano accompagnato lo sviluppo nel secolo scorso: sfruttamento senza limiti delle risorse naturali, crescita infinita misurata dal Pil, consumismo inteso come via per la felicità, ruolo centrale della tecno-scienza, efficientismo, automazione ed industrializzazione di ogni settore economico. Ciò che sembra andato perso definitivamente è invece l’idea della redistribuzione della ricchezza, dell’equità, della dignità del lavoro, che pure, almeno in Europa, avevano accompagnato quel periodo.
Non a caso viviamo oggi in un mondo caratterizzato dal dominio crescente della finanza anche a scapito dell’economia reale, le cui regole di funzionamento interno stanno spingendo – da decenni – verso l’espropriazione e la riallocazione della ricchezza che, dalle classi lavoratrici e dal ceto medio produttivo, si sposta implacabilmente verso l’alto, verso le élite. In questo mondo dove si insegna che lo scopo delle aziende è massimizzare il profitto degli azionisti, dove si lanciano senza ritegno guerre per esportare la democrazia, dove le opinioni ben confezionate valgono molto di più dei fatti conclamati, dove la parola e l’immagine virtualizzata ha preso il posto della realtà esperita con i sensi, il cittadino è diventato mero consumatore. In questo mondo la politica (che a questo stato di cose ha aperto la strada) ha finito col diventare il servo docile dei potentati economico-finanziari.
La mega macchina globale del marketing è diventata essa stessa cultura e – piaccia o meno – propone ed inculca valori, crea aspettative, riproduce instancabilmente il bisogno perché deve creare sempre nuovi desideri, produrre sempre nuovi consumatori su scala planetaria; essa, paradossalmente, omologa tutto facendo sembrare tutto differente. In questo nuovo ambiente sociale tutto è concesso purché non metta in discussione le regole di funzionamento del sistema economico-finanziario dominante fondato sull’indiscutibile assioma del libero mercato: la politica che ha abbandonato da tempo il campo dei diritti sociali diventa bio-politica o recita la retorica completamente vuota dei grandi ideali universali e dei nobili valori evocati alla bisogna.
Ma la realtà dei fatti – anche solo restando in Italia – è ben diversa come dovrebbero sapere per esperienza diretta i 5 milioni di italiani che vivono sotto la soglia di povertà (dati Istat), i milioni che non hanno più un lavoro tutelato e che stentano ad arrivare alla fine del mese, le migliaia di piccole imprese strangolate da una tassazione implacabile, le decine di migliaia di cittadini che vivono nella paura in quartieri completamente degradati, le centinaia di migliaia di persone attirate sulle coste italiana dalla speranza di una vita all’occidentale e poi abbandonate a loro stesse. Tutti effetti ben visibili di un cambiamento di cui non si capiscono i fini e i destini, che troppo spesso viene ancora letto ed interpretato con le categorie sociali e soggettive ormai obsolete maturate nella vecchia società industriale.
Non stupiscono in questo ambiente nuovo, dominato da troppa informazione, né le irresponsabili fughe in avanti né il tentativo improbabile di tornare al passato; non stupiscono il profondo senso di insicurezza, lo straniamento, i timori e le paure che caratterizzano il vissuto di molte persone che non riescono a diventare protagoniste del loro destino e che non si sentono più parte di un destino comune; non stupisce la frattura profonda che si è venuta a creare tra il mondo dei fatti concreti e il mondo dei discorsi che, più che rappresentare e discutere i primi, li costruisce in funzione degli interessi dominanti del momento.
Ora più che mai, per non restare in balia di forze ignote o ritirarsi irosamente nella propria zona di confort, per tornare a sentirsi (cittadini) protagonisti che vivono una dimensione di autenticità, serve una comprensione migliore di quel che succede a livello globale senza mai dimenticare le dimensione locale; bisogna fare uno sforzo per abbandonare categorie obsolete che portano a giudicare e condannare a priori ogni pensiero non allineato e bisogna fare uno sforzo ancora più grande per forgiare nuovi concetti e ipotizzare nuove teorie. Bisogna superare il pensiero politicamente corretto, il buonismo d’accatto, l’emotivismo dominante; serve fare un grande sforzo per recuperare rapporti più sani con chi ci vive vicino e a diretto contatto, in modo da unire le grandi dichiarazioni ideali con la pratica quotidiana; bisogna riconoscere e mettere in discussione i miti e i riti omologanti che ci sono imposti; urge ripensare il concetto di lavoro su cui si fonda la nostra Costituzione e mettere in gioco l’impegno personale che porta ad inventare pratiche di innovazione sociale ed azioni generative anche al di fuori del circuito economico-finanziario.
Se il lavoro non è più quella dimensione capace di creare relazionalità, senso ed inclusione sociale (oltre che reddito) bisogna inventare qualcos’altro; e se il lavoro manca, tenuto conto che la produzione di beni e servizi continua comunque ad aumentare, bisogna inventare nuove soluzioni per ridistribuire la ricchezza prodotta e garantire un minimo di equità.
Oggi più che mai servono un pensiero e una pratica politica capaci di liberare talenti e risorse (non di umiliarle), e servono invenzioni istituzionali paragonabili a quelle – enormi – della pensione e dello stato sociale che tanto positivamente stupivano mia nonna.
Ma per farlo bisogna avere il coraggio di inventare il futuro; l’alternativa è di subire supinamente, di ritirarsi nella propria bolla, con il rischio di trovarci, tra qualche anno, in un futuro pessimo del quale già si intravvedono i contorni.

tag:

Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

Periscopio è  proprietà di un azionariato diffuso e partecipato, garanzia di una gestitone collettiva e democratica del quotidiano. Si finanzia, quindi vive, grazie ai liberi contributi dei suoi lettori amici e sostenitori. Accetta e ospita sponsor ed inserzionisti solo socialmente, eticamente e culturalmente meritevoli.

Nato quasi otto anni fa con il nome Ferraraitalia già con una vocazione glocal, oggi il quotidiano è diventato: Periscopio naviga già in mare aperto, rivolgendosi a un pubblico nazionale e non solo. Non ci dimentichiamo però di Ferrara, la città che ospita la redazione e dove ogni giorno si fabbrica il giornale. e Ferraraitalia continua a vivere dentro Periscopio all’interno di una sezione speciale, una parte importante del tutto. 
Oggi Periscopio ha oltre 320.000 lettori, ma vogliamo crescere e farsi conoscere. Dipenderà da chi lo scrive ma soprattutto da chi lo legge e lo condivide con chi ancora non lo conosce. Per una volta, stare nella stessa barca può essere una avventura affascinante.  Buona navigazione a tutti.

Tutti i contenuti di Periscopio, salvo espressa indicazione, sono free. Possono essere liberamente stampati, diffusi e ripubblicati, indicando fonte, autore e data di pubblicazione su questo quotidiano.

Francesco Monini
direttore responsabile


Chi volesse chiedere informazioni sul nuovo progetto editoriale, può scrivere a: direttore@periscopionline.it