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Attaccante perennemente in fuorigioco, ai tempi ruggenti dei campetti amatoriali, “tipo Pippo Inzaghi: con l’aggravante che io su dieci tiri, ne mettevo al massimo uno dentro lo specchio della porta”. Inetto per i lavori manuali, anche solo cambiare una lampadina, “chiamo subito mia moglie”. Un’insana passione per la Spal che ormai rasenta il masochismo, non necessariamente sadico, e non è ancora stata premiata nemmeno da un provino: probabilmente andrebbe bene anche qualche palleggio da fermo, purché con la sacra maglia addosso. A metà del cammino della sua vita, Andrea Poltronieri, ma basterebbe anche solo Sax, è sicuramente un uomo sereno. E non è solo per il sax, che di solito – chissà perché – lo immagini impugnato da omoni grandi e grossi alla Clarence Clemons. Non c’è bisogno di essere giganti, però, e soprattutto non importa camminare lontano per salire sulle spalle dei giganti. La sua dimensione lo dimostra: quel karma che ha trovato miracolosamente il giusto dosaggio tra la musica, la capacità di sorridere e di sorridersi addosso, e un amore per Ferrara che non è un sentimento, non è roba da romantici. E’ una roba che prende allo stomaco, praticamente una fune. Un cavo di acciaio che lo tiene per i piedi e non l’ha mai lasciato andare via, nemmeno quando la tentazione era quasi invincibile, ma non gli ha mai impedito di scorrazzare dove lo porta la fantasia e dove osano i migliori. Tra l’incompiuto profeta in patria e l’infelice esule per il mondo c’è in mezzo una categoria dell’anima e Andrea ne è la prova in carne e ossa, forse più carne che ossa. E alla vigilia di uno spettacolo teatrale che è la sua “ripartenza” in tutti i sensi, alla boa sontuosa dei cinquant’anni, ma c’entra molto più la signora Nives che gli schemi del pallone, si volta indietro, verso quel ragazzo che coi mitici Libagions azzardava cover di pezzi famosi. Quando Ferrara era una fucina di “faccio cose, vedo persone”, di note e di voglia di suonare, quando non c’erano ancora i cellulari e il computer era il Vic 20. Sono passati vent’anni, non ere geologiche. E comunque sì, il “tu” nelle interviste non ci andrebbe, ma con Andrea Sax non c’è scelta: il “lei” stecca.

“Era il 1988 per la precisione, in città c’era un grande fermento fatto di spazi e rassegne, si suonava dappertutto, anche nei negozi. C’erano invidie e gelosi tra gruppi, tutta una serie di cose che col tempo si è poi persa, salvo poche eccezioni. Il gruppo si è sciolto nel 1994, abbiamo provato un duo, un trio, poi nel 1995 ho deciso di cominciare a fare le cose da solo, solo che all’epoca c’erano il karaoke e il piano bar, e a me non piacevano proprio. Così ho messo in piedi un mio show fatto di parodie di canzoni in dialetto”.

Non poteva che cominciare così, una storia ferrarese come la tua.
“E’ stato merito di mio padre che mi faceva sentire le cassette di Alfio Finetti, io purtroppo non avevo la sua dote per i testi, così ho messo insieme la voglia di far sorridere con la musica e da allora faccio serate, sono ormai 20 anni ed è stato sempre un crescendo. La qual cosa, lo confesso, mi stupisce sempre un po’, se ripenso al cammino che ho fatto: gli inizi sono stati un po’ difficili, certo, ma poi se le cose vanno bene è come una mano che ti prende sotto braccio e non ti molla più. Ho cercato comunque di fare esperienze diverse, perché se in questo ambiente ti mettono un timbro in fronte, tipo le canzoni in ferrarese, poi sei finito”.

Da Ferrara a Zelig, dal Castello ai palcoscenici nazionali, compresi la Rai e il teatro. Sempre col sax al collo, però.
“Sì, sempre. Ho cominciato ad amarlo che ero piccolo, era il 1979, mia mamma mi portò allo stadio Benelli di Ravenna a sentire Banana Republic con Dalla e De Gregori. E’ nata lì la passione, con le strofe di “Cosa sarà”, e Lucio è stato un punto di riferimento per tutta la mia vita”.

Molti incontri, a volte anche casuali. Forse succede più spesso di quello che si pensi.
“Avevo sempre il sax con me e una volta, in aeroporto, ho conosciuto per caso Gaetano Curreri, che si era incuriosito per l’adesivo dei Beatles che avevo attaccato al mio strumento. Ne è nata un’amicizia e una collaborazione musicale che è andata avanti per tanto tempo”.

Hai fatto cose anche molto diverse tra loro, dopo.
“In tempi più recenti ho partecipato al concerto per l’Emilia, dopo il sisma, così come ho suonato a Milano e Roma con Cristina D’Avena. Ma ho anche partecipato a due dischi strumentali che io intendo come musica da proporre a tutti, non in performance in locali per addetti ai lavori in cui qualcuno storce il naso se sbagli una scala”.

Ma il musicista non ha mai sopraffatto il comico. O viceversa.
“Questo è un bell’argomento. In verità ho capito da un po’ che non devo far finta di essere altro, e che devo essere me stesso. Mi spiego meglio: è un po’ come quando si fanno i provini, ti dicono che non puoi fare questo e quello, tipo le parodie, in gergo i centoni, ma poi vedi che Zalone le fa, che a Zelig e Colorado ne sono pieni, e pensi perché io no? La verità è che il vero cabaret, come nella sua origine francese, non è questa roba che si vede nei programmi inflazionati con le battute fini a se stesse. Il cabaret è la satira che fanno Crozza e la Littizzetto. Qualcosa di più alto”.

Nella vita bisogna pur osare: è un luogo comune?
“No, anzi, ma è anche vero che io non posso prescindere dalla sagra del castrato e del tortellino, intendo dal fare quel tipo di spettacoli in quel tipo di contesto, perché ho pur sempre una famiglia e devo pur portare a casa il necessario, il mutuo lo devo pagare anche io. Se ho una colpa, diciamo, è che ho dovuto sempre pensare a questo, alla pagnotta”.

Dicono che far ridere sia molto più difficile che suscitare le lacrime.
“Io sono sempre stato uno che amava scherzare e fare il matto, diciamo. Fin dai tempi della scuola, al Dosso Dossi, facevo le imitazioni dei compagni e dei professori. Ho sempre amato la goliardia e negli anni ’80 non c’era Whatsapp, lo facevo io diciamo”.

Un giullare moderno, però: di quelli che vogliono anche far pensare.
“I miei modelli sono maestri come Albanese e Bergonzoni, ma anche Natalino Balasso, la grande tradizione del cabaret milanese e quella del sud. Non mi è mai piaciuta la risata fine a se stessa, gretta. E ho cercato di mettere tutto questo anche nell’ultimo spettacolo col personaggio di Nives”.

Ma a pensare troppo poi c’è il rischio censura, o no?
“Dipende anche dal contesto in cui ti trovi. Per esempio a Zelig, all’epoca d’oro di Berlusconi, i copioni erano molto controllati perché non amavano che si facessero certe battute. In Rai e a La7 credo sia diverso. Ma io non sono mai stato condizionato perché per scelta non ho mai voluto fare politica. Piero Pelù, per fare un esempio, può dire che Renzi non gli piace e che preferisce i 5 Stelle. Andrea Poltronieri no, non se lo può permettere”.

Non ti chiederò quindi come la pensi tu. Ma ti chiedo dove sia finito quel fermento musicale che c’era a Ferrara ai tempi dei Libagions.
“I gruppi ci sono anche adesso, le sale prove sono sempre piene e con i social e la rete per i ragazzi ci sono infinite possibilità tecniche che a noi erano precluse, pensa che noi eravamo ai tempi delle cassette e giravamo con i nastri in tasca. Ma nonostante i giovani adesso abbiamo più possibilità, mi pare si espongano meno. Si buttano meno”.

Forse sarebbe banale dire che hanno meno fame. Ma certo molti se ne vanno a cercare fortuna altrove, anche all’estero.
“Ferrara si è indubbiamente un po’ seduta, tanti sono scappati. Ma io penso che sia un errore dire di volergli bene e poi dire che non c’è niente. Io invece, al contrario, ho sempre cercato di essere forte e presente nel mio feudo, nel mio territorio, perché essere amato a casa tua ti fa più forte anche fuori. Se ci pensi bene, è stato quello che ha fatto per tutta la vita gente come Pino Daniele, Guccini, Dalla, anche Jovanotti a Cortona o lo stesso Caparezza in Puglia. Non hanno mai ripudiato la loro terra, anzi ne hanno tratto una spinta per arrivare più lontano”.

Una lezione di sentimenti e di marketing in sette righe. Eppure in questa città non è facile fare le cose, a volte pare ci sia un muro invisibile.
“Vero, ma è riuscita lo stesso e col tempo a mettersi al passo coi tempi di globalizzazione, come testimonia il Buskers Festival, o la rassegna Internazionale. Certo, il ferrarese tipico ha i gusti difficili, dice che schifo questo e l’altro, specie di questi tempi in cui tra furti in casa e terrorismo internazionale si ha paura di tutti e di tutto, e ci si chiude sempre di più. Ma Ferrara è una città stupenda, unica, e ha delle realtà che ci invidiano tutti”.

Decisamente hai una cotta adolescenziale per la tua città, e sono cose che non passano mai. Ma ci sono anche le note dolenti. La più grande è sicuramente la Spal.
“Guarda, fin da piccolo, quando abitavamo in via Darsena, ero già un fanatico. La domenica mattina andavo col nonno a comprare i cannoli con la crema e poi allo stadio, a respirare l’odore dell’erba del Mazza. Ero e resto un abbonato, certo con lo spezzatino degli orari mi sono perso parecchie partite. Adesso però mi pare ci sia una gestione seria e ci sono dei bei progetti, perché con tutto il rispetto non è possibile che Sassuolo e Carpi facciano la serie A e noi siamo dove siamo. Meritiamo come minimo la serie B, anche se poi, anche quando porti seimila persone allo stadio, poi magari perdi malamente come col Pisa. Ma non importa, si brontola e si mandano giù magoni, ma si vive di grandi passioni”.

Tra le tue, se ricordo bene, c’è anche il disegno. Eri un promettente vignettista ai tempi di un piccolo grande giornale, “Spal 2000”.
“Quando feci la tesi all’accademia di Belle Arti, scelsi proprio De Chirico e la Ferrara metafisica, per questo la mostra che c’è adesso mi è molto cara. Io amo questa città la amo proprio, la vivo anche di notte, dal momento che non dormo molto. Mi è capitato di essere a piazza Ariostea avvolto nella nebbia ed è stato molto bello. Certo, adesso come dappertutto ci sono anche cinesi, pakistani, gente di tutto il mondo, ma la ferraresità resta. Quella c’è sempre”.

Trova l’arte prima che l’arte trova te: come è andato davvero il tuo incontro col pentagramma?
“Mio padre pittore, mia sorella suonava chitarra e pianoforte, mia mamma era una donna molto intelligente e ironica che mi ha insegnato la forza del sorriso. La sua perdita, pochi anni fa, è stata un dolore molto grande, ma adesso c’è Emma, mia figlia, che porta il suo nome e che ha moltiplicato tutte le mie energie e i mie sogni”.

Quindi da grande ti immagini a fare la persona seria?
“Con tre soci ho fondato l’agenzia Canillo, fusione di cane e armadillo, perché penso che in questo territorio mancasse una realtà che possa produrre e scommettere sulle tante realtà giovani che ci sono, sui talenti di casa nostra. Ma non voglio rinunciare al mio essere musicista, il 4 gennaio sarò al teatro Nuovo, con l’orchestra sinfonica di Diego Basso che ha collaborato anche con Bocelli, a fare tre brani famosi. Sono cose che fanno piacere, diciamo la verità. Sono soddisfazioni. Perché poi faccio progetti da imprenditore, diciamo, ma se vado in giro a fare provini col sax e mi prendono magari poi accetto, che posso dirti. Mi sento e mi sentirò sempre uno spirito giovane”.

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Salvatore Maria Righi

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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