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Chi frequenta, almeno un po’, il vizio della scrittura, conosce bene il ‘tormento del titolo’. Ti lambicchi il cervello ma il titolo, il titolo giusto, non arriva. Alla fine lo trovi, ma non ti convince, e lo cambi e lo ricambi. Fermo e Lucia? Gli Sposi Promessi? I Promessi Sposi? Ma succede anche il contrario. A volte, invece di uno, ne trovi dieci di titoli. E vanno tutti bene, ti piacciono tutti, non vorresti scartarne nessuno.
Su Vittorio Sgarbi, su sua sorella Elisabetta, sulla nota vicenda della Collezione Cavallini Sgarbi, di cose da dire ce ne sono davvero tante. E ognuna di queste merita il suo titolo proprio. Così, abusando della pazienza dei miei venticinque lettori (una stima molto più vicina al reale di quella fatta un po’ per piaggeria dal sommo Manzoni), nel seguito troverete diversi titoli paralleli. Parafrasando il famoso detto: “A ogni titolo il suo lettore. A ogni lettore il suo titolo”.

Dunìn l’è mort

Dunìn – così si chiama a Ferrara, ma vive in qualsiasi altrove con altro nome –  era un tale che donava senza pretendere nulla in cambio. Nel detto popolare Dunìn è morto, se n’è spenta la genia, perché nella dura realtà della vita, chi dona, chi ama presentarsi come benefattore disinteressato, spesso nasconde un suo personale tornaconto. Insomma, quel che sembra un dono è spessissimo uno scambio commerciale ben camuffato.
La Collezione Cavallini Sgarbi ‘donata’ alla città in cambio del 20 per cento degli incassi, ha suscitato un gran polverone. E’ un fatto piuttosto vergognoso, e bene ha fatto la neonata Associazione Piazza Verdi a denunciarlo, rivelando tutti i dettagli della vicenda.  E inaugura anche una prassi inedita – scambiare in vita l’affidamento al Pubblico di un bene privato in cambio di un congruo affitto – che è sperabile non faccia scuola.
D’ora in poi, mi viene da dire, dovrebbero essere severamente vietate le donazioni, o presunte tali, che non siano post mortem. Vuoi donare un bel quadro alla Collettività? Grazie tante, è un gesto nobilissimo. Ma aspetta di morire.
Insomma, anche a me tutta la storia non piace per nulla. Sono disposto anche a scandalizzarmi, ma non riesco a fingermi sorpreso. Dunìn l’è mort da molto prima che Vittorio Sgarbi venisse al mondo. Anzi, che io sappia, il proverbiale signor Dunin non è mai esistito.
C’è però qualcosa che mi è sembrato davvero insopportabile: le parole di Vittorio Sgarbi appena dopo la vittoria del Centrodestra e l’elezione di Alan Fabbri a Primo Cittadino di Ferrara. Siccome Sgarbi possiede un formidabile megafono, e siccome Sgarbi ama le ripetizioni (vedi il fatidico “capra, capra capra”) è difficile dimenticare la sua dichiarazione di intenti, la sua solenne promessa: per Ferrara lavorerò gratis, dalla mia città non voglio neppure un soldo, farò il presidente di Ferrara Arte senza stipendio.
Ecco, almeno questo Vittorio Sgarbi poteva risparmiarcelo.

Le urne dei Forti

Vittorio Emiliani ha scritto aI Fatto Quotidiano (12 febbraio) una appassionata e dolente lettera sulla decadenza di Ferrara. L’occasione per il suo intervento, quasi un de profundis, è ancora una volta la vicenda di cui sopra e, insieme, le ultime sparate pubbliche del Vicesindaco Naomo Lodi. Emiliani, che a Ferrara aveva frequentato il Liceo Ariosto e che per la nostra città conserva un amore profondo, ispirato dalle ‘urne dei Forti’, pensando cioè ai tanti e trapassati ferraresi illustri, lamenta l’abisso di volgarità in cui è caduta la città degli Estensi. Volgarità che, sia detto per inciso, noi indigeni dobbiamo sorbirci quotidianamente.
Ferrara è da tempo e stabilmente alla ribalta delle cronache nazionali. Per la clamorosa sconfitta del Centrosinistra e l’avvento del primo Governo Leghista, per il falso e sciagurato storytelling su un quartiere Gad in mano alla malavita, per la rimozione dello striscione di Giulio Regeni dallo Scalone del Comune, per la ‘proposta indecente’ di assunzione fatta dal Consigliere Comunale Armato Stefano Solaroli, per la ruspa sgombra-rom e le minacce sui social del capopopolo Naomo… L’ultimo capitolo della nuova ‘fortuna mediatica’ di Ferrara è, per l’appunto, l’accordo artistico-commerciale tra i fratelli Sgarbi e la nuova Giunta leghista. Altri seguiranno.
La “triste Ferrara” di cui scrive Emiliani, è tanto più triste per noi ferraresi. Che, quando incontri un amico foresto, questi non ti chiede più del Meis o della mostra di De Nittis e di Previati, ma sfodera ironie o ti sussurra all’orecchio le sue condoglianze per la discesa agli Inferi di Ferrara.
I Forti, gli Uomini illustri di Ferrara – nella sua lettera Vittorio Emiliani ne nomina tanti – probabilmente in questo momento si rivoltano nella tomba. Aggiungo altri nomi all’elenco di Emiliani: che cosa penserebbero della Ferrara di oggi, cosa direbbero, che proposte farebbero persone del calibro di Silvano Balboni, Vittorio Passerini, Paolo Ravenna, Guido Fink, Adriano Franceschini, Luciano Chiappini, Carlo Bassi se fossero ancora tra noi?
Rimangono i vivi. Ma questi preferiscono strillare vanamente. O starsene in silenzio. Forse il nostro guaio non si chiama Naomo, non dipende dalle vere o presunte malefatte della premiata ditta F.lli Sgarbi. Forse il guaio (la nostra colpa) è non svegliarci da un profondo sonno civile, prima ancora che culturale e politico.

Peccato Vittorio!

Attenzione, quel che dirò di seguito, mi guadagnerà dei nemici.
Non conosco di persona Vittorio Sgarbi. Culturalmente e politicamente sono ai suoi antipodi: non c’è bisogno di aggiungere altro. Ma non capisco, e non approvo, quel livore che tante e tanti amici di sinistra nutrono verso di lui. Sembra quasi obbligatorio esternare verso Sgarbi un sovrano disprezzo, dargli dell’incompetente, del farabutto, del fascista e consimili. A me pare una solenne cretinata.
Non conosco Vittorio Sgarbi, non ho il numero di uno dei suoi numerosi cellulari. Se lo avessi, se una sera mi venisse voglia di fare quel numero e lui, per qualche caso, rispondesse al telefono, gli direi che io non la penso cosi. Che, anzi, lo ritengo persona di profonda conoscenza della storia dell’arte e di grande curiosità intellettuale, con una rara sensibilità e intuito nello scoprire e valorizzare tanti nostri artisti ‘minori’ e ingiustamente dimenticati. Gli concederei volentieri talento nella scrittura, in particolare nella divulgazione. Confesserei che molti suoi libri, anche se non geniali, sono godibili e scritti in un buon italiano. Libri utili, in mezzo a un mare di libri inutili.
Certo, Sgarbi è anche affetto da un egotismo al quarto stadio; è un Grande Narciso, un polemista che ama trascendere nell’insulto. Ma quanti, tra politici ed intellettuali, e con meno talento di lui, coltivano i medesimi vizi?
Vittorio Sgarbi non mi piace. Eppure lo compiango. Mi spiace che nella sua vita, percorsa sempre a cento all’ora, abbia compiuto quell’errore fatale e irrimediabile. Ha voluto occuparsi e occupare la politica. Così è diventato un politico mediocre, un saltafossi, un arraffino: ‘uno come tanti’, proprio lui che per vizio e vocazione si è sempre pensato unico e inimitabile.
Si fosse limitato a fare bene il suo mestiere, avesse continuato ad arare il suo campo e coltivare le sue messi,   Vittorio Sgarbi sarebbe diventato un altro Federico Zeri (da Sgarbi tanto odiato, ma che tanto gli assomigliava, nel fiuto, nell’anticonformismo, come nelle inevitabili cantonate). Non esageriamo, Sgarbi non è e non sarebbe mai stato un Roberto Longhi, ma pian piano avrebbe potuto occupare un posto significativo nella storia della critica dell’arte figurativa. Si sarebbe preso le sue soddisfazioni. E avrebbe fatto i soldi ugualmente.
Senza la politica, con la passione e la strenua applicazione al lavoro che tutti gli riconoscono, poteva fare molta strada. E magari, con un po’ di fortuna, andare anche lontano, arrrivare a incontrare i suoi posteri, entrare addirittura nel novero dei ferraresi illustri. E invece niente. Capra, capra, capra… Che peccato Vittorio!

 

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Francesco Monini

Nato a Ferrara, è innamorato del Sud (d’Italia e del Mondo) ma a Ferrara gli piace tornare. Giornalista, autore, infinito lettore. E’ stato tra i soci fondatori della cooperativa sociale “le pagine” di cui è stato presidente per tre lustri. Ha collaborato a Rocca, Linus, Cuore, il manifesto e molti altri giornali e riviste. E’ direttore responsabile di “madrugada”, trimestrale di incontri e racconti e del quotidiano online “Periscopio”. Ha tre figli di cui va ingenuamente fiero e di cui mostra le fotografie a chiunque incontra.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

Caro lettore

Dopo molti mesi di pensieri, ripensamenti, idee luminose e amletici dubbi, quello che vi trovate sotto gli occhi è il Nuovo Periscopio. Molto, forse troppo ardito, colorato, anticonvenzionale, diverso da tutti gli altri media in circolazione, in edicola o sul web.

Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

Periscopio è quindi un giornale popolare, non nazionalpopolare. Un quotidiano “generalista”,  scritto per essere letto da tutti (“quelli che hanno letto milioni di libri o che non sanno nemmeno parlare” F. De Gregori), da tutti quelli che coltivano la curiosità, e non dalle elites, dai circoli degli addetti ai lavori, dagli intellettuali del vuoto e della chiacchiera.

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