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Le luci all’interno della sala cinematografica trasmettono un clima di piacevole tepore. Gli spettatori, seduti in comode poltrone rosse, fissano lo schermo davanti a loro, ma noi non riusciamo a capire cosa osservano, quale pellicola venga mostrata. Poco più in là, visibile ai nostri occhi, ma separata dalla sala da un muro e da una colonna lavorata che divide nettamente la scena, una maschera scruta dentro di sè. Bionda e slanciata, sembra avere gli occhi chiusi e, con gesti accentuati, scenici, posa per chi la osserva, ignorandolo.
hopper2La gestione degli spazi e le caratterizzazioni dei personaggi hanno attribuito a Edward Hopper la fama di pittore della solitudine americana. La scena descritta rappresenta un’opera del 1939,”New York Movie”, ed è un esempio di quella che sarà gran parte dell’arte del pittore.
Nato a Nyack, località nello Stato di New York, alla fine dell’Ottocento, trascorre la sua vita privata con la stessa regolarità con cui affronta quella artistica. Durante il suo periodo in Europa e l’obbligatorio soggiorno parigino, non si lascia tentare dalla vita sregolata dei suoi colleghi. La Parigi dei primi del Novecento è una città in continua mutazione, voluttuosa e viva, che vede tra i suoi più illustri cittadini Pablo Picasso, Gino Severini e Amedeo Modigliani, e il giovane artista americano avrebbe potuto essere facilmente risucchiato dal vortice degli artisti maledetti. Apprende molto, la formazione ricevuta dai suoi studi in quegli anni caratterizza le sue prime opere, nelle quali sono presenti lo stile degli espressionisti, le figure di Degas e i colori di Manet, ma da questi si distacca durante il primo periodo del rientro in America, in cui emerge quella che sarà la sua identità, immutata fino alla fine dei suoi giorni. Fondamentale la conoscenza, che porta al matrimonio, con l’artista Josephine Nivison, pittrice che ha avuto meno successo del marito, a cui ha fatto da manager, da musa e da compagna.
Edward Hopper si ritrova coinvolto in un processo artistico essenziale per la storia della sua patria. Fino ai primi del Novecento, infatti, non si poteva parlare di una vera e propria arte americana, gli artisti si trasferivano in Europa, vivevano a Parigi per qualche anno e, al loro rientro, aprivano Accademie in cui primeggiava lo stile tipico europeo, lontano dall’arte folcloristica fino ad allora rappresentativa del territorio americano. Tornato a New York, Hopper si focalizza proprio su questo concetto nazionalistico, mostrando nelle sue opere la realtà americana.
imagePonti, case in stile vittoriano, appartamenti cittadini, ferrovie sono solo alcuni degli elementi da lui ritratti, emblema della contraddizione tra civilizzazione e natura, tra ciò che l’uomo aveva costruito e quello di cui la natura voleva rimpadronirsi. Per questo case immerse nei campi assumono aspetti del paesaggio che li circonda, le mura si colorano con i toni della terra e l’azzurro tenue del cielo conquista le tegole dei tetti.
Lo spettatore osserva queste contrapposizioni da una prospettiva nuova, come se ciò che viene raffigurato fosse il frammento di un’immagine, qualcosa guardato da un treno in corsa. Lo scopo è far sentire spaesato chiunque guardi le opere.
Diverse sono le rappresentazioni degli interni, in cui appaiono le figure umane. Assorte, spesso annoiate, distratte da qualcosa al di fuori del dipinto, che seguono con lo sguardo, lasciando allo spettatore la sensazione di essere un voyeur. Hopper rappresenta donne in momenti di intimità, senza lascivia e senza l’intento di renderli oggetti sessuali. E’ lo studio della natura umana, esseri forti e fragili al contempo, come “Una donna al sole”, intenta a fumare una sigaretta accanto ad un letto disfatto, esposta al sole, pensosa e malinconica. Anche vestite, rappresentate in luoghi di ritrovo come caffè, ristoranti o teatri, le figure di Hopper restano misteriose, con la mente altrove, lasciando che il corpo esibisca la loro semplice presenza fisica.
In tutte le situazioni lo spettatore non è invitato a partecipare ai momenti rappresentati, è l’osservatore silenzioso di parte della scena, osserva i personaggi, ma non quello che ne cattura l’attenzione, come se le finestre fossero quadri all’interno del quadro stesso, rendendo le figure osservate spettatori, a loro volta, di qualcosa che a noi è negato.
Più volte nella sua carriera, il pittore americano ha affermato la difficoltà nel dipingere contemporaneamente un ambiente interno e un esterno, perché per creare una rappresentazione del reale si deve conoscere con attenzione ciò che si vuole mostrare. Così riaffiora alla memoria una casa del suo quartiere, gli alberi che osservava da bambino attraverso una finestra, una delle città in cui ha vissuto.
Lo studio degli spazi gli ha permesso di realizzare i doppi ambienti, fatti di interni ed esterni, grazie alla tecnica della parete penetrabile: vetrate immense che dividono lasciando la scena visibile. In alcune opere lo spettatore deve concentrarsi su ciò che guarda per poter vedere questo muro invisibile, posizionato con una prospettiva tale da sembrare inesistente: in realtà stiamo osservando la scena proprio spiando attraverso la vetrata. In altri quadri, l’enorme elemento separatore diviene oggetto fondamentale per la scena, così come nel celebre “Nottambuli”, del 1942, in cui tre persone, sedute al bancone di un bar situato all’angolo di una via, si perdono nei loro pensieri, osservati a distanza dallo spettatore voyeur, escluso dalla scena.
1280px-Nighthawks_by_Edward_Hopper_1942Nell’arte di Hopper tutto è contrasto: le grandi città, opposte ai piccoli borghi di campagna, donne e uomini, che condividono gli spazi senza che le loro singole identità si tocchino mai, assenti e inespressivi anche nello stessa camera da letto, natura e civiltà. Anche con temi così contrastanti tra loro, le opere non si mostrano mai schierate o politicizzate, l’obiettivo di Hopper, che lui stesso dichiarò irraggiungibile per le sue capacità, era mostrare la realtà nella sua accezione più pura, eliminando ogni tecnica artificiale. Il suo desiderio era realizzare un’opera che shoccasse gli spettatori per la sua rappresentazione così perfetta da sembrare viva.
Le opere dell’artista considerato tra i più importanti del XX secolo, colui che raffigurava la solitudine americana, da oggi sono in mostra al Palazzo Fava, fino al 24 luglio, in collaborazione con il Whitney Museum of American Art di New York. Sono esposte più di sessanta opere, partendo dagli acquerelli parigini fino agli scorci americani realizzati olio su tela, che doneranno una visuale completa della sua concezione artistica e del percorso creativo. La mostra “Edward Hopper”, curata da Barbara Haskell, responsabile della sezione dipinti e sculture dell’istituzione museale americana, e Luca Beatrice, è organizzata in sei sezioni cronologiche che raggruppano i temi centrali dell’arte di Hopper, tra ambigui personaggi e ambientazioni quasi cinematografiche.

Sito ufficiale della mostra

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Chiara Ricchiuti


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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