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In questi mesi la didattica a distanza (per i ‘congiunti’ DAD) sta suscitando un dibattito sulla scuola come forse non ce n’era da tempo, e questo per ragioni in parte organizzative – la campanella scandiva la giornata delle famiglie, non solo dei bambini e adolescenti – ma in grandissima parte di merito, di contenuto. Ci interroghiamo tutti insieme su che cosa debba essere la scuola, quale sia il suo compito, che rapporto ci sia tra relazioni e saperi, e tra conoscenze e competenze. Argomenti di un certo calibro, che provvisoriamente stanno appassionando anche i non addetti ai lavori. Nel distinguersi delle consuete tifoserie – attenzione che non si facciano ‘assembramenti’! – mi sembra più affollata la curva dei detrattori, e che gli accaniti sostenitori siano mossi o dalle precauzioni sanitarie (non riguarda la scuola in sé, ma tutti i luoghi dove andavamo in tanti, dal teatro allo stadio), o dall’idea che finalmente ci si possa concentrare sulle materie. Formata al dilemma del rabbino che vede perfettamente compatibili le opposte ragioni di marito e moglie, non so prendere una posizione unica e forse neppure mi importa, non avendo la responsabilità di orientare verso questa o quella soluzione. Sono persuasa che ancor prima della pandemia si sarebbe insegnato e imparato molto meglio in classi di 15 ragazzi invece che di 28, con strumenti aggiornati, ambienti idonei, insegnanti formati e forse mediamente un po’ più giovani. Alcune cose da fare per chi volesse far funzionare la scuola erano chiare anche prima. Ora si aggiunge lo spettro del Covid-19 e tutto si complica. Ci costringe, che lo vogliamo o no, a ragionare sulla didattica a distanza.

Le ombre. Diseguaglianze a più livelli.
In cima alla colonna, con il segno meno, sta la diseguaglianza nel possesso di strumenti e connessione, nella loro capacità d’uso e nel supporto che la famiglia può dare al figlio. Se al primo punto ha cercato di porre rimedio un fondo governativo, affrontare gli altri due è più difficile e non è neppure inedito; già prima i ragazzi ricevevano sollecitazioni diverse a seconda della famiglia in cui erano nati, ma adesso pesa di più, perché l’azione di riequilibrio affidata alla scuola è ridotta. Ci sono associazioni di volontariato che stanno organizzando progetti di aiuto ai compiti, naturalmente a distanza, per i bambini che ne hanno bisogno, ma non è mai finita.
Ancora nella colonna meno annoto la libera interpretazione che gli insegnanti possono dare del loro lavoro, il che ulteriormente amplifica differenze preesistenti. Come in ogni professione, anche in questa ci sono sempre stati insegnanti più o meno impegnati; da quando non si entra in classe c’è chi se la cava con qualche mail ai ragazzi, chiedendo di studiare da qui a lì, o caricando qualche video sul registro elettronico. Salta il controllo sull’effettivo lavoro svolto dal docente. Non mancano tuttavia quelli che hanno raddoppiato l’impegno, tra preparare materiale didattico, fare ricerche in rete, immaginare contenuti e modalità non scontati. I più solerti, gli appassionati, o semplicemente gli incaricati si adoperano affinché la scuola garantisca a ciascun allievo la disponibilità degli strumenti, o si metta in rete con servizi e associazioni per essere più vicina ai ragazzi.
Prosegue intanto il lavoro collegiale. Consigli di classe e riunioni si susseguono, come hanno sempre fatto, ma online. D’accordo, non è la miniera, ma rimanere connessi davanti a uno schermo per molte ore consecutive può essere stancante, chi lo sta sperimentando lo sa.
Una tra le principali critiche mosse alla DAD è quella di trattare bambini e ragazzi come contenitori da riempire e non come persone. Per affrontare il discorso in modo approfondito bisognerebbe almeno distinguere le fasce d’età a cui si fa riferimento: un bambino di 4 anni e un adolescente di 16 hanno bisogni e autonomie del tutto diversi. Anche dribblando questo argomento, occorre chiedersi se la DAD debba necessariamente essere fredda e nozionistica. Molti pensano di sì e perciò la rifiutano. Certo, se si ha in testa la scuola come pura trasmissione di informazioni, lavorare on line aiuta. Distilla il tempo trascorso insieme e impoverisce il residuo di relazioni che in aula si dà, anche non volendo, e da certi adulti è inteso come puro disturbo. Perché in aula ci sono gli sguardi, le risate e le boccacce, i bigliettini sotto il banco, insomma ci sono i corpi con le loro esigenze e tensioni. Il sottobosco di rapporti tra i ragazzi si nutre di intervalli, ore buche, smagliature della didattica e sopravvivere, qualunque sia il rendimento scolastico, è una componente fondamentale dello stare insieme ed è formativo e coinvolgente almeno quanto, per alcuni studenti molto più, di qualsiasi parola esca dalla bocca del docente. Tutto questo, irrimediabilmente, è perduto.
Non tutti gli insegnanti – io dico: per fortuna – la pensano così e, proprio perché i modi di procedere sono molti, non si fermano le incomprensioni scuola-famiglia. Ora più di prima ogni genitore può verificare di persona lo stile di lavoro di ciascun docente e criticarlo per una ragione o per l’altra. Quello che mai potrà essere condiviso è proprio il punto di equilibrio da raggiungere tra la trasmissione di contenuti e l’attenzione alle relazioni, tra raggiungere apprendimenti in sé e coltivare cittadinanza, tra valutare i risultati e valorizzare le persone, tra sommergere i ragazzi di compiti o lasciarli inattivi. Emanuela Garimberti, una brava insegnante di lettere bolognese, un bel giorno si è sfogata in rete con una mamma insistente, invadente, preoccupata solo di quante date e nomi la figlia sta imparando a memoria. La prof, dopo ampie argomentazioni, conclude: “Non sono arrabbiata, sono indignata e sono preoccupata (…) perché tua figlia, né migliore né peggiore di altri, né più simpatica, più distratta, più acuta o disorganizzata della media dei suoi compagni, tua figlia con il tuo esempio crescerà guardando alle differenze e ai problemi altrui sempre e soltanto a partire dal suo ombelico. E sono preoccupata perché a me toccherà, quando tutto questo finalmente sarà finito e me la troverò seduta di fronte nel banco, farle capire che c’è molto altro. Che dalle difficoltà altrui s’impara più che dalle videoconferenze. Perché da che mondo è mondo, dopo i bombardamenti, tocca sempre ricostruire”.

Le luci. Un particolare modo di riconoscersi.
Alla prova dei fatti la DAD ha evidenziato anche pregi imprevedibili. Uno spicchio di bellezza dipende dall’averla iniziata dopo che studenti e docenti si erano frequentati in carne e ossa, dunque non si trattava di iniziare una relazione ma di alimentarla. Ritrovarsi online è una soluzione emergenziale, in una fase drammatica, venata di nostalgia e desiderio per le lezioni – e la vita – in presenza. Tanti docenti hanno osservato, anche negli allievi ritenuti poco motivati, ogni sforzo per essere presenti. Dopo l’ebbrezza iniziale per la vacanza inattesa, mentre acquisivano consapevolezza sulla malattia, la scuola a distanza sta rappresentando per i ragazzi quel basso continuo che sorregge l’identità e non disperde relazioni e routine essenziali.
Nei racconti di amici e amiche insegnanti rintraccio vantaggi specifici, dati proprio dal fatto di vedersi attraverso uno schermo. Più di prima i bambini, i ragazzi si sentono guardati. Se è vero che “ognuno cresce solo se sognato” (D. Dolci), non è una cosetta da poco. Anche prima l’insegnante era in mezzo agli allievi ma non è detto che loro si sentissero oggetto di attenzione, anzi in momenti strategici facevano di tutto per evitarlo. In videoconferenza, se tutto funziona, vedono la propria faccia insieme a quelle degli altri e del prof, si guardano, sanno di essere guardati. In alcune piattaforme il volto di chi ha la parola si sposta, ingrandito, al centro dello schermo, impossibile sottrarsi all’attenzione. E se poi c’è un dispositivo per prenotare l’intervento si parla a turno e non sovrapposti, il che toglie naturalezza ma aggiunge possibilità, mentre – più o meno, ma era così anche prima – gli altri ascoltano. Con l’aggiunta che mettersi in coda è uguale per gli spocchiosi, gli esuberanti e i timidi ed è più difficile monopolizzare la lezione.
Con la didattica a distanza ci si vede da casa, l’insegnante entra nell’intimità dei ragazzi e loro nella sua. Si inquadrano tinelli e camerette, genitori, gatti, fratelli piccoli. Qualcuno si presenta in pigiama: provocazione, imbarazzo o un modo per dire sinceramente qualcosa di sé? Dipende, probabilmente, da come è costruita la scena e dal rapporto preesistente, il problema per me si ha quando gli insegnanti optano a priori per la mancanza di rispetto, senza farsi domande su quello che i ragazzi stanno cercando di comunicare. Mi raccontano lezioni di scuola superiore che sanno di maternage, ma quanto possono far bene ad adolescenti spiazzati dall’imprevisto! Dicono a ognuno: m’importa di te, perciò non mi disturba la tua sorellina che ci vuole salutare, la mamma o il papà che passa in fretta dietro le tue spalle. La scuola è a distanza, ma si è avvicinata alla casa e alla vita degli allievi. A loro volta i ragazzi sono ingordi di notizie sugli insegnanti. “Sa prof, abbiamo letto tutti i preferiti che ha sul desktop”. Gli studenti sono curiosi, i professori si svalutano inutilmente quando pensano di essere irrilevanti.
Faccio un passo in più. Con la DAD si entra in casa cioè nelle case, che sono tutte diverse. Le diseguaglianze c’erano anche prima, ma adesso si vedono meglio. Un conto è sapere che da Giovanni si vive in tanti in una casa inadatta, un altro è vedere che cosa significa per Giovanni studiare in una stanza piccola, dove sono sempre presenti tre fratelli, una nonna e un genitore a turno. Se in aula poteva sembrare equità trattare tutti allo stesso modo, può darsi che, entrando nelle case, equità diventi porre obiettivi alti, ma non disgiunti dalla vita e dalla storia dei ragazzi. Un’altra amica e ottima insegnante mi racconta di come raggiunge i più sfuggenti con telefonate mirate, per te che hai la maturità e non sai come prepararla, per te che non hai ancora il tablet e hai paura di essere tagliato fuori. Non dico che, date le condizioni contrattuali, il mestiere dell’insegnante debba essere questo – è sforare qualsiasi orario di servizio, davvero – ma tanti docenti lo stanno facendo, non per oblazione ma perché intendono così la loro professione.
Poi succedono piccoli fatti straordinari. A fine aprile alcuni quotidiani hanno raccontato di una maestra che ha allertato le forze dell’ordine perché, durante la lezione in terza elementare, ha sentito che nella casa di un alunno il papà maltrattava la mamma. Il bimbo non ha spento il microfono, sarebbe bello sapere se per scelta o per caso, e dispiace per lo spavento dei compagni, ma è fantastico che l’insegnante non abbia perso tempo.

Co-costruire conoscenza, anche online.
Io insisto, insisto sulla relazione e non penso alla didattica! Tanti bravi insegnanti sono stati scippati di ciò che nel tempo avevano costruito in termini di attività laboratoriali, apprendimento cooperativo, sottogruppi, coralità. La questione è seria. Non questo, ma altro in rete si può e si potrà fare, via via che ci si addestra, perché la lezione non sia necessariamente frontale o la comunicazione radiale, dal centro (insegnante) ai punti della circonferenza (gli alunni) attraverso i raggi, appunto. Molti bravi insegnanti lo stanno scoprendo poco a poco. Intanto hanno iniziato davvero, adulti e ragazzi insieme, a utilizzare la rete con competenza crescente. Si è scoperto che i nativi digitali possono essere imbranati come i loro genitori se si tratta di cercare, di selezionare e scartare, verificare fonti e cercarne altre. Fare ricerca, approfondire nel web sterminato, visionare incontri con autori, letture, spettacoli o film e poi discuterli assieme potrebbe diventare più semplice. Certo, non ignorando ciò che i ragazzi stanno vivendo. In questi mesi è diverso insegnare a Bergamo o a Ferrara; avere allievi con genitori infermieri, impiegati o improvvisamente disoccupati, qualche differenza la fa, ancor più perché entrando nelle case è più intenso il rapporto con le famiglie. Alcune indicazioni per un buon utilizzo della DAD si trovano in un  articolo di Stefano Stefanel, di cui riporto soltanto i titoli: “1) Dalle domande agli studenti alle domande degli studenti 2) Dall’interrogazione al colloquio colto 3) Dall’esperienza di classe all’esperienza personale 4) Dai compiti per casa ai compiti di realtà 5) Dalla verifica di quanto trasmesso alla ricerca della complessità: dal disciplinare al pluridisciplinare 6) Dal fare i compiti allo scrivere libri 7) Dalla penna alla tastiera 8) Dal segnalare libri (letture) al segnalare link 9) Dalla lingua madre al plurilinguismo 10) Dall’orario dei docenti all’orario degli apprendimenti”.
Gli enunciati suggeriscono un paradigma in parte attuabile anche in presenza e sicuramente agevolato dagli strumenti elettronici. Mi spingo a dire che potrebbe mutare il profilo richiesto al docente. Tenere la classe, ad esempio, che cosa significa online? I ragazzi non rinunciano ad essere provocatori – so di signorine che si presentano in reggiseno il giorno dell’interrogazione, con il prof terrorizzato di essere accusato di pedopornografia – ma posso pensare che le qualità personali per essere apprezzato dagli allevi non siano le stesse, quando ci si incontra in rete.
“Al di là degli spazi e degli orari, vorremmo che ci fosse una didattica di vicinanza, che non deve per forza essere fatta in presenza. La didattica di vicinanza è la condizione etica verso cui tutti dobbiamo andare”, ha affermato Daniela Lucangeli, docente di Psicologia all’Università di Padova e membro della task force governativa sulla scuola. “Il nostro fine è trasformare questa esperienza di apprendimento in una modalità non passiva, ma di comunità”.
Il difetto non starebbe quindi nello strumento, ma in come lo si utilizza. Secondo un modello mirato alla prestazione “che non mi convince affatto, né scientificamente né eticamente”, dice ancora la Lucangeli, “oppure un altro, che ricorda a ogni studente: ‘Svegliati, questa mattina siamo qui perché ci aspetta la seconda guerra di indipendenza. Come la affrontiamo? Vogliamo costruire insieme una mappa?’. Gli insegnanti hanno infiniti esempi di scienza psicopedagogica, ma c’è bisogno di una formazione che li renda consapevoli della differenza”.
La buona notizia è che i bravi insegnanti lo stanno facendo.
Ne cito una per tutti, Emanuela Cavicchi, ferrarese, che mi è cara per come fa scuola e per come scrive di scuola. Questo brano, tratto da un post più ampio, comparso sul suo profilo Facebook, è luminoso. “La pezza che ci stiamo mettendo, ed ognuno cuce la sua con quello che trova a disposizione, non riguarda quanto siamo bravi noi docenti a fare la scuola a distanza, quanto è ‘figo’ usare le nuove tecnologie e strumenti digitali, quanto siamo performanti a fare video, tutorial, produrre materiale da caricare, continuare a mettere voti, non perdere l’anno… Molti di noi ormai sono connessi ore e ore per partorire un topolino, dovremmo esserne ben coscienti ed evitare il narcisismo autoreferenziale. Non lo si fa, o non lo si dovrebbe fare, per il programma o per la nostra coscienza, ma perché non li vogliamo mollare. Niente sentimentalismi, non c’è una ragione più professionale di questa. Il punto non è perdere l’anno o perdere tempo, il punto è non perdere loro, non perderci noi stessi, non lasciare solo nessuno. Se l’approccio alla scuola è socializzante e relazionale, allora funziona anche a distanza, pur zoppicante. E non funziona se dobbiamo dibattere delle ore sul mettere dei voti e quali voti a foto sfocate e monche di compiti rovesciati. Funziona se le riceviamo, quelle foto sfocate e monche, perché intanto ci stanno provando, e sono entrati in contatto con noi. Funziona quando Julia ci mostra la sorellina in braccio, che vuole salutarci, Diana ci presenta il suo gatto, Andrea e sua mamma ci sorridono, seduti vicini, e si scherza sul ciuffo anti-gravità di Samir. Noi non perdiamo loro, loro non ci fanno perdere. Tutto il resto è noia, ma veramente”.

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Elena Buccoliero


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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