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Giorno: 10 Marzo 2017

Ferrara nata dall’acqua rinnega il fiume, ma la rinascita passa dal Volano e dalla darsena

Ferrara nasce sull’acqua ma lo ha dimenticato. Ha dimenticato il fiume, rinnegando la sua natura intrinseca. Bisognerebbe invece riscoprire il Po, il Volano, il Primaro e farli tornare ad essere una risorsa” dice Leonardo Delmonte, guardando fuori dalla finestra del suo ufficio in direzione della darsena. È una splendida giornata di sole e il paesaggio d’acqua, inedito per molti ferraresi, è bello nella sua diversità. La banchina è vuota e il sole crea sulla superficie del fiume dei suggestivi giochi di luce. In fondo, i retro delle case sono semi coperti da dei canneti e alcune anatre starnazzanti immergono il collo nell’acqua in cerca di cibo.

Leonardo Delmonte è uno dei fondatori dell’associazione ‘Basso Profilo’, nata nel 2007 all’interno della facoltà di Architettura di Ferrara, con l’obiettivo di individuare il ‘basso profilo’ come motore di un nuovo metodo progettuale che parte, appunto, dal basso. A sua volta ‘Basso Profilo’ è il capofila del consorzio ‘Wunderkammer’ che dal 2012, in seguito alla vincita di un bando indetto dal Comune di Ferrara, ha come sede operativa il Palazzo Savonuzzi: ex magazzini fluviali sulla darsena del Po di Volano, costruiti nel 1940 dall’ing. Savonuzzi e restaurati nel 2004. Un grande spazio polifunzionale che diventa un centro culturale con l’intento di coinvolgere persone di tutte le età in attività che vanno dai campi estivi per bambini e l’insegnamento delle lingue straniere, grazie all’associazione ‘Encanto’, ai corsi e i concerti di musica moderna, organizzati dall’associazione ‘Musicisti di Ferrara’ sempre facente parte del consorzio, o le attività di riscoperta del fiume portate avanti dall’associazione ‘Fiumana’.

Wunderkammer, che in lingua tedesca significa ‘camera delle meraviglie’, in riferimento alla pratica, diffusa da alcuni collezionisti del XVI-XVIII secolo, di raccogliere in stanze apposite degli oggetti fuori dall’ordinario, si prefigge di reinterpretare in chiave moderna questo concetto e concentrare nei propri spazi la produzione artistica giovanile e le attività rivolte alla cittadinanza attiva. “Lo spazio interno, che abbiamo voluto il più possibile aperto e flessibile- spiega Delmonte- lo intendiamo come tutt’uno con l’esterno. Di fatto, vista anche la nostra posizione, abbiamo a che fare con due realtà: la darsena e l’elemento acqua e il quartiere Giardino e il verde urbano. Questi due temi a Ferrara sono meno distanti di quel che possa sembrare: entrambe le aree, infatti, sono unite dalla stessa carenza di vocazione identitaria. Da una parte ci si è dimenticati della matrice naturale, dall’altra si è voltato le spalle al fiume”. Il quartiere Giardino è stato costruito riprendendo il concetto di ‘città-giardino’, ovvero una città ideale capace di inglobare il paesaggio rurale nei siti urbanizzati. Eppure, se ora si parla di Gad a Ferrara, l’impressione è prevalentemente negativa. ”Il quartiere fa parte del centro- dice Delmonte- eppure viene avvertito come periferia. Diciamo che è come una auto profezia che si avvera: ci si sente ai margini e si vive come se lo si fosse. Ci sono realtà intese come problematiche: la stazione, lo stadio e lo stesso ex Mof sono tutti punti di scambio che stressano il quartiere. Il fatto stesso che in questo punto della città si interrompano le mura cittadine è un elemento da non sottovalutare. Vi sorgeva una fortezza pontificia, poi abbattuta, e il vuoto che è rimasto interrompe il cerchio delle mura: uno degli elementi più famigliari ai ferraresi a da qui il senso di estraneità che ne deriva”. Eppure sono proprio questi elementi di differenza che per Leonardo Delmonte sono la vera forza del quartiere.”La differenza è un valore, bisogna spezzare il circolo vizioso e farlo diventare virtuoso. Certo, a Ferrara, tra le linee precise create da Biagio Rossetti, lo spazio libero e l’erba alta spaventano. Altrove uno spazio come quello del tratto di mura del quartiere Giardino sarebbe liberamente usato dai cittadini per prendere il sole o leggere un libro, invece nel quartiere lo spazio pubblico più utilizzato è la piazza dell’Acquedotto, ossia uno spazio molto monumentale ed asfaltato”. Lo stesso discorso, spiega Leonardo Delmonte, vale per la darsena. Quello che fino ad un passato recente era un luogo di scambi, anche commerciali, e di incontro, è oggi per lunghi tratti abbandonato. La maggior parte dei cittadini ferraresi non intendono le vie fluviali come un luogo fruibile per la navigazione o per una semplice passeggiata lungo la banchina. In effetti vi sono alcuni ostacoli: primo fra tutti il fatto che esistono una marea di cancelli e recinzioni che dividono la banchina che costeggia il Volano, in tanti pezzetti isolati tra loro.

Proprio il recupero della darsena è uno degli obiettivi dell’associazione Basso Profilo che, ogni anno, promuove delle iniziative volte a far riscoprire ai cittadini ferraresi questo spazio quasi dimenticato. E’ nato così, nel 2015, il progetto ‘Smart Dock’ che, in sinergia con il progetto ‘Idrovia Ferrarese’, mira ad avviare un processo di coinvolgimento diretto della cittadinanza nella riscoperta del fiume e promuovere una rigenerazione urbana della Darsena S.Paolo. Spiega Delmonte, coordinatore del progetto, che “un bene comune non lo si può disegnare né si può imporre un vincolo di affezione con un area cittadina. Si possono però creare delle abitudini per far vedere con uno sguardo diverso ciò che si ha quotidianamente davanti agli occhi. Bisogna costruire un habitat nuovo con l’intento di abbattere quei muri invisibili che impediscono di vivere gli spazi pubblici come propri, e viceversa”.

Il progetto ‘Smart Dock’, costruito a partire dai concetti di consapevolezza, familiarità e sguardo laterale, si è sviluppato attraverso laboratori didattici con le scuole, una mostra realizzata in collaborazione con il circuito di biblioteche ferraresi e l’Archivio di Stato, tre mesi di musica jazz o elettronica in darsena, con un’ottima affluenza di pubblico, e l’esperimento dell‘Idropolitana’, promossa dall’associazione Fiumana e Asd Canoa, che ha organizzato delle suggestive gite in battello sui canali cittadini e il fiume Po fino alla laguna di Venezia. Come suggerisce Leonardo Delmonte “bisogna riappropriarsi di una visione sui tempi medi. Oggigiorno c’è troppa frenesia e i risultati si vogliono vedere subito. Bisogna calcare anche un po’ la mano, invitando i cittadini a non aver paura del nuovo”.

La rigenerazione urbana precede la riqualificazione. La parola d’ordine è ‘apertura alle novità’: ci vogliono occhi nuovi ed una nuova mentalità per costruire una nuova darsena.

(Foto di Leonardo Delmonte, Tonina Droghetti e Bruno Droghetti)

Evento musicale ‘Un fiume di musica’ foto di Bruno Droghetti
Laboratorio ‘Darsena bene comune’ foto di L.Delmonte
Evento musicale ‘Electro dock’ foto di L.Delmonte
Canoa Club foto di Tonina Droghetti

I DIALOGHI DELLA VAGINA
Ritrovare la strada per la felicità

La scoperta della leggerezza dopo un grande vuoto, ritrovare se stessi nonostante l’abbandono. Le nostre lettrici raccontano le scelte e le conquiste sulla via della felicità.

Idealizzare il passato: una consolazione fasulla

Ciao Riccarda,
in genere quando si decide di lasciare andare una persona o una situazione che ci va un po’ stretta è una vera e propria liberazione! Ci si sente spensierate, libere di essere e con tanta energia e voglia di fare (spariscono perfino le rughe!). Per quel che mi riguarda il vuoto arriva dopo… e quella situazione che era diventata insopportabile e opprimente inizia a mancarmi.
A distanza di anni non riesco più a vedere i lati negativi di quella storia ma sento la mancanza di quelli positivi. E’ come se il tempo idealizzasse quel rapporto che non c’è più e quando è il presente a diventare pesante, uso i ricordi del passato per trovare un pò di respiro. Forse quello spazio per noi stesse che ritroviamo solo dopo essere fuggite, dovremmo crearlo sempre.
E.

Cara E.,
mi fido se garantisci che spariscono pure le rughe.
Usare, come dici tu, i ricordi del passato per consolare il presente mi sembra un po’ pericoloso perché il filtro è opaco. Come quando troviamo nell’armadio un maglione datato che ci sembra ancora di moda, ma poi quando lo indossiamo vediamo che di moda non è più.
Succede così anche con quella parte di passato che ci piaceva tanto e che bussa alla memoria per ricordarci che è esistito soprattutto quando il presente è faticoso. Credo sia un falso amico che gioca con la nostra propensione a idealizzare. Niente toglie ciò che è stato, ma quel ciò che è stato dovrebbe farci il piacere di rimanere dov’è e non destabilizzarci, altrimenti non vediamo e non viviamo il nostro oggi che continua a sfuggirci.
Concordo sullo spazio per noi stesse da mantenere sempre, il più è ricordarsi quanto sia giusto e vitale.
Riccarda

Perdersi nell’attesa di una ricompensa che non arriva

Cara Riccarda,
come si misura l’assenza, bella domanda.
Ho convissuto anni con una persona che amavo come non credo sarò capace di amare ancora.
Ho lasciato tutto – paese di origine, famiglia, amici – per seguirla, per agevolarla nel suo lavoro, più impegnativo del mio, anche solo per gli orari estenuanti che comportava.
Ho erroneamente pensato che per quel mio sacrificio lui mi avrebbe ricambiata riempiendo la mia vita della sua presenza, della sua attenzione e della sua dedizione, la stessa che avevo riposto io in lui.
I miei giorni, invece, si sono riempiti di attese.
Usciva il mattino presto e tornava la sera tardi.
Io ero diventata il cane che aspetta a casa il padrone, agognando una carezza. Che arrivava sì..ma distratta…come appunto quella che si dà al cane quando si torna a casa dopo una giornata lunga e faticosa.
Io però non sono un cane. Sono una persona, con esigenze molto più profonde che non il cibo o la passeggiatina fuori per fare pipì.
Mi vergognavo troppo per dire queste cose, che anche ora che le scrivo sembrano così banali.
Il mio mondo girava intorno a lui, per lui. Io, non mi ricordavo più nemmeno cosa mi piaceva fare, tanto mi ero abituata a sentirmi dire che non si poteva “perché lui doveva occuparsi dell’attività” e “non c’era tempo”.
Ma quando ho accettato e accolto la consapevolezza di non essere importante quanto lui lo era per me, mi sono svegliata e ho scelto.
Ho scelto me, e un male che ancora adesso fa male, ma che mi ha ridato la libertà di vivere come piace a me e non in attesa di qualcuno che mi faccia felice.
Perché la mia felicità dipende da me e l’unica assenza che veramente mi può ferire, è la mia.
D.

Cara D.,
lo hai capito da sola: l’assenza di lui era meno grave dell’assenza che tu avevi creato per te stessa rinunciando a tutto e dimenticando cosa ti piacesse fare. Questa è la vera mancanza, quando non ci consideriamo più perchè siamo proiettati verso qualcun altro, quando ci inganniamo pensando che sacrificarsi per lui o lei sia giusto e che una forma di restituzione prima o poi arriverà.
Come dimostra la tua lettera, l’attesa non finisce mai, o meglio, non finisce grazie all’altro che si accorge di noi e allora fa qualcosa. L’attesa e la sua conseguente infelicità, finiscono quando capisci che sei tu a doverti liberare dalla mancanza che, nel frattempo, si è fatta sempre più grande perchè ha fagocitato anche te e le cose che ti rendevano unica.
Ti sei salvata da sola, hai avuto fiducia nella possibilità di uscire da situazioni in cui non esistiamo più, se non di riflesso di qualcun altro.
Riccarda

Più aspettative, più delusioni… e provare ad accettarsi?

Cara Riccarda,
ah… quante aspettative abbiamo verso di loro, illudendoci che con ipersoluzioni si possano cambiare, plasmare, modificare come piace a noi, ma poi cosa rimane dell’uomo di cui ci siamo innamorate?
Le sensazioni di vuoto dopo una rottura sono state diverse per mia esperienza, ma poi ripensandoci bene non era altro che il lascito di cocenti delusioni per non essere stata in grado di trasformarlo a dovere.
La delusione ero io in verità.
Poi, il destino ti fa incontrare chi non si riesce a scalfire nemmeno con la più affilata delle nostre limette per unghie, ed è qui che le nostre insicurezze si trasformano in cambiamento; l’ideale non è quello che ci lascia, ma l’uomo che rimane se stesso, con te, nonostate tu.
C.

Cara C.,
e se ammettessimo che non va bene nè volere cambiare l’altro nè cambiare noi stesse pur di piacere?
Conosco donne stremate dalla fatica nell’uno e nell’altro senso, una fatica di Sisifo perchè a ogni storia è sempre tutto da ricominciare. Se, invece, ci fermassimo a osservare come hai fatto tu, la fatica non avrebbe più ragione di essere: accettiamo l’altro che accetta noi per come siamo. Se davvero avvenisse questo riconoscimento reciproco, non impazziremmo come criceti su una ruota in una folle rincorsa.
Poi, nel tempo, si cambia insieme e ciascuno nel proprio spazio.
Riccarda

Potete inviare le vostre lettere a: parliamone.rddv@gmail.com

I mille colori dell’Elefante Blu:
ecco la Ferrara che funziona

Si chiama Elefante Blu, ma di colori, al suo interno ce ne sono tantissimi: colori di pelle diversi, abiti dai colori sgargianti o il nero del velo in testa, i colori dati ai bambini per giocare e quelli di tutti i disegni appesi ai muri.
Parliamo del Centro per le famiglie che si trova nel quartiere Barco a Ferrara: nato nel maggio del 1993, è il primo dei Centri Bambini e Genitori a essere stato aperto alle famiglie ferraresi. Una realtà attiva da oltre dieci anni ma non conosciuta ai più, nella sua reale valenza.

Al suo interno, tra le attività proposte alle famiglie, si svolgono il martedì e il giovedì mattina, dalle 9 alle 13, le lezioni di italiano per le mamme straniere. In un via vai festoso di bambini, donne pakistane, indiane, nigeriane, magrebine, si riuniscono nelle varie classi, divise per livello di conoscenza della lingua italiana, e sotto la direzione di Maria e Carlo, insegnanti del Cpia (Centro provinciale per l’istruzione degli adulti) di Ferrara, apprendono le regole grammaticali della nostra lingua e si sperimentano in esercizi scritti e simulazioni orali di conversazione.

“Il nostro è un corso di italiano a tutti gli effetti e abbiamo i requisiti per rilasciare il certificato di conoscenza dell’italiano A2, richiesto per l’acquisizione del permesso di soggiorno”, spiega Fulvia Guidoboni, una delle educatrici dell’Elefante Blu che – insieme a Margherita Muratori, Emanuela Baseggio Conrado e alle mediatrici culturali Sarra e Sanowar – porta avanti le attività del centro: le attività mattutine per mamme e bambini fino a tre anni che non frequentano ancora i nidi e le scuole dell’infanzia e i laboratori pomeridiani, rivolte alle famiglie e ai bambini fino ai 6 anni di età, di gioco e attività ludiche e artistiche.

“L’unicità della nostra scuola è la compresenza di mamme e bambini – ci dice ancora Fulvia – gli spazi del Centro sono a disposizione dei bambini che vengono intrattenuti da noi educatrici in attività di gioco e letture, ma ognuno di loro ha la possibilità, quando lo richiede, di raggiungere la mamma impegnata nella sua attività di studio. Si cerca di incentivare l’autonomia del bambino, in considerazione anche delle diverse età, ma non ci deve essere nessuno ‘strappo’, anzi. La nostra parola d’ordine e fluidità e inclusione”.

Al mattino ci si ritrova tutte alle 9.30 per un momento di socializzazione e la condivisione di un thè e qualche chiacchiera, poi inizia il corso di italiano, articolato in tre classi di livello zero, uno e due, fino alle ore 12.30 circa.
“Anni fa – continua Fulvia – le signore partecipavano alle lezioni quasi esclusivamente per ottenere la certificazione necessaria al rilascio del permesso di soggiorno. Ora vengono per il piacere di imparare. E’ un modo per integrarsi nel Paese che le ospita e per acquisire maggiore autonomia nel vivere quotidiano. Nel nostro gruppo abbiamo mamme laureate ma anche analfabete e per molte questo è stato un ‘trampolino di lancio’ nel cammino della scolarizzazione. Non è mancato chi ha conseguito anche la licenza media”. Dietro i volti chini sui libri, nascosti da una massa di riccioli biondi o da veli neri o colorati, ci sono storie diverse di immigrazione. Ci sono donne sole o con bambini al seguito, donne libere o violate e vittime di tratta. Il personale del Centro raccoglie le risate, ma anche le lacrime di chi vive una situazione di sofferenza, attivando, a seconda delle necessità, gli uffici competenti del Centro Donna e Giustizia o gli assistenti sociali.

“Questo avviene nei casi limite – mi spiega un’educatrice – ma il riuscire ad indirizzare le mamme che ne fanno richiesta agli uffici competenti alle loro diverse esigenze, fosse anche per la presentazione del modulo di iscrizione a scuola per i propri figli, è per loro utilissimo. Non bisogna dimenticare che sono donne straniere che hanno difficoltà con la lingua e che devono sbrigare le più disparate commissioni spesso con bimbi piccoli al seguito”. Basta poco per spianare una strada solitamente in salita.
Le voci degli insegnanti continuano a formulare domande e snocciolare regole ed esempi.

Nella stanza attigua, sopra un tavolo in legno, i bambini giocano con la pasta di sale. Qualcuno colora o legge dei libri. I più piccoli dormono cullati dalle educatrici o nelle loro carrozzine. La Ferrara che funziona passa anche da questo Centro. Una delle realtà che
rappresenta quell’avanguardia di Centri famiglia e Scuola, da sempre fiore all’occhiello per la regione Emilia Romagna.

Un mondo protetto di accudimento,insegnamento e cura. Una bella realtà di integrazione.

IL LIBRO
Dedicato a tutti quelli che… vogliono dire basta ai bulli

Un libro scritto per “tutti coloro che non intendono subire o vedere i propri cari subire comportamenti bulli”: è ‘Vittima di mille ingiustizie’, edito da Youcanprint.
In questo suo terzo lavoro – gli altri sono ‘Quando il Mostro è il proprio padre!’ e ‘La Felicità? Ve la do io!’ – Alessandra Hropich, laureata in legge ma con la passione per il sociale e per la scrittura, racconta le mille ingiustizie subite da sua sorella Antonella a scuola e non solo: una testimonianza contro i soprusi, che non bisogna subire a nessuna età. “Nel mondo adulto, reagire a un’ingiustizia è molto difficile. Il prepotente non accetta che la vittima si ribelli”, ci dice Hropich. Per questo il messaggio di queste due sorelle è: ‘prendiamoli da piccoli’. “Ho fiducia nei poteri dei genitori e maestri sui bambini. Per nulla, sugli adulti che non cambiano per nessun motivo”.

Signora Hropich, il suo ultimo libro si intitola “Vittima di mille ingiustizie!”, perché quel punto esclamativo?
Il punto esclamativo vuole dire basta ai soprusi subiti e a quelli futuri. Vuol essere un’esclamazione imperativa.

Da dove nasce questo libro, cosa l’ha spinta a scriverlo?
Il libro o meglio, l’idea del libro, arriva nel preciso momento in cui mia sorella mi ha raccontato quello che ha vissuto da bambina a scuola, poi da adolescente, fino ad arrivare all’età adulta. Un momento di grande liberazione per lei e di grande stupore e sconforto per me.
Non ne aveva mai parlato prima per vergogna, si sentiva sola e a disagio a scuola, mentre ovviamente a casa nessuno sapeva nulla. Invece, una volta terminate le scuole superiori e ottenuto il diploma di maturità, ha ritenuto di potersi confidare e dire quanto avesse subito. Per lei è stata una liberazione, anche se tardiva: le è servito per staccarsi da quel passato.

Ci può fare l’identikit di un bullo adolescente e di un prepotente adulto? Cosa hanno alle spalle e cosa si portano dentro?
Il bullo è colui che ruba le cose agli altri, ruba la parola agli altri, è sempre portato a sovrapporsi agli altri. Il prepotente adulto è identico al bullo, vuole tutto ciò che non ha lui, solo che il prepotente è più grande di età.
La prepotenza nasce quasi sempre dall’insicurezza, anche se non è infrequente che un bullo viva in una famiglia violenta.

Quale il ruolo della scuola e quale quello delle famiglie e del contesto in cui i ragazzi crescono?
La scuola potrebbe fare miracoli, ma gli insegnanti non hanno vita facile. Oggi sanno di essere alle prese con bambini che hanno famiglie aggressive e non sempre ragionevoli. Ma la scuola potrebbe fare molto. Gli insegnanti potrebbero, se non sgridare, almeno immediatamente riprendere i comportamenti dei ragazzi bulli, facendo capire loro che non è quello un modo di vivere in relazione con gli altri. L’insegnante se ne accorge molto più di un genitore se un ragazzino è prepotente.
Il genitore tende spesso a giustificarlo ritenendolo solo un ragazzino sveglio. La famiglia, invece, potrebbe anche lei fare molto per evitare episodi di bullismo perpetrati dai loro figli, ma raramente se ne occupa o se ne preoccupa.
Il contesto in cui vive il bambino lo forgia per sempre, nel bene e nel male.

Secondo lei e sua sorella i prepotenti vanno avanti e hanno successo, mentre gli onesti, le persone per bene rimangono indietro: ‘homo homini lupus’ insomma. Non è una visione ottimistica della realtà, oppure la vostra è una provocazione per scatenare una riflessione critica?
I prepotenti vanno avanti sempre e la società li premia. La mia, non è affatto una provocazione, ma una dolorosa ammissione. In tutti i rapporti interpersonali, a scuola, al lavoro e nella vita di coppia, viene sempre tenuto in gran considerazione il prepotente.

‘Piove su giusto e sull’ingiusto, ma sul giusto di più perché l’ingiusto gli ruba l’ombrello’ (Charles Bowen). ‘L’ingiustizia in qualsiasi luogo è una minaccia alla giustizia dovunque’ (Martin Luther King jr). Quale di questi due aforismi le corrisponde di più e perché?
Mi corrisponde certamente di più il primo perché mi fa pensare al disagio del giusto che si vede rubato di ogni suo diritto. Il bullo ruba ciò che non è suo. Ruba anche in senso figurato, si appropria di un diritto che non gli appartiene.

Questo non è il suo primo lavoro, gli altri due sono ‘Quando il Mostro é il proprio padre!’ e ‘La Felicità? Ve la do io!’. Due libri molto diversi fra loro, ce ne vuole parlare?
Anche gli altri miei libri narrano esperienze di vita vissuta, utili a tutti. ‘Quando il Mostro è il proprio padre’ è la storia vera di un uomo ritenuto da tutti un santo, solo in famiglia si rivela per quello che è: un mostro appunto.
‘La Felicità? Ve la do io!’ è un libro nel quale sono raccolte diverse storie vere di molte persone che ho conosciuto e che hanno cercato a lungo la felicità senza mai trovarla oppure, storie di chi la felicità l’ha trovata.

Da dove nasce la sua passione per la parola scritta? Nella sua esperienza non c’è solo l’editoria, ma anche la televisione.
Prima odiavo la scrittura, poi è nata la passione all’Università. Mi sono laureata in legge e, leggendo gli atti, le sentenze, le motivazioni dei tanti casi di diritto, ho iniziato a prestare particolare attenzione al modo con cui erano scritti gli atti, le sentenze. Mi piaceva osservare la punteggiatura e leggere a voce alta per dare il giusto significato a ogni scritto. A forza di leggere gli scritti altrui, mi sono innamorata della scrittura.
In passato lavorato per programmi televisivi di emittenti locali che ora non esistono più, mentre di recente ho lavorato per la Rai nei programmi ‘Cristianità’ e ‘L’Almanacco’. Tutte sono state esperienze di vita.
Ora mi occupo di eventi per enti e Istituzioni.

Il prossimo progetto è già in cantiere?
Io scrivo sempre articoli e interviste ma, per ora, non ho in mente di pubblicare altri libri perché poi vanno seguiti e il tempo è poco.

IL PUNTO
Pari Opportunità, cosa fa davvero la differenza?

E’ evidente come uno dei veri problemi della donna che lavora sia quello della conciliazione, ovvero l’individuazione di quelle strategie che consentono le pari opportunità in ambito lavorativo, sociale e personale. Il termine conciliazione si riferisce al rapporto che esiste tra almeno due sfere della vita: la famiglia e il lavoro. Ma non solo. Sarebbe meglio dire tra due ambiti di organizzazione del tempo: il tempo di vita e il tempo lavorativo professionale. Una conciliazione riuscita assicura alle persone adulte un equilibrio tra la sfera del lavoro remunerato e la sfera dell’organizzazione del tempo ‘altro’, che può prevedere le attività domestiche, la cura dei figli e di famigliari in situazione di bisogno, il volontariato, le attività civiche e la gestione del tempo libero, possibilmente orientato a uno standard di vita soddisfacente.

Dall’analisi dei lavori femminili nella loro evoluzione temporale, si ricava l’evidenza di una forte continuità della concentrazione in pochi canali occupazionali, che per lungo periodo hanno assorbito la quasi totalità delle donne. Tali settori riflettono, per le modalità di svolgimento e per il tipo di attività previste, l’attività femminile non ‘di mercato’, si pensi all’infermiera, alla maestra, alla sarta. Oggi molto è cambiato nei modi e nei tempi di partecipazione della donna al mondo del lavoro, ma le diverse rappresentazioni dell’appartenenza di genere condizionano ancora il modo in cui la donna si colloca nel mondo del lavoro. E’ più nei nessi e negli incastri tra lavoro retribuito per il mercato e lavoro non retribuito per la vita, nel loro continuo mutare e nei percorsi di crescita individuali e possibili che si può rintracciare il vero senso della presenza femminile nel mondo del lavoro. Sia nell’assolvere le funzioni famigliari sia in quelle per il mercato le donne mettono in atto una attività costante di cucitura tra pezzi della loro vita.

E’ in questa attività di cucitura che la donna compie continuamente delle scelte che ne determinano il percorso lavorativo e personale: si pensi alla bassissima natalità italiana. Le Pari Opportunità per poter essere ‘materia viva’ devono diventare un valore condiviso dalle persone adulte. Valore per il quale si potrà lavorare seriamente solo quando il substrato sociale che lo legittima sia favorevole al suo effettivo radicamento e sviluppo. E’ rilevante la sottolineatura sulla dimensione ‘equilibrio della vita della persona adulta’ che tale principio sempre più sponsorizza. Forse a carico di una non-numericamente-equa spartizione di ciascuno dei carichi lavorativi professionali e non della donna, ma sicuramente a favore di un recupero dello sviluppo personale nella sua vera interezza e importanza.

In sostanza sono l’equilibrio e la soddisfazione per la propria vita che vanno perennemente e seriamente ricercati anche se questo non necessariamente passa da un’equa spartizione di ciò che può numericamente essere diviso a metà tra maschi e femmine. Ma esiste qualcosa che davvero e rigorosamente possiamo considerare diviso/divisibile a metà? Forse no, ma non è comunque questo a fare la differenza.

Le Pari Opportunità vantano in Italia e in Europa un lungo cammino normativo. La Comunità Europe definisce il principio di pari opportunità come l’assenza di ostacoli alla partecipazione economica, politica e sociale di qualsiasi individuo per ragioni connesse al genere, religione e convinzioni personali, razza e origine etnica, disabilità, età e orientamento sessuale. Tale discriminazione è proibita in tutta Europa perché può pregiudicare il conseguimento di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, il miglioramento del tenore e della qualità della vita, la coesione economica e sociale, la solidarietà e la libera circolazione delle persone. In particolare con il termine pari opportunità ci si riferisce all’assenza di discriminazione condizionata dal sesso di appartenenza.

L’obiettivo è quello di assicurare ai due sessi eguali opportunità di accesso e partecipazione equilibrata alla vita economica sociale e politica, con l’eliminazione di quelle barriere che vi si frappongono. Esistono politiche, programmi e progetti che cercano di traghettare dal piano formale a quello sostanziale l’esecutività di tale principio. Tali iniziative possono avere valenza sovra-nazionale, nazionale, regionale, locale e possono essere di carattere generico o specifico. Detto questo, i dati Istat sulla condizione delle donne – la più recente pubblicazione Istat del 2015 si riferisce al periodo 2004-20014 –  attestano che l’Italia si trova ancora in una situazione sconfortante anche se si rileva qualche segnale che fa ben sperare per il futuro.

In particolare continua il forte investimento nell’istruzione da parte delle donne, che ottengono risultati migliori di quelli degli uomini sia a scuola che all’università. La diffusione delle nuove tecnologie riguarda tutta la popolazione con una diminuzione del divario di genere e, per le giovani, con un suo annullamento; negli anni di crisi le donne hanno tenuto di più nel mercato del lavoro e hanno visto incrementare il loro ruolo di breadwinner. Inoltre, la presenza nei ruoli decisionali è in crescita sia nei luoghi politici che in quelli economici. Permangono però le difficoltà di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro legate anche all’asimmetria dei ruoli all’interno delle coppie, e le donne occupate, in corrispondenza della maternità, si trovano a sperimentare in misura crescente la perdita o l’abbandono del lavoro. Inoltre la condizione reddituale femminile continua ad essere peggiore di quella maschile, anche se la distanza fra uomini e donne, nel periodo osservato, si è accorciata.

 

L’INCONTRO
Esoterismo ed alchimia nella Ferrara degli Estensi

di Federica Mammina

Discipline molto antiche, impregnate di mistero, segretezza e oscurità, che sebbene oggi la prevalente opinione pubblica reputi come strumenti di speculazione, mantengono, pare immutato, il loro fascino. Sono “Astrologia, magia, esoterismo ed alchimia nella Ferrara degli Estensi ai tempi di Ludovico Ariosto”: questo il titolo della conferenza che si è tenuta sabato 4 marzo, in una Sala della Musica del Complesso di San Paolo al completo. Argomenti come questo esercitano ancora oggi una forte attrattiva sull’uomo, sebbene quegli stessi aspetti che seducono possano in alcuni casi, come un’arma a doppio taglio, spaventare e quindi respingere.

Ed è infatti subito Mario Martelli, Presidente del Collegio Circoscrizionale dei Maestri Venerabili dell’Emilia Romagna del Grande Oriente d’Italia, gli organizzatori dell’evento, a fugare ogni dubbio nella sua introduzione: “astrologia, magia, esoterismo ed alchimia altro non erano che le forme di scienza dell’epoca, senza dimenticare che uno dei grandi alchimisti fu Isaac Newton, ancora prima di dedicarsi allo studio della gravità per cui è ricordato”. L’invito è quindi quello ad abbandonare il preconcetto che nell’immaginario collettivo si accompagna a questi quattro ambiti, per farsi accompagnare nella scoperta del rilievo che queste scienze avevano ai tempi di Ariosto, all’influsso che esercitavano e alla curiosità che solleticavano in personalità inimmaginabili.

La conferenza prende spunto dalla mostra appena conclusa al Palazzo Diamanti dal titolo “Orlando Furioso 500 anni: cosa vedeva Ludovico Ariosto quando chiudeva gli occhi”, per cercare di immaginare cosa potesse vedere Ariosto, non solo ad occhi chiusi aggiungiamo in questo caso, in una realtà permeata di astrologia, magia, esoterismo ed alchimia. Di carattere letterario è il primo intervento, di Andrea Vitali, medievista e storico del simbolismo, considerato una delle massime autorità per la storia dei tarocchi, che svela significativi e generalmente poco approfonditi riferimenti ai tarocchi e ad aspetti esoterici contenuti nelle opere di Ariosto. La commedia ‘La Cassaria’ ad esempio, nella seconda stesura in versi del 1528, detiene un significativo primato perché contiene, non già un semplice riferimento ai tarocchi, ma piuttosto il primo riferimento letterario in assoluto. Ma se in quest’opera il riferimento è generico, nelle ‘Satire’ si fa riferimento addirittura ad una specifica carta dei tarocchi, quella della ruota della fortuna, che simboleggia la vita dell’uomo e la sua imprevedibilità: Ariosto infatti nell’opera illustra la sua personale idea della ruota della fortuna, dove l’uomo che si gloria, quello in cima alla ruota, è raffigurato con le sembianze di un asino.

Data la vastità e ricchezza dell’opera più famosa di Ariosto, l’Orlando Furioso, ad un occhio inesperto sfuggirebbe certamente anche la presenza dell’esoterismo, ed è così che a conclusione di questo excursus letterario, Vitali ci palesa come l’anello, che consente a Ruggiero di vedere Alcina nelle sue vere sembianze, sia un chiaro simbolo esoterico. La ricerca nelle opere di Ariosto di riferimenti alle quattro discipline continua, ed è Claudio Cannistrà, specializzato in Bibliografia Astrologica antica e Tecniche Astrogeografiche, come l’Astrocartografia e lo Spazio Locale, ad individuare due precisi richiami astrologici ancora una volta nell’Orlando Furioso: il riferimento alla pietra dalla particolare luminosità di cui era composta la tomba di Merlino (canto III), e l’anello che grazie ad una particolare gemma incastonata rendeva invisibili se stretto fra le labbra, mediante il quale Angelica era riuscita a scappare. La pietra quindi come simbolo astrologico, che acquisisce il suo potere grazie soprattutto all’accurata selezione del fabbro nel momento in cui viene incastonata. Spiega infatti Cannistrà dell’esistenza di una specifica branca dell’astrologia, detta elezione (da electionis ovvero scelta), che indica il momento migliore, perché in armonia con l’influsso delle stelle, per iniziare una determinata attività.

Ma qual è il legame tra questo specifico carattere dell’astrologia e la Ferrara del tempo di Ariosto? Lo spiega il cuore dell’intervento dal titolo “Ferrara astrologica. Pellegrino Prisciani, Luca Gaurico e l’oroscopo di fondazione”: la data di fondazione della città di Ferrara infatti venne scelta con una elezione, ovvero con una carta astrale che consentì di porre la città sotto gli ascendenti migliori per quelle che erano le caratteristiche della città cui si voleva dare maggiore sviluppo, così come poi avvenne anche per l’Addizione Erculea, l’opera di ampliamento della città che ebbe luogo tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento. Ciò che oggi risulterebbe impensabile, era all’epoca sentito come necessario, ed in quanto tale avvenne per molte città, non soltanto italiane, come attestato da Luca Gaurico che, in un suo trattato, riporta numerosi oroscopi di fondazione. Ma non deve stupire che eventi così significativi fossero affidati all’influsso delle stelle, perché nel XV e XVI secolo, l’astrologia così come la magia, le scienze esoteriche e l’alchimia, erano patrimonio comune di ogni corte o, più in generale, di ogni luogo in cui si esercitava il governo e si diffondeva la cultura.

A Ferrara ad esempio, Borso d’Este era solito governare con l’ausilio dell’astrologo di corte, Pellegrino Prisciani, ed a testimonianza di come lo studio dei movimenti delle stelle, dei pianeti e il loro influsso sulla vita degli uomini e sulle decisioni, erano costantemente impiegati nella vita quotidiana, si può ricordare l’influsso che il Prisciani stesso ebbe sul ciclo di affreschi di Palazzo Schifanoia, vero e proprio manifesto politico del Duca, in cui l’esaltazione del buon governo di Borso d’Este viene riprodotta attraverso un corredo simbolico ed esoterico. Figura importante nelle corti dell’epoca, così come per gli Estensi, è allora il mago che, come racconta Claudio Bonvecchio, Grande Oratore del Grande Oriente d’Italia, diventa a tutti gli effetti il consigliere del regnante: non da intendersi come un dotto, un erudito, ma piuttosto come una persona che sostiene il regnante in tutte le sue scelte e attività, e che grazie al suo padroneggiare magia, astrologia e le altre discipline, lo può anche curare, può aiutarlo nell’interpretare gli eventi, fino a giungere alla possibilità di intervenire nelle cose umane e divine per mutarne il corso. È così che anche Ariosto, avvolto da una società che riconosceva appieno l’ascendente di queste discipline, pur prendendone le distanze su un piano strettamente personale, non si sottrae dall’assicurare loro un significativo ruolo nelle sue opere.

Di più ampio respiro, l’intervento conclusivo di Marco Rocchi, laureato in Scienze Biologiche e in Filosofia, da anni interessato ai temi di esoterismo e alchimia, dal titolo “L’eredità di maghi, astrologi e alchimisti nella rivoluzione scientifica”. L’intento è quello di capire quale sia il lascito dell’epoca precedente alla rivoluzione scientifica, e se e quanto della mentalità antecedente sia rinvenibile nei grandi esponenti di questa rivoluzione. La rivoluzione scientifica segna un ribaltamento del metodo utilizzato per conoscere il mondo: non più il metodo logico-deduttivo per il quale si parte da premesse date (le massime aristoteliche e la Bibbia) per giungere, attraverso un ragionamento logico, a conclusioni vere, ma il confronto con la realtà, ritenuto prima della rivoluzione quasi offensivo, perché falsato dall’uso dei sensi che sono per definizione fallaci. Già qui una rivelazione importante: i moderni scienziati infatti questo metodo di conoscenza attraverso la sperimentazione e il confronto con la realtà lo hanno assorbito proprio da quei maghi che nei secoli a venire verranno emarginati e infine esclusi dalla cerchia delle scienze. Non più quindi una cesura netta, ma quasi un passaggio di consegne, dove i padri della scienza moderna rappresentano piuttosto gli ultimi esponenti delle antiche discipline.

Così il riflettore si punta su un Keplero, che non nascondendo la natura teologica più che scientifica della sua opera, indossa la veste di astrologo; accompagnato da un Galileo che, pur ponendo le basi della scienza moderna, ha sempre come punto di riferimento Dio che non può che aver creato cose perfette e regolari; seguiti da un inedito Newton alchemico, come emerge inequivocabilmente da innumerevoli suoi manoscritti, e per nulla deista come normalmente descritto. Non solo magia, astrologia, esoterismo e alchimia quindi in questo convegno che, nel mosaico di iniziative proposte a celebrazione di Ludovico Ariosto, spicca innegabilmente per l’atipicità del tema, ma anche letteratura, storia e scienza che si mescolano come per magia secondo una formula che incanta e soddisfa la platea.

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ECONOMIA
Banche centrali e libero mercato.
Ora siamo di fronte al baratro

Fino al 1981 la Banca d’Italia era prestatrice di ultima istanza, cioè comprava tutti di titoli di Stato emessi dal Ministero del Tesoro che eventualmente fossero andati invenduti alle aste periodiche. Questo voleva dire principalmente due cose: la prima, era possibile tenere sotto controllo l’interesse al quale si voleva vendere i titoli; la seconda, conseguente alla prima, nel caso il mercato avesse preteso interessi troppo alti lo Stato italiano si sarebbe potuto rifiutare di pagarli avendo a sua disposizione un Ente pubblico che li avrebbe comunque comprati.
Un’altra considerazione da fare, anzi altre due: a quel tempo, quindi, si monetizzava il debito; in fondo se era possibile monetizzare i titoli allora sarebbe stato possibile anche evitare di inscenare la farsa dell’asta pubblica per la vendita di tali titoli.
Detto in maniera più chiara: se il Ministero del Tesoro poteva ordinare alla Banca d’Italia di comprare tutti i titoli invenduti, allora avrebbe potuto anche non emetterli chiedendole direttamente di stampare il corrispettivo in lire. Ma in ogni caso farlo, all’interno di un sistema controllabile, significava pur sempre dare un qualche guadagno al risparmio privato, un altro modo di rispettare la nostra Costituzione, quindi perché non farlo?

Dopo il 1981 si è deciso che bisognava affidarsi ai mercati, quindi che lo Stato non doveva più stampare moneta, ma poteva solo chiederla in prestito e di conseguenza si è decisa l’indipendenza della Banca d’Italia dallo Stato e la sua contemporanea sottomissione alle leggi del mercato. A distanza di ‘qualche’ anno e guardando i dati di crescita, di occupazione e di benessere ci sarebbe da fare qualche considerazione in merito a questa scelta.

Cosa succede oggi? Più o meno procediamo nella stessa direzione: verso il baratro. Lo Stato ha ceduto ulteriormente la propria sovranità monetaria alla Bce, ma mentre fino all’avvento dell’euro avrebbe potuto in ogni momento ritornare sulle sue decisioni e quindi ritornare a monetizzare il suo debito, oggi questa possibilità diventa sempre più remota. Diventa sempre più difficile riprendere il controllo della gestione statale anche perché tutte le leggi in programma per il futuro prossimo sono tese a ribadire questo concetto e sempre più a determinare la supremazia dei mercati in tema di finanziamento degli Stati. In pratica si rende possibile il loro fallimento qualora operassero scelte non gradite alle maestà regnanti il ciclo finanziario. Quindi: perenne ricattabilità.

Tuttavia, che soluzioni diverse siano possibili è sotto gli occhi di tutti, e questo è persino stupefacente. Basta seguire le orme dei nostri Btp decennali e le altalene dello spread. Per farlo partiamo da alcuni dati.

La Bce ha un capitale di quasi 11 miliardi versato dai paesi aderenti all’euro, più altri 120 milioni versati dai paesi che invece non vi fanno parte (per esempio Uk o Danimarca). In base all’ammontare versato si stabilisce la percentuale di partecipazione al capitale della stessa e quindi l’Italia avendo versato 1.332.644.970,33 milioni di euro ha una partecipazione del 12,3108%, in termini assoluti in questa graduatoria siamo terzi dopo Germania e Francia.

Dopo il marasma Berlusconi nel 2011, in cui il nostro spread nei confronti degli ottimi bund tedeschi era arrivato a più di 500 e si slanciava verso i 600, il governatore della Bce Mario Draghi annunciò che avrebbe avviato una grande operazione a sostegno del debito degli Stati attraverso l’acquisto di titoli sul mercato secondario. Operazione questa non nuova: si chiama ‘quantitative easing‘ (alleggerimento quantitativo) e serve per immettere soldi nel circuito monetario attraverso le banche commerciali. La banca centrale, che ha il potere di emettere moneta, ricompra cioè dalle banche commerciali i titoli di Stato che queste detengono e gli dà moneta fresca. Queste ultime, bontà loro, dovrebbero utilizzare questi soldi per immetterli nell’economia reale attraverso il credito alle imprese e i mutui alle famiglie.
Quanti titoli italiani possono essere comprati con questo sistema? Appunto una somma che equivale al 12,3108% del totale, meno la quota utilizzata per comprare obbligazioni, così come previsto dal programma della Bce, delle migliori aziende in circolazione. Insomma una cifra di cui abbiamo già ampiamente detto su queste pagine in altri articoli, ma il punto qui è un altro.

Attualmente il nostro spread oscilla tra i 170 e i 180, la Francia sopra 60, il Portogallo sopra i 350 e la Grecia sopra i 600. Più alto è lo spread più interessi si pagano e poiché uno stato per finanziarsi deve chiedere soldi sul libero mercato, più è alto lo spread e meno questi è propenso a prestargli soldi perché se lo spread è alto vuol dire che fai fatica a rimborsare il prestito per cui il mercato si fida di meno e se deve rischiare di più vuole essere per questo remunerato altrettanto di più. Può sembrare complicato, ma è semplicemente una ruota che gira su se stessa oppure il classico cane che si morde la coda.

Per abbassare lo spread, come abbiamo ampiamente verificato, c’è bisogno dell’intervento di una Banca Centrale e non tanto di un governo nuovo: quello che è successo a noi a partire dal 2011 insomma. Risolse la situazione il “whatever it takes…” di Draghi più che il governo Monti, che semplicemente aveva il compito di fare le riforme strutturali, ovvero di assicurare ai mercati che lo Stato sarebbe intervenuto sempre meno a sostegno di imprese e famiglie italiane. Compito che, tra l’altro, assolse in maniera ineccepibile!

Quindi il senso di tutto ciò è che una Banca Centrale può fare la differenza, è l’unica che può cavalcare i mercati, abbassare gli spread (e quindi gli interessi che si pagano sul debito emesso) e permettere a uno Stato di difendersi dall’ingordigia della finanza privata. Basterebbe per esempio che ci fosse un sistema mutualistico e di cooperazione tra i paesi dell’eurozona con cui superare il principio del Capital Key, secondo il quale la Bce compra i titoli di debito solo in proporzione al capitale versato a similitudine di quanto può avvenire e sembrare giusto in una sana competizione tra aziende private.
Quando, invece, si parla di Stati e non di aziende e interessi privati si dovrebbero tutelare gli interessi dell’intera cittadinanza, comprese donne e bambini, anziani e incapaci, lavoratori e pensionati. Quindi in questo momento la Bce dovrebbe aiutare, per esempio, Portogallo, Grecia e Italia. In altri momenti, altri paesi eventualmente in difficoltà.
Ma questo non potrà mai succedere in questo tipo di Europa da film dell’orrore. Perché i principi sono diversi, ognuno deve fare da e per sé, come nella giungla dove si sa dall’inizio chi vince: il più forte. Oggi il più forte è la Germania e quindi bypassa le regole che impone agli altri e fa il suo comodo; domani, quando il quadro normativo sarà completato e tutto il debito degli Stati sarà consegnato ai vari Soros del mondo, i più forti saranno i mercati finanziari e gli Stati saranno definitivamente distrutti e asserviti al ‘libero’ mercato.

Una Banca centrale che ha il potere di creare i soldi e che, come dice lo stesso Draghi, “ha ampie risorse per affrontare qualsiasi momento di difficoltà”, dovrebbe operare a favore degli Stati (cioè donne, bambini, vecchi, malati, pensionati e diversamente abili, poveri con redditi troppo bassi per essere dignitosi) e non a favore del mercato, il cui essere ‘libero’ non ci fa star meglio.
Certo queste decisioni le dovrebbero prendere i politici che dovrebbero adoperarsi per riprendere il controllo dell’economia e porsi come primo obiettivo quello di dare un’anima a questa Europa che al momento ne è totalmente priva.

SALUTE
Dalle esperienze di chi è guarito nasce un vademecum per andare ‘Oltre il cancro’

Mercoledì 15 marzo alle ore 17.30 presso la libreria Ibs-Il libraccio di Piazza Trento Trieste a Ferrara Giulietta Bandiera, giornalista, autrice televisiva Rai e Mediaset e formatrice, presenta il suo libro ‘Oltre il cancro – 21 Passi verso la salute’ (Edizioni Sperling & Kupfer).

Un appuntamento da non mancare per diversi motivi. Prima di tutto perché l’autrice lo ha scritto dopo essere sopravvissuta lei stessa a un’esperienza con il cancro. E poi perché il libro nasce dal suo confronto con moltissimi altri casi di guariti, i quali, proprio come lei, hanno istintivamente attivato dentro se stessi il naturale potenziale di autoguarigione che tutti in realtà possediamo e che può condurre appunto ‘oltre’ la malattia, verso una vera e propria rinascita.

“E’ ancora molto diffuso il pensiero che il cancro sia una disgrazia incontrovertibile e che non lasci via di scampo”, afferma Giulietta Bandiera, “invece, come spesso accade con tutte le grandi prove della nostra vita, esso può anche trasformarsi in una grandissima opportunità di crescita e di trasformazione. Ecco perché dare voce ai guariti è diventata per me un’abitudine, anche nei numerosi convegni sul nuovo paradigma in medicina, che da alcuni anni organizzo e modero in tutt’Italia, nell’intento di diffondere un’attitudine corretta che permetta di affrontare e possibilmente di superare la malattia. Noto spesso che le storie dei guariti sono infatti di per se stesse terapeutiche, non solo perché infondono speranza a chi si sta confrontando direttamente con il male più temuto dei nostri tempi, ma anche perché possono essere di grandissima ispirazione anche a livello umano per chiunque le ascolti”.

Forte di tutte queste esperienze dirette, il libro ‘Oltre il cancro – 21 passi verso la salute’ costituisce un vero e proprio vademecum, indicato per chi è alle prese con un percorso di cura, oltre che per chi è chiamato a prestare assistenza a chi soffre: medici, terapeuti, volontari, parenti, amici e così via.

Giulietta Bandiera

“Le statistiche ci dicono che oggi il cancro colpisce purtroppo una famiglia su tre”, aggiunge l’autrice, “e le previsioni future dicono che si salirà addirittura a una su due nel giro di pochi anni, se non ci decidiamo a modificare alla svelta il nostro modo di approcciarci al problema, modificando prima di tutto il nostro modo di pensare ad esso. Sia per esperienza personale, sia sulla base dello studio delle casistiche, ho potuto osservare che la malattia è la conseguenza di un conflitto che nasce nel profondo di noi stessi e che si manifesta come sintomo più spesso nei casi in cui non siamo stati capaci di prestare orecchio a quelle che sono le nostre esigenze più autentiche e profonde. Per questo motivo ho voluto realizzare un libro che incoraggiasse le persone a “ricordarsi chi veramente sono e di che cosa veramente desiderano”, trovando il coraggio di cambiare nella propria vita ciò che procura loro sofferenza profonda. Condizionati come siamo dalla cultura, dalle credenze religiose, dalle mode e dal nostro sistema di valori spesso deviati, finiamo insomma per vivere senza accorgerci una vita non nostra, fino al giorno in cui il nostro sistema si ribella, producendo appunto un sintomo che ci pone di fronte all’urgenza di modificare ciò che in noi e fuori di noi non ci rappresenta più. Ecco perché il metodo illustrato nel mio libro si rivolge anche a chi è sano e desidera semplicemente fare prevenzione. “Oltre il cancro” è pertanto, prima di tutto, un libro sulla salute, laddove per salute intendiamo quello stato di benessere fisico, psicologico e spirituale, che dovrebbe essere poi la nostra condizione naturale, laddove la malattia rappresenta invece uno squilibrio e un allontanamento da quella condizione che siamo chiamati tutti a recuperare. L’aspetto spirituale per altro, ha un’importanza primaria nel processo di guarigione poiché presuppone, oltre alla cura del corpo e della mente, anche quella dell’anima, attraverso un ingrediente indispensabile che è l’amore. Un amore che prima di tutto dovremmo imparare a rivolgere a noi stessi e alla nostra vita, che è il valore tutto da riscoprire”.

Già presentato all’Istituto dei Tumori di Milano, che ne ha anche curato la prefazione firmata dal dottor Alberto Laffranchi, il manuale di Giulietta Bandiera contiene, oltre ai ventuno passi verso la salute, anche altrettanti esercizi molto semplici che chiunque può mettere in pratica anche da solo, a casa propria, i quali costituiscono inoltre l’ossatura di un seminario che l’autrice propone da tempo in numerose associazioni e centri di cura in tutt’Italia.

Per informazioni sui seminari:
giuliettabandiera@yahoo.it
www.giuliettabandiera.it
pagina Facebook “Programma Oltre il cancro – Ricrea la tua vita – 21 passi verso la salute”

CULTURA
‘L’amore resta’: il primo romanzo di Leandro Barsotti

di Eleonora Rossi

‘Che hai fatto in questi giorni? T’ho aspettato. E tu? Nulla. Ho desiderato di tornare. Per me? – ella mi domandò, timida e umile. Per te’. (Gabriele D’Annunzio, L’innocente)

‘L’amore resta’: nel titolo, un conforto, quasi una carezza. Nonostante le sofferenze, “tutto l’amore, dato e ricevuto, da qualche parte resta. Ed è fondamentale trattenerlo”. Parola di Leandro Barsotti, autore, compositore, giornalista de ‘Il Mattino’ di Padova, gruppo Espresso. Martedì 28 febbraio 2017, nella splendida sala affrescata della libreria Ibs+Libraccio, Matteo Bianchi – giornalista, autore e organizzatore di eventi – ha presentato il primo romanzo di Leandro Barsotti, ‘L’amore resta’, casa editrice L’orto della cultura. “L’amore non finisce. Cambia. Si trasforma. Resta, si legge sulla seconda di copertina del volume. Una relazione interrotta spinge mister B. a lasciare la sua vita di Milano per seguire un progetto sociale in Africa. Il tormento lo insegue: l’amore vissuto così intensamente, che fine ha fatto? E che significato dare a questa attrazione sconvolgente che ora prova per la bella e selvaggia Iman, incontrata in un villaggio dell’Etiopia? La vicenda di mister B. si tinge di giallo quando improvvisamente un equivoco internazionale lo costringerà a fuggire dalla polizia e lo porterà a vivere l’esperienza del carcere. Sarà l’amore a salvarlo?”.

Leandro Barsotti “si addentra nei tortuosi territori dell’amore contemporaneo con spirito d’avventura, si interroga sulla natura dell’amore, inteso come rapporto a due teso a soddisfare il desiderio di unirsi all’altro, e si pone la domanda che fin dall’antichità ha animato dispute letterarie e filosofiche: che cos’è l’amore? Cosa significa amare?”. L’autore ha scelto un io narrante per la sua storia: “Con la prima persona ti metti in gioco veramente. Non mi piace il cuore raccontato per interposta persona. Il protagonista è un mio alter ego, ma con elementi di fantasia: molte situazioni vissute personalmente, come i viaggi in Africa, si intrecciano alla finzione narrativa, come il carcere o la droga, in una cornice più ampia”.

Il primo romanzo di Leandro Barsotti arriva dopo anni dedicati alla scrittura, non solo di articoli, ma di canzoni. Come cantautore, ha realizzato cinque album negli anni Novanta, ha partecipato a due festival di Sanremo e un premio Tenco; il suo maggior successo è stato “Mi piace”. Nel 2007 ha scritto ‘Il jazz nel burrone’, una biografia romanzata (accompagnata ad un cd) dedicata al cantautore francese Serge Gainsbourg. “Avevo voglia di raccontare l’amore in un modo più ampio di quello che ho fatto nelle canzoni, dove si è costretti a condensare in poche parole una storia e a scegliere solo una ‘faccia’ dell’amore, si pensi alla bellezza dell’innamoramento oppure alla sofferenza. In questo libro ho attraversato tutti gli stadi dell’amore, dall’innamoramento alla delusione, dalla caduta agli inferi alla rinascita. Mi interessava mettere a confronto dinamiche amorose complesse: una relazione psicologica e sentimentale molto profonda con una donna italiana e il rapporto travolgente con una donna africana, Iman”.

L’autore nel suo romanzo delinea due tipi umani complementari, come il giorno e la notte. “Io non so niente di loro: loro sanno tutto di me”. In entrambe le donne il protagonista si riconosce e trova una risposta: “L’amore che sembrava dirci qualcosa di nuovo, quando ci si guardava negli occhi e ci sembrava di aver trovato la ‘soluzione’ al nostro esistere, si specchia in un altro amore, non cercato”. Il romanzo offre un respiro ampio rispetto alla canzone, ma al tempo stesso pulsa di musica, a partire dalle prefazioni di Alberto Salerno e Mara Maionchi; dai manifesti di concerti, ai testi ascoltati in cuffia sull’aereo, ai cantanti ricordati in molte pagine. “Nel libro mi autocito – sorride l’autore – quando ascolto ‘Lasciarsi andare’, il mio brano che partecipò a Sanremo nel 1997”. Canzoni che sono la colonna sonora del romanzo. Il viaggio del protagonista, tra emozioni contrastanti, è un viaggio intorno al vuoto: “Il vuoto non è fatto di niente, è fatto di vuoto (…). Perché il vuoto ritorna. Il vuoto ha fame”(p. 19). Percorso labirintico, di inciampi, vicoli ciechi, inattese vie d’uscita.

Pagina dopo pagina la scrittura di Barsotti conduce il lettore “in luoghi esotici, fatti di colori, suoni e profumi, al limite dell’onirico”. E per assecondare questo spaesamento l’ordine del racconto oscilla tra passato e presente narrativo, con un ricorso costante al flash-back che conferisce un ritmo sincopato, quasi fosse un singhiozzo. Come ha osservato Matteo Bianchi, la purezza dei brani lirici si contamina con la scrittura di taglio giornalistico e con il linguaggio “social”. La prosa ora si distende, ora viene smantellata nei whatsapp, nelle cronache urgenti dei quotidiani on line e dalla coda di commenti legittimi o inopportuni: “Volevo dare al romanzo il ritmo dei nostri giorni – spiega Barsotti -. Ho due figli grandi e dialogare con i ragazzi giovani aiuta a capire meglio quello che stiamo vivendo. In pochi anni è cambiato il nostro modo di comunicare: dalla telefonata alla scrittura nei messaggi, all’emoticon – linguaggio affascinante perché quasi tribale – per ritornare ancora al messaggio vocale, all’ascolto.

Con i social, facebook e instagram, il Grande Fratello è entrato nelle vostre vite, nei nostri smartphone. Tutti possono vedere ciò che vogliamo mostrare, quello che rimarrà di noi”. Ecco allora – per contrasto – l’Africa: il senso della distanza, lo spazio in cui molte cose perdono la propria rilevanza e “ti trovi di fronte a te stesso, al tuo mondo interiore prima offuscato dal Luna park della quotidianità – spiega l’autore -. Il protagonista intraprende un percorso sia orizzontale sia verticale: nello spazio e nella profondità di se stesso”. Dimostrando, come osserva Bianchi, che “non si esiste per gli altri, ma soltanto quando si ha la coscienza di sé”.

Una consapevolezza conquistata riattraversando le spine di una relazione sofferta con una donna che non ha più nemmeno un nome, solo un’iniziale, puntata, maiuscola: ‘M.’: “Lei era M., come una montagna russa, come salire e scendere da questa M., la lettera più ingombrante della parola amore”. Una partenza con ‘fiducia’ e ‘forza d’animo’ annotate, accanto a farina e olio, nella “lista delle cose da portare”. E poi l’evoluzione del dolore, che frana come un peso “sull’unghia dell’alluce sinistro. (…) L’unghia il giorno dopo era nera. Qualche giorno ancora poi è caduta. Ne è cresciuta un’altra, ma irrequieta, incerta, cattiva quando ha tentato di infilarsi nella carne ferendola”. “Sei a un attimo dallo zero”, ma “senti il rumore della vita”.

Un cambiamento necessario, irrimandabile: “Sei in movimento, o cresci o muori”. “L’amore è rivoluzionario – conclude Leandro Barsotti -. Ci chiede di guardare le ferite e accettarle”. Perché, nonostante tutto – come si legge circa a metà del libro (e del viaggio) – “quell’amore lì, è rimasto. Resta incastrato in un luogo che è solo tuo. Assetato delle emozioni che hanno cambiato quello che eri. Resta lì, in te. Come una perla luminosa che diventa vita nel guscio morbido della tua coscienza”. “L’amore resta seduto davanti alla vita che sembrava dover essere la tua vita per sempre”. L’amore resta.

‘L’amore resta’ di Leandro Barsotti, edizione L’orto della cultura

Servizio civile? Un’alternativa alla disoccupazione giovanile

di Francesca Poltronieri

Secondo i dati più recenti dell’Istat a Dicembre il tasso di disoccupazione dei 15-24enni è risalito al 40,1%, in aumento di 0,2 punti percentuali sul mese precedente.
Spesso questi giovani, trovatisi alla fine di un percorso di studio, non sanno dove sbattere la testa alla ricerca di un lavoro che possa dare loro la possibilità di mettere finalmente in pratica ciò che hanno faticosamente studiato sui libri.
Tra le ore spese in agenzie interinali e alla ricerca di tirocini post laurea, una delle possibilità che vi si prospetta, seppur poco remunerativa, è proprio quella del servizio civile.
Ciò che rende il servizio civile una possibilità allettante è la sua spiccata capacità di sviluppare progetti in vari campi lavorativi, dal sociale al culturale.
Tra gli ultimi avviati, a livello nazionale, vi è ‘Leggere con un click‘: dal mese di ottobre le biblioteche comunali di Ferrara hanno aperto le porte a otto ragazzi, tra i 18 e i 28 anni, con lo scopo di informare gli utenti sulla possibilità di prendere i libri a prestito online così che, chiunque voglia gustarsi un buon libro nel weekend o non abbia voglia di uscire di casa, possa farlo direttamente dai propri dispositivi elettronici.
Per potere accedere al servizio, gratuito, è sufficiente collegarsi al sito www.bibliofe.unife.it dove sono rintracciabili tutte le notizie utili.

Tutti i ragazzi selezionati sono prima di tutto appassionati lettori e frequentatori di biblioteche, e convinti che questa esperienza gli dia la possibilità di imparare un mestiere, avere un primo contatto con il mondo del lavoro ma anche di crescere come individui, comprendendo il senso di appartenere a un gruppo di lavoro e partecipandovi in maniera attiva.
Le motivazioni che hanno spinto ciascuno ad iscriversi spesso sono affini: lauree umanistiche di difficile fruibilità e la possibilità concreta di mettere a frutto le proprie conoscenze teoriche.
“Ad oggi, è risaputo che il mondo del lavoro è di difficile accesso e, seppur per un breve periodo, il servizio civile ci da conferma di avere scelto il percorso che fa per noi, adatto alle nostre inclinazioni personali, nella speranza di potere, in futuro, avere qualche opportunità in più” affermano le ragazze della biblioteca Ariostea.
Risulta ormai fuori da ogni logica comune affermare che aderire al servizio civile significa avere il desiderio di “proteggere la propria Patria”, certamente nasce come una valida e concreta alternativa alla leva militare ma è altrettanto vero che le tragiche condizioni attuali fanno sì che i giovani siano più interessati alla possibilità di costruire un futuro per se stessi invece che alla collettività.
Terminati i 365 giorni dedicati al Servizio Civile rimane però un punto di domanda: quale sarà il loro futuro?

MUSICA
Targa Tenco per il miglior album dell’anno a Niccolò Fabi


Niccolò Fabi con ‘Una somma di piccole cose’ si è aggiudicato la Targa Tenco per il miglior album dell’anno, ripetendo a distanza di tre anni la precedente vittoria ottenuta con ‘Ecco’. Come consuetudine la consegna dei premi è stata organizzata dalla direzione del Premio presso lo storico Teatro Ariston di Sanremo.
L’ottavo album della sua carriera (senza considerare quello con Max Gazzè e Daniele Silvestri), è un punto di arrivo da cui ripartire, un lavoro libero dai rigidi vincoli commerciali in favore di una creatività più vissuta e personale. Il disco è stato scritto, suonato e registrato in poche settimane nel casolare di campagna del cantautore, situato nella Valle di Baccano, vicino a Roma.

Una somma di piccole cose’ è anche il titolo del brano che apre il disco, suonato integralmente da Fabi. Il pezzo è un eccellente esercizio acustico di chitarra e pianoforte, strumenti ideali per accompagnare rimpianti e considerazioni esistenziali, sui momenti perduti che inevitabilmente non ritorneranno più: “Una somma di passi, che arrivano a cento, di scelte sbagliate, che ho capito col tempo, ogni volta ho buttato ogni centimetro in più come ogni minuto che abbiamo sprecato e non ritornerà”.
Tra i nove brani della track list, ‘Le cose non si mettono bene’ ha un peso particolare, si tratta di una cover del brano già inciso dal gruppo laziale Hellosocrate, che ha interrotto l’attività a seguito della prematura scomparsa del front-man Alessandro Dimito. Le canzoni di Fabi si ispirano all’indie-folk americano, il genere musicale influenzato dal folk degli anni cinquanta, sessanta e settanta e dalla musica country. Gli arrangiamenti, molto vicini a un’essenzialità quasi grezza, evidenziano una sottrazione musicale a vantaggio della comprensione delle parole e del loro significato.

Niccolò Fabi in concerto. Foto di Niccolò Caranti

Ho perso la città‘ misura la distanza dal luogo ameno in cui è nato questo album, con le “corsie preferenziali”, le subway e le squallide periferie delle grandi città. Una serie di immagini che fotografano la confusione, la perdita dell’identità e del sogno, concetti metaforicamente sintetizzati in una frase del brano: “… hanno vinto i ristoranti giapponesi che poi sono cinesi, anche se il cibo è giapponese…”. Il video ufficiale di questa canzone è stato realizzato da Roberto Biadi, creativo torinese, che ha raccontato una giornata qualsiasi in una città volutamente non ben identificata, con scene girate a velocità accelerata in numerose metropoli. Il filmato mette in risalto il ritmo forsennato della metropoli contrapposto ad alcuni oggetti che sembrano fermare il tempo e creare un proprio mondo: una bicicletta, un ombrello e una penna. Bello il finale sublimato dall’incedere del coro, che accompagna un writer intento a disegnare un panorama senza costruzioni, con tanto verde, cielo azzurro e qualche nuvoletta.
Filosofia agricola‘ auspica il ritorno alla terra a quella che appare come la più sostenibile dimensione dell’uomo, dove la natura viene rispettata e non continuamente compromessa. Le parole scorrono facili sul desiderio di libertà e utopie, ma non manca la consapevolezza di quanto sia difficile cambiare il modello di vita che ci siamo costruiti: “Se avessi meno nostalgia saprei conoscere, godermi e crescere, invece assisto immobile al mio nascondermi e scivolare via da qui”. La volontà del cantautore romano di raccontare tematiche ambientaliste si era già manifestata con la realizzazione, insieme al geologo Mario Tozzi, dello spettacolo ‘Musica sostenibile‘. Il progetto nacque nel 2015 in occasione del ricordo della tragedia di Val di Stava del 1985, quando i bacini di decantazione della miniera di Prestavel ruppero gli argini scaricando 180.000 m3 di fango sull’abitato di Stava, piccola frazione del comune trentino di Tesero.

Niccolò Fabi ha vinto la Targa Tenco 2016 per il miglior album in assoluto. Foto di Niccolò Caranti

‘Una mano sugli occhi’ e ‘Le chiavi di casa‘ parlano d’amore, di ragazzi con la mano nella mano, del loro osservarsi quasi di nascosto, come in un gioco. “Le chiavi di casa” si sviluppa per immagini, una tecnica di scrittura cinematografica utilizzata anche in altre canzoni del disco, una serie di fotogrammi che sintetizzano stati d’animo e pensieri: “…tu prenditi i tuoi rischi, tanto amandosi raddoppiano per forza, le ragioni, per cui possono ferirti, stai attento alle correnti e non scordarti le chiavi di casa”.
In ‘Facciamo finta’, un padre racconta il mondo dei suoi sogni con le parole di un bambino, in una sorta di favola: “Facciamo finta che io sono un Re, che questa è una spada e tu sei un soldato. Facciamo finta che io mi addormento e quando mi sveglio è tutto passato. Facciamo finta che io mi nascondo e tu mi vieni a cercare e anche se non mi trovi tu non ti arrendi perché magari è soltanto che mi hai cercato nel posto sbagliato…”.
‘Una somma di piccole cose’ ha vinto la Targa Tenco come miglior album con merito, senza dubbio c’erano anche altri lavori degni di questo riconoscimento ma bisogna ammettere che si tratta di una delle produzioni più coraggiose e originali. Niccolò Fabi ha proposto un disco realizzato con cura artigianale, prestando attenzione sia ai contenuti sia alla musicalità dei testi.

Niccolò Fabi, Facciamo Finta – Hills Sessions

LA RIFLESSIONE
Abbiamo tutti bisogno di un happy end

Fatti dai risvolti tragici, cronaca nera quotidiana, martellanti notizie inquietanti, news pessimistiche senza tregua, previsioni catastrofiste, vicende e storie dal triste epilogo. Ecco ciò a cui siamo abituati: un lento scivolare verso quel velo di negatività che ha finito col permeare il nostro vivere giorno dopo giorno, rendendo le nostre esistenze un po’ più grigie, un po’ più spente. A volte protestiamo con veemenza, altre commentiamo con un sospiro rassegnato, altre ancora e sempre più frequenti, passiamo tutto sotto silenzio perché ci si assuefa anche al grigiore. A volte arriviamo ad ammettere che abbiamo bisogno impellente di ridisegnate tutto con colori diversi e tinte vivaci per non soccombere sotto il peso di una realtà spesso intollerabile ma alla fine diventa più facile e sbrigativo adeguarsi, allinearsi alla maggioranza di un’umanità stanca e priva di emozioni, dove nemmeno i fatti e le storie più forti riescono ormai a scuotere qualcosa dentro.

Siamo così avvezzi alla crudezza e all’impatto brutale con ciò che accade, senza filtri e senza ‘paracaduti’, che ormai ci stupiamo di ciò che è buono, chiaro e tranquillizzante. Consideriamo gli ‘happy end’ quasi fossero miracoli e ci stupiamo possano ancora accadere cose dai risvolti finali positivi che superino il nostro pessimismo cronico. Eppure di happy end ne è piena la letteratura, con grande valenza gratificante e consolatoria. Ci piace leggere di storie finite nel trionfo dei buoni sentimenti, della giustizia e del riscatto; ne traiamo uno stato d’animo che ci fa star bene con noi stessi e ci predispone verso gli altri. Tra i grandi classici vale la pena ricordare Jane Eyre (1847) di Charlotte Brontë, in cui l’orfana Jane diventa istitutrice presso il castello di Mr. Rochester. L’amore che nasce tra i due sarà sottoposto ad ogni sorta di prova e sembrerà compromesso da un terribile segreto. Non sarà un incendio devastante, la cecità e il dolore a separarli. Solo alla fine essi si ritroveranno in un contesto completamente cambiato ma con l’amore di sempre rimasto intatto. Anche in Orgoglio e pregiudizio (1813) di Jane Austen si assiste alla saga della famiglia Bennet con le avventure delle cinque figlie, impegnate ad assecondare i genitori o i propri sogni e le proprie inclinazioni. Jane sposerà il ricco Charles Bingley dopo non pochi momenti di fraintendimenti ed equivoci che rischiano di compromettere la loro felicità. Romanzi in cui l’amore non è, come sembra, un punto di partenza ma un punto di arrivo, conquistato attraverso mille peripezie, sacrifici e anche una considerevole dose di buona sorte.

Non sempre però, nei romanzi dell’epoca, le vicende conducono a un finale soddisfacente: in certi casi le colpe dei protagonisti sono talmente inaccettabili e stigmatizzate dalla società ottocentesca, che non si concede loro nessuna possibilità di redenzione, nemmeno nella finzione letteraria. Ne sono l’esempio Anna Karenina (1877) di Lev Tolstoj e Madame Bovary (1856) di Gustave Flaubert, in cui l’adulterio viene additato severamente e le due protagoniste destinate al suicidio. Flaubert si ispirò, addirittura, ad un fatto realmente accaduto, riguardante la storia di Delphine Delamare di cui la cronaca dell’epoca si occupò per lungo tempo. Pip ed Estella sono i protagonisti dell’affollato e convulso Grandi speranze (1860) di Charles Dickens, uno dei più popolari romanzi della letteratura vittoriana. Dopo un incontro folgorante, contrastato dalle differenze sociali, la conoscenza di un misterioso galeotto, un viaggio in Egitto e l’allontanamento dei due innamorati, un insolito happy end distingue la vicenda dei due ragazzi: il loro ritrovarsi dopo tante peregrinazioni non avverrà all’insegna dell’amore e della passione ma di un forte, profondo e inaspettato sentimento di amicizia. “Siamo amici.” dissi, alzandomi e chinandomi su di lei, mentre si alzava dalla panchina. “E continueremo ad esserlo anche lontani.” rispose. Le presi la mano nella mia e uscimmo dal luogo in rovina; e come la nebbia del mattino si era alzata in un tempo lontano, quando avevo lasciato la fucina, così si stava alzando ora la nebbia della sera, e in tutta la vasta distesa di luce quieta che mi svelò, non vidi l’ombra di un altro distacco.

Agli inizi del ‘900 in Gran Bretagna nasce ufficialmente la ‘Letteratura rosa’, destinata ad un pubblico femminile. Gli schemi delle narrazioni percorrono un filo conduttore comune agli autori: lui, lei, le interferenze e l’inatteso. Uno schema rigido, che offre però la possibilità di identificazione da parte delle lettrici e soprattutto garantisce un happy end. Intrighi, tradimenti, fughe notturne, congiure, rapimenti, equivoci, vendette, duelli segnano le sorti dell’uno o dell’altro conducendo i personaggi in vortici pericolosi, per approdare alla risoluzione finale. Il contesto dei romanzi è costituito da castelli, monasteri, abbazie in rovina, covi di fattucchiere e zingare cartomanti, villaggi sperduti. Gli oltre 700 romanzi di Barbara Cartland (1901-2000), presentano lo schema vincente: un uomo bello, ricco e nobile, una donna bellissima, di notevole forza d’animo, illibata. Il loro amore è romantico e appassionato, sorretto esclusivamente dal sentimento: La costante nei romanzi della Cartland è infatti la castità prematrimoniale. I fattori esterni che possono minare il rapporto sono la guerra, le disgrazie, le differenze sociali. Ma alla fine il sentimento prevale. In Italia scoppia il fenomeno Liala (1897-1995), pseudonimo coniato da D’Annunzio per Amalia Liana Cambiasi Negretti Odescalchi, che ha venduto milioni di copie dei suoi romanzi, ambientati nel mondo della marina e dell’aviazione durante la Prima guerra mondiale. Negli anni ’50 in USA, il genere rosa diventa business e la casa editrice Harlequin conquista il monopolio di mercato. Il canovaccio narrativo è lo stesso ma la donna perde l’aurea che la idealizza per diventare eroina, a volte spregiudicata, che rincorre l’emancipazione, il riscatto e l’affermazione attraverso l’amore.

Negli anni ’70-’80 l’erotismo entra per la prima volta a far parte della narrazione. L’uomo è maturo, sicuro di sé, realizzato; la donna è giovane, disinibita. Vengono toccati temi come il divorzio, gli abusi, la famiglia allargata, la carriera. I tempi sono cambiati e con essi anche la necessità di rendere il romanzo attuale, realistico, anche se non si rinuncia ad un finale che faccia tornare felicemente i conti. Negli ultimi anni, tra le più significative autrici delle nuove tendenze letterarie compaiono Sveva Casati Modignani che ci narra di gente comune coinvolta in storie non comuni e Mara Venturi, che ha iniziato a scrivere su suggerimento di Italo Calvino, definita da Albereto Bevilacqua la ‘Sandokan dei sentimenti’. Oggigiorno è esploso il fenomeno della ‘chick-lit’ (letteratura per pollastrelle) con capostipite Il diario di Bridget Jones della giornalista Helen Fielding. Il lieto fine non è la relazione stabile o il matrimonio ma il raggiungimento della consapevolezza di sé.

Un happy end per ogni epoca, quindi, che percorra stili di vita, culture, ottiche ed aspettative legate alla nostra evoluzione. Rimane sempre e comunque il desiderio di trovare alla fine del romanzo, nell’ultima pagina prima di chiudere il libro, un qualcosa o un qualcuno che allontani per un attimo pensieri negativi, fredda disillusione e arrendevolezza.