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Giorno: 21 Maggio 2015

Thomas Cheval di Ferrara in finale a The Voice of Italy

da: Rai2

Fabio Curto, Thomas Cheval, Carola Campagna, Roberta Carrese, sono i quattro finalisti che si contenderanno il titolo durante l’attesissima finale di “The Voice of Italy” condotta da Federico Russo in onda mercoledì 27 maggio in prima serata su Rai2.

Roby e Francesco Facchinetti, J-Ax, Noemi e Pelù hanno messo a confronto le ultime 2 Voci del proprio team attribuendo, dopo ciascuna esibizione, 60 punti al talento preferito e 40 punti all’altro. Il loro punteggio, sommato al risultato del televoto, ha stabilito il nome dei finalisti.

Un’avvincente sfida che ha visto le 8 voci in gara cimentarsi non solo in una cover ma anche in un brano inedito.

Hanno lasciato il programma: Keeniatta (Desirie Beverly Baird nata a Germiston in Sudafrica, vive a Ischia, Napoli), Sara Vita Felline (Matino, Lecce), Ira Green (Arianna Carpentieri di Villaricca, Napoli) e Sarah Jane Olog (Rimini).

Numerosi gli ospiti che si sono succeduti sul palco del quarto live. Ad aprire lo show una straordinaria performance del Dj producer Robin Schulz accompagnato dalle 8 voci sulle note del successo dance “Prayer in C” e del nuovo brano “Headlights”. Doppietta anche per il cantante R’n’B Jason Derulo che si è prima esibito insieme ai due talenti del team Noemi in “Talk dirty” ed ha poi presentato il nuovo singolo “Want to want Me”. Atmosfere esotiche con Alvaro Soler che ha cantato insieme alle due ragazze del team Ax la hit “El mismo sol”. La puntata si è conclusa con l’inedita versione piano e voce di “Firestone” del duo formato da Kygo e Conrad Sewell.

I finalisti:

TEAM FACH: Fabio Curto (nato ad Acri, Cosenza, vive a Bologna) con “Emozioni” di Lucio Battisti e con l’inedito “L’ultimo esame”.

TEAM NOEMI: Thomas Cheval (Ferrara) con “Someone like you” di Adele e con l’inedito “Allons danser”.

TEAM J-AX: Carola Campagna (Triuggio, Monza Brianza)con “The circle of life” di Elton John e con l’inedito “Se solo”.

TEAM PELÙ: Roberta Carrese (Venafro, Isernia)con “Sei Bellissima” di Loredana Bertè e con l’inedito “La mia conquista”.

La V-Reporter Valentina Correani, ha condotto dalla Web Room la diretta streaming sul sito www.thevoiceofitaly.rai.it prima dello show insieme ai talenti e ai coach, ha interagito con lo studio durante il Live, dando voce agli utenti dei social, ed è tornata in streaming nel post serata con i commenti a caldo dei protagonisti.
“The Voice of Italy” è attivo su Facebook: thevoiceufficiale, Twitter: @THEVOICE_ITALY con gli hashtag #tvoi e per le squadre #teamnoemi #teampelù #teamjax #teamfach, Instagram: thevoice_italy e Vine: @thevoice_ita. Con l’App ufficiale di “The Voice of Italy” (disponibile per Android e iOs) si può diventare un Coach, costruire il proprio Team e sfidare altri Team. Sarà come essere seduti sulla poltrona rossa.

Jazz: l’appuntamento di mercoledì 27 maggio

da: organizzatori

Continua la ‘saga’ del miglior jazz italiano, portato al Teatro Asioli di Correggio dalla sedicesima edizione di Crossroads, il festival itinerante organizzato da Jazz Network e dall’Assessorato alla Cultura della Regione Emilia-Romagna.
Mercoledì 27 maggio arriverà un nome sempre capace di sorprendere l’ascoltatore: il trombonista Gianluca Petrella. E di fatti eccolo qui con un nuovo quintetto, pronto a sedurci col suo suono ancestrale: “Cosmic Renaissance”, con Mirco Rubegni alla tromba, Francesco Ponticelli al contrabbasso, Simone Padovani alle percussioni e Federico Scettri alla batteria.
Il concerto è realizzato in collaborazione con il Comune di Correggio nell’ambito di Correggio Jazz.
Biglietti: prezzo unico euro 8.

Da anni seguiamo le avventure della Cosmic Band di Gianluca Petrella, che dal 2007 a oggi, prendendo spunto dalla musica ‘interstellare’ di Sun Ra, ha percorso in lungo e in largo l’Europa, esibendosi nelle più importanti sedi del jazz continentale.
Col 2015 inizia un nuovo capitolo della storia di questa formazione: l’organico viene completamente rinnovato, prendendo la foggia di un quintetto, e ribattezzato Cosmic Renaissance.
Questo cambiamento permette a Petrella una maggiore flessibilità nella ricerca musicale, sulla base delle forme sonore visionarie e in perenne mutazione alle quali ci aveva abituati la Cosmic Band.

Gianluca Petrella, nato nel 1975 a Bari, appena maggiorenne vantava già collaborazioni con Roberto Ottaviano e Greg Osby. Prima del 2001, quando si aggiudica il referendum Top Jazz come “miglior nuovo talento”, la sua strada ha già incrociato anche quella di Carla Bley e Steve Coleman.
Da allora le collaborazioni si sono succedute in quantità tali da essere difficilmente riassumibili e i premi sono fioccati a ciclo continuo (dal Django d’Or come “migliore talento europeo” nel 2001 al Top Jazz del 2005, questa volta come “migliore musicista dell’anno”; per non dire del referendum dei critici della rivista DownBeat, che lo vede vincitore nella categoria “artisti emergenti” nel 2006 e 2007, un traguardo mai prima d’allora raggiunto da un italiano).
Tra le sue più rimarchevoli partnership spicca quella con Enrico Rava, ma ha suonato anche con Lester Bowie, Roswell Rudd, Ray Anderson, Pat Metheny, Steven Bernstein, la Sun Ra Arkestra diretta da Marshall Allen e, tra gli italiani, Paolo Fresu e Stefano Bollani.
Ma quel che più conta sono le formazioni man mano ideate da Petrella, che ci hanno fatto conoscere la sua visione eversiva della tradizione trombonistica: dagli Indigo 4 ai Tubolibre, il duo Soupstar con Giovanni Guidi, il quartetto Brass Bang (con Fresu, Steven Bernstein e Marcus Rojas).

Petrella è molto attivo anche al di fuori dei confini del jazz, soprattutto nell’ambito dell’elettronica. La sua più recente testimonianza in questo ambito è il disco (in vinile) 103 Ep.

Informazioni:

Jazz Network, tel. 0544 405666, fax 0544 405656, e-mail: ejn@ejn.it

website: www.crossroads-it.orgwww.erjn.it

LA NOTA
Di notte a Ferrara

Nel linguaggio politico si parla di un ‘failed State’ (Stato fallito) quando non c’e più la possibilità di stabilire un regime democratico nel quadro di uno Stato o di una regione con confini chiari. Non ci sono più leggi e regolamenti per gestire i comportamenti della gente che vivono in quel territorio. Talvolta, passando in piena notte a Ferrara, fra piazza Travaglio e piazza Verdi, in via Carlo Mayr o in via delle Volte, ci si sente davvero in un ‘failed district‘, un territorio senza regole, un vero ‘wild east’ di una volta.
Via Carlo Mayr, di giorno una strada pubblica, aperta a tutti, di notte diventa una strada di fatto privata, totalmente bloccata dai clienti delle cosiddette ‘street bar’. Nemmeno io provo grande nostalgia per la città silenziosa e noiosa di qualche tempo fa, la ‘Ferrara funerale’, e mi piace l’idea della ‘movida’, ma talvolta il rumore diventa insopportabile come in un cantiere con le perforatrici ad aria compressa. Grazie a Dio, personalmente sento quel casino notturno solo da lontano perché la nostra camera da letto è collocata verso le Mura. E non capisco neppure perché il viluppo di stradine in questo storico quartiere di Ferrara sia diventato con gli anni sempre più una sorta di bagno pubblico a cielo aperto, per qualsiasi ‘bisogno umano‘. Sento un grande rispetto per i residenti che mattina dopo mattina curano il quartiere dove vivono. Grande rispetto anche per le donne e gli uomini della nettezza urbana, che ogni giorno fanno un lavoro spesso sgradevole per riportare un po’ di civiltà in un quartiere che, di notte, non sembra affatto appartenere all’Europa del XXI secolo ma ad un ‘failed State’, fuori dal tempo e dallo spazio.
Auguro una buona estate a tutti quelli che devono vivere e dormire nel piacevole e storico ambiente ferrarese, compresi gli ospiti stranieri. Sperando che l’ufficio del turismo e le autorità preposte leggano questa nota.

stefano-tassinari

Politica e passione.
Quando c’era Tass

Incarichi, rimborsi, scandali, propaganda, consenso, clientele. Sono termini che ricorrono (troppo) spesso quando si parla di politica. Non da oggi, anche se l’impressione è che le cose peggiorino progressivamente, si degradino di continuo. Ma forse questa è solo una sensazione, figlia di un atteggiamento che ci induce al rimpianto di un presunto ‘bel tempo andato’, che tale in genere è solo nel ricordo. Perché il rimpianto vero che nutriamo è semplicemente quello della nostra giovinezza, di quando ancora avevamo tutta la strada dinanzi, colma di incertezza ma gravida anche di possibilità.
Di certo, però, la politica dovrebbe essere ben altro dal raccapricciante spettacolo al quale quotidianamente siamo costretti ad assistere. A contrassegnarla dovrebbero essere espressioni valoriali, perché non sulla base di appetiti individuali ma di una meta condivisa e di uno scopo degno d’essere pubblicamente dichiarato andrebbero orientati il camino e condizionate le scelte collettive da compiere.
Invece la politica è in molti suoi anfratti il regno regno dell’indicibile, del sommerso, delle tenebre che celano il malaffare. Ci sono, però, uomini e donne che con la loro vita e il loro impegno testimoniano che questa non è l’unica via e che un modello alternativo e virtuoso non solo è auspicabile ma è davvero possibile e praticabile.
Abbiamo recentemente celebrato il compleanno di due grandi protagonisti della storia politica italiana, due giganti del Novecento, due emblemi della sinistra: intelligenza, passione, pulizia morale hanno contrassegnato il loro impegno per il progresso e il riscatto delle classi subalterne. Pietro Ingrao ha festeggiato il secolo di vita, Rossana Rossanda ha fatto 91 anni: entrambi si mantengono ancora straordinariamente lucidi a dispetto dell’età e forse ancora oggi molto più giovani di chi, dalla sua, ha l’anagrafe ma non la visione.

Di recente è ricorso anche un altro – in questo caso triste – anniversario, particolarmente significativo per la nostra città e per la sua recente vicenda politica: il terzo anniversario della scomparsa di Stefano Tassinari, stroncato l’8 maggio 2012 da un male contro il quale ha tenacemente lottato per otto lunghi anni a dispetto delle previsioni dei medici che in prima diagnosi gli pronosticarono pochi mesi di vita, a conferma che la forza della volontà molto può.

Stefano è stato un intellettuale a tutto tondo, la cui reale statura a Ferrara non è mai stata compresa per intero. Ma chi lo ha conosciuto sa che l’accostamento a giganti quali Ingrao e Rossanda non è fuori luogo, perché davvero il suo intelletto spiccava. E’ stato scrittore, giornalista, poeta, critico letterario, musicista, autore teatrale, operatore culturale e “militante politico”, come amava definirsi non avendo smanie di carriera. Tracciare santini di solito genera il rischio di un effetto boomerang, perché chi non sa tende a irridere. Si può dire con certezza che è stato un politico atipico, in particolare se raffrontato a quello che è il modello oggi prevalente. Già a Ferrara e poi – a partire dagli anni Novanta – a Bologna, dove è stato compreso e apprezzato più che nella sua città natale, Tassinari è stato emblema di una nobile interpretazione dell’impegno civile e politico.

Il profilo che ne traccia Stefano Massari, regista del docufilm “Tass, storia di Stefano Tassinari” è quello di “un inesauribile motore di ‘cultura’. Un uomo governato da una coerenza radicale, ma capace di orizzonti culturali capillari e vastissimi. Un uomo di grande rigore e di generosità autentica, senza compromessi, diventato nel corso degli anni un punto di riferimento, un interlocutore cruciale per tantissimi protagonisti del mondo culturale e politico non solo bolognese. Un’eredità culturale unica, penetrata profondamente in chi ha avuto il privilegio di attraversare accanto a lui la storia culturale di Bologna nell’Italia degli ultimi vent’anni”.
Il lungometraggio, presentato la scorsa estate al Biografilm festival, raccoglie il racconto corale di artisti, intellettuali, scrittori, uomini politici che gli sono stati accanto in tantissime vicende culturali: Pino Cacucci, Mauro Pagani, Mario Dondero, Marcello Fois, Alberto Bertoni, Carlo Lucarelli, Bruno Arpaia, Marco Baliani, Claudio Lolli, Fausto Bertinotti, Filippo Vendemmiati, Luca Gavagna, Andrea Satta, Pier Damiano Ori, Concetto Pozzati e molti molti altri… Il suo spessore etico, intellettuale e politico è da tutti riconosciuto.

Va detto che quella di Stefano Tassinari non era solo un’altra stagione, ma era proprio un’altra maniera di concepire la politica: perché gli arrivismi, le scaltrezza, gli opportunismi, la corruzione c’erano allora come ora. A far la differenza erano e sono gli uomini e le loro qualità morali e intellettuali: l’onestà, l’intelligenza, la volontà di operare nell’interesse collettivo e non in funzione di un personale tornaconto, la lungimiranza, la capacità e l’avvedutezza di orientare le scelte in coerenza con un progetto e non in funzione di un risultato immediato da poter spendere subito al banco del consenso…

Stefano Tassinari non rappresenta semplicemente l’emblema di un tipo politico del quale oggi si hanno rari esempi, era un’eccezione già 30 anni fa. Che cosa lo rendeva tanto speciale? Non semplicemente la concezione della “politica come servizio”, come su usa dire ora (e per quel che si osserva in giro in termini di miserie e meschinerie già sarebbe un bel passo avanti): lui era ben oltre questo primo livello, aveva visione e agiva secondo una prospettiva e un disegno organico,  consapevolmente elaborato.

A renderlo speciale e diverso erano poi alcune qualità e una serie di valori che non si limitava a predicare, ma che praticava con coerenza e tenacia. Ho avuto modo, nei giorni scorsi, di parlarne agli studenti del liceo scientifico di Argenta in occasione delle premiazioni di un concorso artistico-letterario nato lo scorso anno su impulso della professoressa Francesca Boari. La sua opera è stata il punto di riferimento per un serio lavoro di ricerca svolto dagli studenti (del liceo nel quale Tassinari concluse gli studi superiori), coordinati e stimolati da un gruppo di motivati insegnanti fra i quali Silvia Sansonetti, sostenuti da un preside, Francesco Borciani, pieno di entusiasmo e di energia, il cui desiderio di poter intitolare a Tassinari la scuola si spera possa trovar compimento.

I ragazzi hanno letto e utilizzato i testi narrativi di Tassinari come base per la realizzazione di loro elaborati realizzati in forma scritta e audiovisiva. Il tutto è culminato con una premiazione che si è tenuta sabato scorso alla presenza del sindaco Fiorentini. L’eccellente testo del racconto vincitore è pubblicato da Ferraraitalia [leggi qua].
A quei ragazzi ho voluto indicare alcuni dei valori che hanno orientato l’impegno di Stefano Tassinari, perché potessero apprezzarne la cifra e comprendere che a far la differenza contribuiscono sempre impegno e dedizione. Li ho ricondotti a quelli che, a mio avviso, meglio fotografavano la sua personalità: coerenza, passione, condivisione, conoscenza e, primo fra tutti, il rigore, di contrappunto alla superficialità. In ogni sua intrapresa pretendeva da sé e da tutti precisione, accuratezza, verifica puntuale e sistematica delle informazioni e delle fonti. A tutti riservava rispettosa attenzione e un ascolto autentico.
Era coerente con i suoi valori: lo è stato nella sua vicenda politica pur passando da Avanguardia operaia a Democrazia proletaria, di cui fu a Ferrara segretario provinciale, poi ai Verdi Arcobaleno (nati da un manifesto lanciato da Mario Capanna, Dario Fo e dall’ambientalista Virginio Bettini), quindi a Rifondazione comunista, godendo di grande considerazione da parte di Fausto Bertinotti. Ma fu un percorso idealmente lineare. E non fece ‘carriera’ pur avendo le qualità e la possibilità, semplicemente perché non gli interessava, perché non mirava alla propria affermazione ma lavorava attorno a un progetto il cui valore stava nell’approdo collettivo.
Odiava l’opportunismo. E’ stato sempre attivo e pacatamente battagliero nell’arcipelago della sinistra, con spirito libertario, ambientalista, pacifista, anticapitalista; significativamente e orgogliosamente trotzkista. Le sue scelte valoriali si riflettevano nel coerente perseguimento di una stella polare nella quale rifulgevano il senso di responsabilità e la lealtà.
Ha sempre messo in campo la passione contro l’indifferenza degli ignavi e dei qualunquisti: coinvolto e coinvolgente, metteva in gioco entusiasmo, impegno e non teneva in conto il sacrificio. Era idealmente partigiano, pur senza averlo potuto essere per ragioni anagrafiche. Il disincanto era lontano da lui anni luce, lo spirito di Gramsci invece gli era affine così come il celebre anatema contro gli indifferenti.
Concepiva l’impegno unicamente nella sua dimensione collettiva, corale, contro l’imperante individualismo: nel giornalismo (Luci della città, Rete 7, Letteraria) era lo spirito di redazione a prevalere, nel partito quello gruppo; persino da scrittore ruppe l’isolamento tipico del ruolo e si prodigò per la nascita dell’associazione (degli scrittori bolognesi) che ha preso vita grazie al suo impegno. Era consapevole che la responsabilità delle scelte è sempre individuale, ma convinto con Marx che sono le masse a cambiare il corso degli eventi perché la storia è storia di lotta di classi. Mostrava rispetto, cercava la condivisione, si esprimeva non con l’io ma col noi.
E infine, ha sempre attribuito valore centrale alla cultura e alla conoscenza. Sosteneva il dovere di studiare, di coltivare i talenti di cui si è dotati, l’inderogabile obbligo di informarsi e di leggere. Era insofferente alle cialtronate, detestava l’ignoranza, un vizio per il quale poteva mostrarsi sprezzante se frutto di incuria e disinteresse e non invece di una condizione di svantaggio culturale.

Che c’entra tutto questo con la politica? C’entra, c’entra eccome perché la politica è anche e soprattutto questo: favorire la crescita e lo sviluppo civile e culturale di una comunità. Stare seduti sui banchi di un consiglio comunale o di una giunta, del Senato o della Camera è semplicemente un’esigenza funzionale. E’ una necessità tecnica, non un obiettivo. Così la pensava e di conseguenza si è sempre regolato, anche quando ha rinunciato a incarichi prestigiosi. E non è un caso se di lui, anche chi ne ha avversato il giudizio serba il ricordo di un uomo intellettualmente onesto e politicamente corretto. Convinto delle proprie idee, ma non integralista e sempre pronto al dialogo, era rispettato e benvoluto. E su di lui davvero si faticava ad alimentare cattivi pensieri.

ELOGIO DEL PRESENTE
Smart food: la scelta giusta scaturisce dal confronto

Mentre l’attenzione alla salute si impone come elemento trainante delle scelte alimentari, l’espressione smart food si accompagna ad una crescente varietà di casi. Espressione destinata ad avere successo perché tende a rassicurare il consumatore che la sua scelta può proteggerlo da rischi e da frodi e a rafforzare l’idea che restano in capo a lui il controllo e la selezione della migliore opportunità tra le tante offerte da cui è sommerso.
E’ davvero possibile compiere scelte alimentari giuste? E a quali condizioni? Ad esempio, qual è l’influenza della rete e delle informazioni diffuse da una larga varietà di siti dedicati al food? Non vi è dubbio che l’alimentazione è uno dei temi più discussi in rete, in una varietà di format che spaziano dalla cucina, all’educazione alimentare. Possiamo dire che la rete migliora le scelte o che favorisce l’adesione a bufale prive di fondamento? Se le persone sono più informate, come mai si affermano mode alimentari per lo più prive di fondamento e come mai esplodono sui banchi dei supermercati i prodotti gluten free, quando la popolazione che ha reali problemi di celiachia rappresenta al massimo l’un per cento della popolazione?
Un’altra domanda non banale: qual è il ruolo delle etichette nell’informazione? Se cresce l’attenzione alle etichette e migliora la normativa che obbliga le imprese ad una maggiore trasparenza, questo migliora la capacità di scelta delle persone? Ormai la maggior parte dei prodotti alimentari è corredato da etichette (a dire il vero più o meno leggibili e comprensibili). Ma il consumatore non è spesso in grado di decodificare le informazioni contenute in esse e per lo più subisce le suggestioni delle immagini. Le etichette sono costruite in modo da porre l’accento su alcuni valori e non su altri e, anche nella migliore delle ipotesi, la loro presenza sulla confezione non è una garanzia di una scelta consapevole.
Più in generale, auspichiamo un consumatore più informato, ma quale ruolo hanno le informazioni? E’ proprio sulla base di informazioni che scegliamo? O le emozioni sono sempre il principale driver della scelta, anche quando evochiamo valori, orientamenti etici o preferenze personali? E come potrebbe non essere così se, da parte delle imprese, ad una domanda di trasparenza si sostituiscono spesso risposte che toccano altre corte e sollecitano dinamiche di paura e rassicurazione, di imitazione e identificazione?
Anche di questi temi discuteremo durante il Festival di Altro Consumo, al terzo anno della sua edizione a Ferrara. Da anni l’Associazione AltroConsumo svolge un importante lavoro di informazione a supporto delle scelte del consumatore. Un lavoro che, mi piace sottolinearlo, non è imperniato tanto sulla denuncia di frodi e falsi, sulla stigmatizzazione di questa o quest’altra industria multinazionale, ma sull’attenta comparazione dei prodotti e dei loro componenti. Un lavoro più impegnativo, che richiede competenze su diversi fronti, nutrizionali, giuridiche e così via e che dovrebbe essere trasferito in tanti ambiti dell’informazione, ad esempio quella dei talk show.

Maura Franchi – Laureata in Sociologia e in Scienze dell’Educazione. Vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi. Studia i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, le scelte e i comportamenti di consumo, le forme di comunicazione del brand. maura.franchi@gmail.com

La chiesa che dialoga.
Quando c’era don Franco

Casa Cini era sempre aperta ed entrando si avvertiva il fervore di un atelier, si respirava il profumo di un laboratorio di cultura, di una fucina di idee. L’animatore di quello straordinario contenitore in cui ci si incontrava e si dialogava senza steccati era don Franco Patruno. Potevi trovarlo dietro la sua scrivania ingombra di carte e di libri, seduto a leggere un passo del vangelo come un romanzo di Dostoevskij o di Musil, oppure una rivista d’arte o di sociologia. O intento a disegnare. O al cavalletto a dipingere. Ti accoglieva sempre con un sorriso sincero, con una luce benevola che gli illuminava lo sguardo. Scherzava volentieri, amava la battuta, il ‘calembour’, la barzelletta. Comprendeva al volo lo stato d’animo di chi gli stava di fronte, senza necessità che gli spiegasse nulla. Riusciva a essere profondo senza essere pedante. Sapeva dire e, dote più rara, sapeva anche ascoltare.
Di lui abbiamo chiesto a Francesco Lavezzi, che ne è stato allievo, poi amico e stretto collaboratore, di tracciare un ricordo che vivifichi il significato della sua esperienza. (s.g.)

Don Franco morì in un letto dell’ospedale Sant’Anna il 17 gennaio 2007. Amava dire di essere della classe di ferro del ’38 (nato il 29 novembre di quell’anno). Le nostre strade s’incrociarono alla ripartenza di Casa Cini quando, terminata la presenza dei gesuiti a Ferrara (che inaugurarono l’istituto nel 1950), l’allora arcivescovo Luigi Maverna ne affidò nel 1984 la responsabilità a lui e a don Francesco Forini.

Prima di quell’incarico don Franco era già stato tante cose: prete nella parrocchia di Santa Maria Nuova, direttore del Centro missionario diocesano, assistente dei giovani dell’Azione cattolica, fondatore del Servizio comunicazioni sociali (il mitico Scs). E poi artista, scrittore, docente, critico d’arte e cinematografico, fino a far parte della commissione per i Beni culturali e artistici della Conferenza episcopale italiana e, successivamente, firma della terza pagina dell’Osservatore Romano e collaboratore di Raisat, con interviste importanti, fra i tanti, a Ermanno Olmi, Mario Luzi, Dacia Maraini, Ezio Raimondi, Andrea Emiliani, Pompilio Mandelli, Pupi Avati.

Si potrebbe continuare a elencare altre esperienze di un’esistenza non comune, per talento, intensità umana e religiosa, cultura e impegno, come altrettanti sarebbero i ricordi di undici anni condivisi a Casa Cini. Ma forse è più interessante mettere a fuoco la cifra stilistica intima di don Franco. Almeno provarci.
Raccontava che all’uscita del film televisivo “Gesù di Nazareth” di Zeffirelli (1977) il vescovo di allora, mons. Filippo Franceschi, gli disse: “Franco, non dire niente”. L’amico pastore, conosciuto negli anni del centro nazionale dell’Azione cattolica, sapeva bene che l’esigente e raffinata estetica di don Franco era più vicina al volto mediterraneo del Cristo nel filologico “Il Vangelo secondo Matteo” di Pasolini, che ai tratti somatici dell’attore Robert Powell, fedele omaggio ai canoni delle raffigurazioni del Redentore stile “Dolce cuor del mio Gesù”.

Don Filippo conosceva bene le ragioni e i tempi della politica ecclesiastica, avendo per anni frequentato gli ambienti romani Oltretevere, e Franco capì subito, rispondendo con un sorriso della sua indimenticabile bocca asimmetrica.
Proprio qui probabilmente si tocca uno dei punti chiave del suo essere e dei suoi approdi intellettuali e spirituali.
Che cos’è arte sacra? E, soprattutto, ha senso continuare a parlare di questa distinzione? La risposta la scrisse egli stesso in un articolo sull’Osservatore Romano nel dicembre 1999. Il punto di partenza è teologico e cioè il prologo del Vangelo di Giovanni: il Verbo che si fa carne. Da qui il parallelo che Franco disegna per intendere il cammino delle forme d’arte come “segno offertoriale della creatività umana”.
Qui c’è uno snodo che, mi sembra, sia sempre stato per lui cruciale: l’arte stessa, in sé (non solo quella “sacra”), “riflette quell’immagine e somiglianza – testuale – che il Creatore ha partecipato all’uomo e al suo destino”. In questo si ravvisa, in fondo, la sua anima essenzialmente tomista, piuttosto che agostiniana (come direbbe lo storico Massimo Faggioli), che lo porterà a vedere nell’uomo, in qualunque uomo, la vocazione creaturale, a costo di pagare dazio sul terreno di slanci di generosità spesso sconfinati in un’inguaribile ingenuità. Tanto che una volta disse di lui monsignor Giulio Zerbini (suo rettore in seminario e poi vicario generale della diocesi): “Don Franco è nato senza il peccato originale”.

Una luce, quasi caravaggesca, che egli si ostinava a vedere, innanzitutto teologicamente, riflessa in ogni essere umano, si badi bene, pur non essendogli sconosciuta – per sensibilità, esperienza e cultura – la dimensione platonicamente tragica della vita. Lo si vede bene in tanti suoi disegni, volti e corpi, spigolosamente scolpiti con un carboncino impietosamente nero come la notte.
E così si comprende anche l’ironia, talvolta equivocata, spinta fino all’autodissacrazione, riflesso chiarissimo della lezione dell’amato Woody Allen: “Non è tanto Dio, quanto il suo fan club che a volte mi spaventa”.

Ma la riflessione di Patruno, che si portava dentro geneticamente la poetica del segno e che probabilmente provò un sussulto emotivo di sintonia con la teologia dei segni dei tempi di papa Giovanni, non si ferma qui.
Distante da ogni finalismo illuministico e storicistico del cammino dell’arte verso il necessario compimento del bello, egli dichiara il proprio debito col pensiero estetico di Luigi Pareyson, che fu maestro di calibri come Gianni Vattimo e Umberto Eco.

Alla luce di questa lezione don Franco vede il gesto creativo dell’artista sempre “in via di formazione verso la riuscita”. Come un’originalità che fiorisce dalla continuità. Esattamente come Botticelli e Leonardo fuoriescono dal loro maestro Verrocchio: “l’imitazione del maestro – scrive soppesando i termini – già suppone una metamorfosi”.
E non c’è solo il cammino delle opere, ma anche della fruizione, dell’interpretazione, in un gioco ermeneutico non necessariamente parallelo o simmetrico dei due piani, che rende palsticamente il concetto contemporaneo della complessità.

Il divenire dell’arte, dunque, coincide con altre opere che ancora non sono, nel senso che l’anticipo è presente nell’apertura dell’opera stessa, puntualizza don Franco, in un’ennesima sutura tra piano estetico e teologico, nel quale forte è l’eco dell’economia cristologica del già e del non ancora e della Teologia della speranza del teologo protestante Oscar Cullmann.
Ho ancora vivo il ricordo della sua riflessione sull’Action painting.
Tanto la gestualità di Jackson Pollock è legittimamente riconducibile a una casualità postmoderna che esclude l’idea stessa di progetto e di orizzonte, quanto il segno di William Congdon è analogo gesto aperto all’ispirazione, alla trascendenza, fino all’essenzialità di un segno (ancora il suo segno) in cui don Franco seppe vedere un parallelismo nella folgorante missione di Matisse nella Cappella del Rosario di Vence. Il segno condotto all’essenzialità estrema, fino alla sacralità della linea, in una sorta di esperienza ascetica e mistica, come scrisse nel 1992 nel catalogo “La Bibbia di Chagall”, quando Casa Cini ospitò l’omonima opera del pittore di Vitebsk che contemporaneamente era esposto in una celebre mostra a palazzo Diamanti.

Fu quello un altro frutto del legame con Franco Farina, non senza un tragicomico risvolto degno della migliore tradizione della commedia all’italiana, dopo un rocambolesco trasporto delle 105 acqueforti di Chagall nel baule della duna di don Franco (guidata da un obiettore di coscienza), incurante di qualsiasi copertura assicurativa per l’inestimabile valore del trasporto.

Per don Franco non era concepibile riflettere senza illustrare. Il comprendere, per lui, passava necessariamente per il vedere e in questo, azzardo, sta il legame stretto e reciprocamente virtuoso fra estetica, poetica e teologia.
Da questo originalissimo percorso prende forma l’idea di una luce veritativa che non si possiede (in quanto dono), ma che diventa, che si fa cammino, incontro, dialogo. Per lui ecclesiologicamente la linea di confine del vero, come direbbe il teologo Severino Dianich, non passa lungo il perimetro della Chiesa istituzione quanto nel cuore di ciascun uomo.

Per questo, secondo lui, con Casa Cini la Chiesa si doveva fare spazio d’incontro e di dialogo, perché ogni esperienza culturale, senza necessariamente l’aggettivo cristiana, antropologicamente riflette anche solo una scintilla del mistero divino, in una visione dell’uomo ontologicamente creato ad immagine e somiglianza del Padre.

Per questo era comprensibile quando diceva che l’uscita della Costituzione conciliare Gaudium et Spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo (attenzione: non la Chiesa e il mondo contemporaneo), lo aveva commosso. Quel proemio nel quale l’ecclesia fa proprie le ansie, le gioie e le speranze dell’uomo, credo lo facessero pensare, quasi istintivamente, ai giocolieri medievali de “Il settimo sigillo” di Ingmar Bergman, dove il più semplice saltimbanco vede la Vergine, oppure all’episodio pasoliniano “Che cosa sono le nuvole” (episodio del film “Capriccio all’italiana”, 1968), nel quale Totò (Jago) e Ninetto Davoli (Otello) riescono vedere il cielo azzurro e le nuvole solo quando finiscono in una discarica di rifiuti.

Il suo essere, dunque, pienamente uomo di chiesa non gl’impediva di essere pienamente persona, ma significava anche non giudicare il proprio tempo dall’alto di uno scalino sacro, ma mettersi in cammino al suo fianco senza per questo perdere l’autorevolezza di una vita che, nella ricerca e sapienza, era consapevole di essere un segno-sacramento nel “mondo – sono ancora sue parole – uscito buono dalle mani di Dio”.

Può darsi che, oggi, il suo sguardo possa risultare ad alcuni eccessivamente ottimista, magari un po’ datato, per quanto teologicamente ancorato, ma forse questo tempo così inquieto, incerto e privo di bussole, avrebbe più bisogno di cucire ferite, di ponti per ridurre distanze, differenze e inequità, come le chiama papa Francesco che non a caso ha usato l’immagine poco trionfale dell’ospedale da campo per la Chiesa.
E credo che questo pontefice sarebbe piaciuto molto a don Franco.

Un modo per crescere.
Quando c’era l’oratorio

oratorio1 Ci sono posti che cambiano e restano sempre gli stessi. Posti passati, ma quanto mai nuovi. Posti che vedono passare storie, occhi, vivono di emozioni e rincorrono sogni. Congiungono cielo e terra, fanno vivere giovani e anziani, legano svariate generazioni, sembrano essere immortali. Ci sono posti, che sono più di semplici posti. L’entrata è semplice, umile, nulla di monumentale. La maniglia della porta, a furia di essere utilizzata, ormai non fa più il suo dovere: è un via vai continuo. Dentro, luci chiare e mobili nuovi, mosaici di avvisi infissi alle bacheche mettono colore, mentre il bancone del bar è incerottato, trasborda di patatine ed è letteralmente assalito dai più piccoli: le caramelle hanno sempre il loro fascino. oratorio4Alcuni vogliono passare un pomeriggio alternativo per svuotare la mente oppure semplicemente divertirsi con gli amici, dando quattro calci ad un pallone. C’è poi chi è qui per fare i compiti, il doposcuola al primo piano funziona bene. All’improvviso, mi appare davanti una marea di ragazzi quasi fossero una cascata di pastelli che rotola giù dalle scale; scendono alla velocità della luce: hanno zaini apparentemente pesantissimi, ma sembrano non farci troppo caso. Un ragazzo dice all’altro: “prendi tu il pallone?”. Detto fatto. Li seguo e mi accorgo di un mondo che, da fuori, difficilmente si nota. IMG_97Sotto il portico, due anziane donne decidono che nella vita non è mai troppo tardi per un aperitivo, l’analcolico biondo nel bicchiere sembra risvegliarle e ringiovanirle un po’. Passeggio per il porticato, quasi mi stessi mettendo a giocare a nascondino con il sole, un paio di colonne mi riparano da una giornata calda. Intanto i ragazzi sono già arrivati al campo, hanno passato i sampietrini del cortile e si trovano su un mare di crepe: il terremoto ha lasciato la sua firma, tante, in verità. Il rintocco del pallone che rimbalza per terra pare scandire i movimenti che ognuno di noi deve fare nella vita: concentrarsi, inquadrare l’obiettivo e poi colpire. Gol. La vita funziona un po’ così se ci pensiamo. Finché non si mette in mezzo il portiere e allora l’esultanza ti si blocca in gola ed è qualcun altro a gioire. Nel frattempo sono arrivati altri ragazzi, senza farsi troppi problemi si sono subito messi in gioco, la partitella è una formalità e nessuno resta fuori. Se qualcuno cade, subito c’è chi è pronto ad allungare una mano per aiutarlo, senza guardare prima se ha o no il passaporto, che colore sia la sua pelle o che lingua parli. Qualche momento di tensione capita nel momento in cui un ragazzo non ammette di aver toccato il pallone con la mano, ma tutto sommato, giocano sereni. La facilità con cui riescono a stare tutti assieme è invidiabile, le regole “indebolite” fanno sì che non ci siano troppe pressioni: è puro gioco. Prendi un pallone e metti tutti d’accordo… Magari fosse così nella vita. Hanno varie età, ma su questi campi le differenze sono azzerate, anche se sei piccolino (se hai pochi anni o una statura non sviluppatissima) puoi dire la tua. Mi piace pensare che fra questi piccoletti che giochicchiano davanti a me, in futuro, ci possa essere qualcuno che dirà la sua su campi ben più importanti. IMG_9801Ai bordi del campo, un papà e la sua piccolina si godono l’ombra del precedente oratorio, ormai dimora di piccioni e gatti. Sui suoi muri anche l’edera fa la voce grossa, sfilacciandosi per tutta la parete come le dita di una mano: sembra abbracciare quell’edificio vecchio, stanco e un po’ abbandonato. La bambina, seduta su una sedia arrugginita non tocca terra con le gambe, ha in mano un gelato più grande di lei, i baffi di cioccolato pitturano il suo viso pallido. Ha grandi occhi azzurri ed è attratta da quella palla che rotola per il campo. Suo papà è lì, sornione a fianco a lei, con la classica mano sulla spalla. Il fratellino sta provando in tutti i modi a segnare, ma prima un tiro svirgolato e poi il palo gli hanno negato quella che, a sette-otto anni, se sei un amante del calcio, è una delle emozioni più belle del mondo. IMG_9807Dall’altra parte di un piccolo muretto divisore, i “baskettari” sono già in postazione: gli schemi si sprecano e l’intensità è alta. Si gioca su metà campo, le squadre fatte sul posto e il pallone preso nel cesto davanti al bar in cambio di un pegno. Qua funziona così, mi spiegano. Ragazzi asiatici e italiani giocano assieme, senza nessun timore etnico o problema di comprensione della lingua: ancora una volta un pallone risolve tutti i problemi. Un gruppo di signori – vengo a sapere dopo che sono genitori della comunità – stanno preparando qualcosa seduti ad un tavolo. Lo intuisco dai ciò che dicono, a tratti in maniera molto concitata. Girovago attorno a loro per cercare di capirne di più, fin quando un tale si interessa a me e mi chiede chi sia, non avendomi mai visto qui. Così mi raccontano che loro sono un gruppo di papà che danno una mano a questo posto: a volte pitturano, a volte organizzano pub per racimolare qualche fondo per la chiesa (ah, a proposito, è ancora chiusa dal terremoto del 2012), altre volte inventano serate per far divertire i giovani, gestiscono la colletta alimentare e servono ai pranzi della Caritas. Trovano ritagli di tempo dal lavoro, dallo stare in casa (alcuni sono in pensione) o semplicemente per passione e riguardo nei confronti delle persone che popolano questo luogo. S’impegnano per gli altri, gratuitamente e con gioia. Encomiabili, dal mio punto di vista.IMG_9804Ad un tratto suona una campana, un suono altisonante che ti immobilizza. E’ il time-out, pausa pomeridiana con sguardo sul mondo. Ogni attività è stata momentaneamente interrotta, perfino alcuni giovani musicisti che strimpellavano qualche nota nell’aula di musica ci hanno raggiunto. Siamo schierati da un lato, qualcuno ride, altri sbuffano, volevano continuare a giocare. La varietà di persone che abita un oratorio è notevole: i più piccoli (i più irrequieti), gli adolescenti e poi i giovani, senza dimenticare i volontari, gli adulti e coloro che, giovani, lo erano qualche anno fa. Sono tutti in attesa del “pensiero del pomeriggio”, mi sussurra un’educatrice sotto voce. Di fronte a loro un sacerdote, panciuto, con due guance rosse e un sorriso in vista: quest’oggi parla del terremoto in Nepal e di come un oratorio dall’altra parte del mondo non sia crollato. Ora è dormitorio-casa-scuola per circa 800 ragazzi che, tornando a casa, non hanno trovato più nessuno che li aspettasse. Erano diventati orfani. A questo punto un bambino istintivamente abbraccia la mamma, qualcun altro invece abbassa la testa rattristito dalla notizia. Il sacerdote comincia a recitare una preghiera, viene ripetuta in simbiosi dalle voci squillanti dei ragazzi e da quelle più profonde e cupe (e forse rassegnate) degli adulti. oratorio3Credo che ci siano posti che non debbano morire, non debbano essere dimenticati, poiché pezzi importanti della collettività cittadina. Rischiamo di considerare questi luoghi come vecchi oggetti di antiquariato, scordandoci come l’antiquariato possa valere molto di più nel futuro. Penso che gli oratori siano contenitori di valori, emblemi di una concezione sana di vita al di là dell’aspetto prettamente religioso (seppur fondamentale). Un comportamento etico che, nella società di oggi, è sempre più messo in discussione e che con tutte le nostre forze deve essere portato avanti. Per il bene di chi oggi sta crescendo al suo interno e per le generazioni future.

Berlino-Ferrara, sulle tracce di Claudio Abbado

 

Corina Kolbe, fotoTedesca residente a Berlino, Corina Kolbe, giornalista, ama la musica classica e ne scrive su prestigiose riviste e quotidiani in Germania, Svizzera e Italia, “dove – dice – mi sento a casa”. A Claudio Abbado, con cui di intervista in intervista divenne amica occupandosi di alcuni suoi progetti musicali – oltre che di altri, meno conosciuti, la tutela del verde e dell’ambiente – , Corina riconosce l’intuizione di un concetto di arte come “espressione di profonda umanità e parte integrante della vita”. E ad Abbado e al fil rouge che ha legato il Maestro a Berlino e a Ferrara – che dopo la sua scomparsa, a gennaio 2014, gli ha intitolato il Teatro Comunale – ha dedicato un servizio, di prossima uscita sulla rivista Il Nuovo Berlinese, che nei giorni scorsi l’ha condotta di nuovo qui, nella città estense, a raccogliere testimonianze.

Qual rapporto lega Abbado a Berlino e Ferrara?
Nel 1989 Abbado succedette a Herbert von Karajan sul podio dei Berliner Philharmoniker. Poco dopo, il 31 marzo 1990, venne con l’orchestra a suonare nel vostro Teatro Comunale. Nel corso degli anni tornò più volte, anche con la Chamber Orchestra of Europe e la Mahler Chamber Orchestra. Molti musicisti dei Berliner ricordano ancora con piacere i concerti a Ferrara e il pubblico caloroso. Nel 1996, in occasione della mostra in corso a Palazzo dei Diamanti su Max Klinger, Abbado si esibì con i Berliner al Comunale, nell’ambito di una serie di concerti dedicati al rapporto tra l’artista e la musica. Con tali manifestazioni cercò di associare la sua esperienza berlinese dei cicli a tema, che univano la musica e altre arti, alle iniziative culturali di Ferrara. Il fatto che il Comune abbia di recente approvato il progetto Un bosco per la città, tra via Padova e Barco, ideato dal paesaggista Manfredi Patitucci in omaggio ad Abbado, significa che gli è stato riconosciuto anche l’impegno personale oltre il podio.

Che sensazione ha ricavato, durante le ricerche, sulla percezione che la città ha di Abbado?
Anche se non tutti lo hanno conosciuto, o hanno avuto l’opportunità di assistere ai suoi concerti, ho percepito una sensazione di vicinanza e profondo rispetto. Di gratitudine anche. Non dimentichiamo che all’indomani del terremoto del 2012, si impegnò a cercare fondi per la ristrutturazione del teatro.

E Abbado a Berlino?
Attualmente mi sto impegnando per fare conoscere alcuni film su di lui, per molto tempo dimenticati, come Abbado in Berlin. The First Year , un documentario sul suo primo anno con i Berliner, che il prossimo 4 giugno sarà presentato all’Istituto Italiano di Cultura di Berlino. Il 26 giugno, giorno del suo compleanno, sarà proiettato invece La casa dei suoni, tratto dall’omonimo libro, in cui Abbado racconta la sua infanzia, in una scuola elementare italo-tedesca a Berlino.

Corina Kolbe al Tiffany
Corina Kolbe al Tiffany

E lei, Corina, che idea si è fatta della nostra città?
L’ho visitata la prima volta più di vent’anni fa. Prima di venire, l’ho conosciuta leggendo i libri di Bassani e studiando la pittura metafisica, in particolare Giorgio De Chirico. Ci torno sempre volentieri. Ferrara ha un ricchissimo patrimonio storico-artistico che non si conosce mai abbastanza.

 

La foto di copertina che ritrae Claudio Abbado è di Marco Caselli Nirmal

Il prisma dell’identità nel nuovo romanzo del vulcanico Pagani

Valerio Milani, autore di libri di successo e di sceneggiature per film, perde la propria identità, non ricorda chi è, chi sono le persone che lo circondano, quali sono i legami sociali che lo vincolano alla vita degli altri. Ha rapporti sospesi che deve sostenere per non rompere il ‘vero’ Milani. Un viaggio nell’introspezione, alla ricerca dell’identità personale e sociale. Riuscirà nel suo intento? Il tema dell’identità è al centro del nuovo romanzo di Andrea Pagani, pubblicato con l’editore La Mandragora, dal titolo “La tana del coniglio”.

L’identità ingloba sia la dimensione personale, sia quella relazionale e sociale. Posizionarsi nel mondo significa sentirsi all’interno di un sistema complesso di relazioni, di identificazioni e di appartenenze che spesso si modificano nel tempo, a volte in maniera drastica. L’identità è uno dei soggetti maggiormente studiati in filosofia e nelle scienze sociali. Tuttavia, benché si abbiano innumerevoli definizioni proposte da varie discipline, i ricercatori rimangono divisi su alcuni quesiti fondamentali: che cosa è esattamente l’identità e quanto i processi identificativi funzionano? Le persone hanno identità singole o multiple? L’identità è orientata individualmente o collettivamente?
Si sviluppa personalmente o socialmente? E’ stabile o costantemente in cambiamento?

Otto libri di narrativa, sette cortometraggi, editoria con Zanichelli e Loescher, un libro di poesia, numerose ricerche di storia, spettacoli teatrali e rassegne letterarie. Ma non stai mai fermo?
A ben vedere, in realtà le varie attività di cui mi occupo sono contrassegnate dallo stesso elemento comune: la scrittura, il piacere della affabulazione, la forza della narrazione. Non credo che, in fondo, vi sia troppa differenza fra un testo creativo e un saggio critico, fra una sceneggiatura e una ricerca storica: il motore che muove queste operazioni è il medesimo, cioè il fascino dell’indagine, della scoperta, della ricerca narrativa.

Dopo aver scritto saggi su Torquato Tasso, Italo Calvino, Proust e Joyce, la metafisica, hai analizzato la nostra vita (attraverso il personaggio Valerio Milani) alla ricerca dell’identità perduta. È un argomento chiave nei tuoi lavori?
È così, in effetti tutta la mia ricerca, sia nei saggi che nei romanzi, parte dallo stesso interrogativo: in cosa consiste l’identità dell’uomo? Senza dubbio, la nostra condizione esistenziale è attraversata da continue evoluzioni e influenze. Non siamo mai la stessa persona, non solo rispetto a come ci vedono gli altri, ma anche in relazione alle idee, alla sensibilità, agli stati d’animo in perenne cambiamento a cui siamo sottoposti. In questo senso, i miei lavori prendono le mosse dal fascino, un po’ misterioso e un po’ inquietante, che sorge dal desiderio di capire chi siamo.

Sei ferrarese, conosci luci ed ombre di Ferrara. Quanto l’ambiente (architettura, urbanistica, società) influenza l’identità dei ferraresi?
Senza dubbio i luoghi hanno una importanza fondamentale nella formazione della personalità di un individuo. Pensiamo al valore nevralgico, in alcuni casi anche epifanico, che gli ambienti rivestono nelle opere di tanti scrittori. E senza dubbio, la città di Ferrara, con la sua suggestione metafisica e surreale, con i suoi spazi magici e affascinanti, ha fornito e continua a fornire materiale di ispirazione e spunti creativi per chi vi ha abitato e vi abita, da Ariosto a Tasso fino alla metafisica del Novecento.

Nel tuo libro fornisci stupefacenti dettagli del mondo che circonda Milani. Sono dettagli di suoni, colori, odori, sguardi. Mi ricordano gli elementi metafisici di De Chirico. L’attenzione ai dettagli è esercizio per incontrare l’identità?
Mi viene in mente una riflessione geniale di Proust, che nella “Recherche” osserva che una parte della nostra sensibilità, l’essenza della nostra identità, si incarna negli oggetti che ci circondano, nei luoghi in cui siamo vissuti, nelle case in cui abbiamo abitato. È proprio così. Non a caso, tornare sui luoghi d’infanzia, per chi dopo tanti anni non vi è stato, permette di scoprire una parte di se stesso.

Gli artisti molte volte non danno soluzioni, piuttosto formulano quesiti. Credi che l’arte possa aiutare a trovare l’identità?
Assolutamente sì. L’Arte (con la A maiuscola, quindi tutte le forme creative dalla letteratura alla pittura, dalla musica al cinema) è un veicolo prezioso e indispensabile per entrare dentro se stessi: non solo per intrattenerci e farci divertire, non solo per farci evadere dalle minute occasioni della cronaca, ma anche per metterci di fronte a noi stessi, al cuore del nostro essere.

Le altre opere di Andrea Pagani

  • “Nel tempio di vetro”, Book editore, Bologna, 1990
  • “La colpa oscura”, Ed. Mobydick, Faenza, 1999
  • “Capriole di comico” (Libro delle anime, anno 1701), Ed. Pendragon, Bologna, 2004
  • “L’alba del giorno seguente”, Ed. Bacchilega, Imola, 2004
  • “Blue Valentine”, Bacchilega editore, 2005, (vincitore del premio Piccola editoria di qualità, rassegna della Microeditoria italiana, novembre 2006, Chiari, Brescia)
  • “L’alfiere d’argento”, Mobydick editore, 2007
  • “Il limite dell’ombra”, Bacchilega editore, 2010

Il corpo racconta: a villa Mensa yoga e prove di recitazione nello spazio mistico della tenda

“Il Teatro rappresenta sul palco l’essenza dell’uomo, riflette ciascuno nei personaggi. Ed è proprio questo l’spetto più faticoso del Teatro che va amato e non capito.” Gabriele Lavia

Ricetta: Tenda Summer School. Ingredienti: una tenda di medie dimensioni, un giardino di un edificio rinascimentale nel ferrarese, un sogno di fare l’attore, tre bravi insegnanti, sé stessi, fantasia e creatività q.b. Preparazione: mescolate il tutto delicatamente, ma con energia, e il gioco è fatto.

E’ una ricetta semplice, ma particolarmente deliziosa, quella che ha preparato per noi Foné Scuola di Teatro, in collaborazione con la Escuela de Artes Escènica di Santiago di Compostela e la compagnia scozzese Teatro Replico: la Tenda Summer School. A parte il percorso in sé e il tema, molto stimolanti e interessanti per i giovani fra i 14 e i 22 anni (perché a loro è indirizzata questa scuola estiva), quello che mi ha maggiormente incuriosito è l’uso della tenda e il ricorso allo yoga.
La simbologia della tenda è varia e complessa, non vogliamo farne una storia, che lo sarebbe già di per sé, ma solo ricordarne alcuni riferimenti alle pagine evangeliche, alla tradizione degli scout, al suo ruolo nella cultura nomade mongola della steppa o nella vita quotidiana e avventurosa degli indiani d’America, per citarne alcuni. Gli studiosi del Vangelo ritengono che la tenda possa essere il simbolo dell’avventuroso rapporto tra Dio e l’umanità. Stabile e fragile insieme. Percepibile e no, oggi qui e domani là, misterioso sempre. Se, invece, ci soffermiamo a riflettere sulla tenda nel mondo scout, eccoci davanti al simbolo di una vita all’aperto, a contatto con la natura. Anche qui i gruppi scout spesso richiamano la Bibbia, se ci si ricorda della tenda e della vita all’aperto è più spontaneo pensare che tutte le nostre doti non ci appartengono ma che vanno messe al servizio degli altri. Allo stesso tempo, la tenda rappresenta la libertà, le prime notti passate fuori casa, nelle vacanze con gli amici del gruppo, il contatto puro e vero con la natura, una prova di coraggio e, magari, di critica alla società consumistica. Nella tenda si può anche essere soli con sé stessi, a contatto solo con il nostro io. In momenti preziosi di silenzio. La leggerezza di questo abitare temporaneo, efficiente, economico e facilmente trasportabile, era stata voluta e percepita da molti popoli, a partire dai nomadi della steppa del condottiero e sovrano mongolo Gengis Khan (1162-1227), fino ad arrivare agli indiani d’America nel XV secolo, che vivevano in tende chiamate “tepee” (da “te”, abitare e “pee”, usata per) fatte di pelle di bisonte conciate e dalla forma circolare. La storia sarebbe lunga (tutti da bambini abbiamo avuto una tenda colorata, soprattutto indiana) e, per rimanere alla nostra ricetta iniziale (e non portarvi troppo lontano solo con la tenda), abbiamo parlato con (il poliedrico e creativo) Massimo Malucelli, presidente di Foné Scuola Teatro e del Centro di Preformazione Attoriale, per soddisfare alcune nostre curiosità. Subito gli abbiamo chiesto come è nata l’idea della Tenda Summer School (4-8 agosto 2015) e perché si è voluto fare riferimento (e uso) proprio alla tenda.
L’idea, ci ha detto, nasce per dare continuità estiva all’attività del Centro di preformazione attoriale (www.centropreformazioneattoriale.it) che ha suscitato grande entusiasmo nei ragazzi, i quali hanno richiesto di poter fare analoga esperienza durante il periodo estivo. La scuola (sette ore al giorno per 5 giorni) vuole fornire grammatiche, tecniche e approfondimenti della didattica per la scena e strumenti pre-professionalizzanti e orientativi, allenare o ‘liberare’ le proprie capacità espressive e soprattutto fare un’esperienza creativa che prepari ad affrontare la dimensione del palcoscenico. E’, dunque, pensata per offrire ai ragazzi il giusto mix tra studio e divertimento. Gli allievi avranno infatti la possibilità di lavorare con un team di docenti internazionale e contemporaneamente di svagarsi approfittando dello spazio-ricreativo e rilassante, che favorisce la condivisione e la socializzazione fra i protagonisti dell’esperienza. Perché la tenda? La tenda ha un fascino straordinario e permette di condividere con i propri compagni di corso le emozioni e le scoperte fatte durante le giornate di studio. In questo modo, si entra in una dimensione di totale immersione e magia dell’esperienza che si sta vivendo, una condivisione che passa per il contatto umano diretto, lontano, per una volta e per un periodo, dalla dimensione di condivisione spesso forzata dei social network. Ci sono poi tende e tende…

Vista la sua dimensione internazionale, il corso sarà tenuto in inglese? E come è caduta la scelta sulla splendida location rinascimentale di Villa Mensa?

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Villa Mensa, delizia estense nella campagna ferrarese.

Il corso sarà tenuto in italiano, con traduzioni in inglese e spagnolo, quando necessario.
La location ci è stata proposta e l’abbiamo accettata volentieri. Come hai detto tu stessa, è bellissima, in effetti, lo scenario è davvero unico: Villa Mensa, delizia estense, campagna ferrarese, nel comune di Copparo. Edificio rinascimentale voluto nel 1480 dai Della Rovere e costruita nel 1480 dal vescovo Bartolomeo della Rovere, diventa residenza di villeggiatura vescovile dell’epoca. Ospitò Tommaso Ruffo e Ippolito d’Este. La Villa è ubicata sulla sinistra del Po di Volano, vicino a Sabbioncello, in località San Vittore, piccola frazione a otto chilometri da Copparo, sulla strada verso Formignana. E’ un complesso monumentale di grande importanza, dove soggiornarono i vescovi di Ferrara fino al tempo delle soppressioni napoleoniche (1797). La grande villa fu fatta costruire da Bartolomeo della Rovere, nipote di papa Sisto IV e fratello di papa Giulio II, tra il 1474 ed il 1495.

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Villa Mensa si trova a Sabbioncello San Vittore, Copparo.

La facciata, rivolta ad occidente, si prolunga con due muraglie merlate che immettono nei cortili di servizio ai lati della villa; la muraglia verso la strada termina con una piccola cappella. Dal portone centrale ci si immette in un cortile nel quale si prospetta il porticato di sei archi, con colonne e capitelli; sul lato sinistro si eleva la torre di scolta, destinata a colombaia alla fine del XIX secolo. Da vedere). Le tende egli alunni saranno adagiate nel giardino interno, a guardare il cielo, la luna e l’antico loggiato.

“Dalla commedia dell’arte alla comicità contemporanea”, questo il titolo del corso, come mai questa scelta?

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L’attore nel suo teatro

Il tema è un mio pallino. Sto partendo, infatti, per l’Università di Vigo, in Spagna, per tenere una conferenza-spettacolo e un master sul tema. Qui presenterò vari esempi di personaggi tradizionali che, legati al cinema, alla commedia e alla televisione di oggi, sono figli della commedia dell’arte. Penso a Charlot, Totò o Peter Sellers, versione moderna di Pantalone e di altri personaggi della commedia dell’arte, archetipi fondativi della nostra possibilità di raccontare storie. Credo che la comicità, e in generale il grande spettacolo, cinema compreso, si fondi su archetipi universali che affondano le radici nella commedia dell’arte. Ricordo che la commedia dell’arte è nata in Italia, nel XVI secolo. Si trattava di una diversa modalità di rappresentazione teatrale, non di un genere, si basava su canovacci o scenari, ed era tenuta, inizialmente all’aperto, con pochi oggetti a scenografia. Si parlava spesso anche di “commedia improvvisa” o “a braccio”. La definizione di commedia dell’arte si ritrova, però, per la prima volta, nel 1750, nella commedia “Il teatro comico” di Goldoni. Partire dalle radici di quella che era conosciuta, all’estero, come “commedia italiana”, e studiare quegli archetipi significa affondare in un terreno ricco di stimoli e di potenzialità per le creazioni contemporanee e dar vita a personaggi attuali forti e profondi. Dovendo tenere il corso a una facoltà di lettere, tradizionalmente più legata alla teoria di quanto non lo sia ovviamente io, partirò dal canovaccio inteso come la struttura in cui si muove il personaggio e che porta avanti la storia. Il filo conduttore. Ho dovuto proporre un compromesso. Per me resta fondamentale far comprendere come ogni personaggio rappresenti una condizione umana con il suo terrore della fine (della morte), e come il comico ribalti questo in vitalità… Ciò che davvero importa è che la commedia non scada a fenomeno di tipo folcloristico o che corrompa in una versione che non corrisponda alla sua natura originaria. La commedia è immaginazione che si fa concreta. Il corpo è la dimensione interconnessa con il pensiero, non si può prescindere da questo legame indissolubile, una distinzione che in realtà non esiste. E’ difficile perché siamo tutti mentali, molto testa e ragione.

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L’attore Massimo Malucelli e Villa Mensa, luogo in cui si svolge la Tenda Summer School

Quando l’attore entra in scena, spesso basta un gesto per definirlo nel suo intero, attraverso il corpo si manifestano i prodotti della fantasia. Il corpo deve diventare qualcosa di più di un semplice strumento meccanico, mai si deve dividere tra anima e corpo. Vale la pena riprendere un concetto del regista e teorico del teatro russo, Kostantin Stanislavkskij, quello del “come se io fossi”. Sebbene Stanislavkskij fosse il teorico del metodo e del rigore (per questo mi si potrebbe prendere per un “eretico” nel fare un accostamento tanto azzardato), con poco spazio lasciato alla recitazione istintiva, il suo ruolo lasciato all’immaginazione, a una fantasia attiva e allenata e alla domanda che l’attore si deve fare “se io fossi in quella situazione”, sono un reale e importante insegnamento. Perché la libertà intellettuale creativa è nel mezzo, nel grigio. Sono grande partigiano, quindi, avrai capito, dell’unione fra le cartesiane res cogitans e res extensa. Galimberti diceva che il sorriso non è solo un insieme di muscoli, conta l’intenzione al sorriso. In questa senso la connessione fra attori e yoga. Anche quando scrivo ho sempre bisogno di visualizzare la situazione, devo vedere la scena. La Vita è fatta di eccezioni e di fluidità e il fantastico non ha limiti purché sia fisico.

Ci piacerebbe saperne qualcosa di più sul gruppo di docenti, ci incuriosisce la portata internazionale…

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Escuela de Artes Escènica di Santiago di Compostela

A parte me, presidente di Foné e del Centro preformazione attoriale e insegnante internazionale di commedia dell’arte (aggiungerei laureato in filosofia con tesi sul canovaccio nella commedia dell’arte, sceneggiatore, autore teatrale, regista, attore e direttore artistico), vi saranno Marcos Grande Pazos, docente spagnolo e direttore artistico dell’Escuela de Artes Escènicas Pabulo di Santiago de Compostela [vedi] e Joe Gallagher, specialista di teatro shakespeariano, direttore della compagnia scozzese Teatro Replico [vedi].

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Teatro Replico, compagnia scozzese

Marcos insegna “espressione corporale” e cerca di far apprendere agli allievi come incarnare un personaggio, come mettersi nella sua pelle, come crearlo, capirlo, essere lui. A partire dalla sua maniera di muoversi, fino al suo pensiero e al suo carattere. Il corpo è lo strumento di lavoro dell’attore, bisogna allora conoscerlo, esplorarlo, capirlo, guidarlo, modellarlo, dominarlo nel suo movimento, nella sua capacità espressiva. Perché il corpo comunica, ognuno in maniera diversa (non c’è un modello universale), ognuno con il suo, ciascuno con specificità e espressività differente.
Joe ha una vasta esperienza come attore classico, avendo lavorato con molti di primi attori e registi scozzesi. Con Teatro Replico ha prodotto presentazioni e risorse online di qualità, volte a sostenere lo studio del dramma inglese nelle scuole e nei college. E’ laureato all’University College London e ha oltre 25 anni di esperienza in teatro, tv e radio.

Molto interessante l’inizio del programma con alcune ore di yoga. Essendo yogi convinta (anche se da poco) mi piacerebbe capire perché, quale il legame…
Noi raccontiamo storie con il corpo. Tutto ciò che aiuta a percepirci come potenziale espressivo, capace di far vivere, concretamente, l’immaginario che si contrappone al nostro comune concetto di corpo versus anima (tipico del nostro Occidente dissociato), aiuta la nostra arte. Anzi, le fornisce proprio il “materiale creativo”. Ben vengano dunque yoga, Tai Chi, danza. Il ritmo è quello che conta. Gli storici delle religioni pensano poi che il termine yoga derivi dalla radice “yuj-“, unire. Ci siamo già spiegati…

Avete adesioni ad oggi e da dove? E come sta reagendo Ferrara, all’esperienza della scuola in generale?
Oltre ai nostri allievi, abbiamo già varie adesioni dall’Italia, dalla Spagna e dall’Inghilterra.
Ferrara sta reagendo molto bene, abbiamo il pieno supporto delle istituzioni a partire dal Comune. Anche la cittadinanza è partecipe; quest’anno abbiamo 22 allievi giovani per un totale di 40. Ammetto che il passaparola sta funzionando bene, il pubblico ci sta conoscendo sempre di più, anche grazie al ruolo di un mio ex allievo, oggi collaboratore, Stefano Muroni, che dalle mie aule è partito con il sogno di diventare come Benigni e che sta facendo una brillante carriera. Stefano, con il quale ho portato avanti questo progetto, ha sempre riconosciuto l’importanza dell’improvvisazione che ha sviluppato studiando con me. Brillante allievo del Centro sperimentale di cinematografia di Roma, mi ha “convinto”, dicendomi, di fronte al mio tentennamento iniziale dovuto ai tempi attuali di crisi, che questa scuola serve proprio a evitare quello che questa crisi ha portato, l’impedimento sognare. A questi giovani bisogna ridare la possibilità di farlo, con la consapevolezza che può non andare bene ma che si può e ci si deve provare. I giovani ferraresi stanno comprendendo questo messaggio, e con la scuola stanno già avendo molte opportunità: chi parte per lo stage di Marcos Grande Pazos, spesato dalla scuola stessa, e chi farà parte della giuria del Giffoni Film festival. Altri hanno già avuto esperienza con Telestense.
I giovani partecipanti alla summer school, invece, per tornare a essa, potranno produrre scene originali che saranno filmate e consegnate su Ddv, il che sarà per loro anche un buon curriculum, una sorta di provino, un capitale utile a proporsi in seguito. Le cinque migliori saranno subito presentate da Telestense, una buona occasione per vedersi e rivedersi. Una riconoscibilità mediatica che possa portare materiale da spendere in audizioni, provini, pagine web e presso compagnie e altri circuiti televisivi. Un buon inizio. Per parte nostra, solo un augurio sincero, allora: buon sogno!

I corsi inizieranno il 4 agosto e si concluderanno, con le riprese finali, l’8 agosto. Dureranno 5 giorni con il seguente orario: dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 19 L’ultimo giorno sarà organizzata una serata di festa e spettacolo, con la presentazione dei personaggi creati, in forma di “work in progress” . In alcune delle altre sere vi sarà la proiezione di film inerenti il lavoro svolto e sulla dimensione della comicità (La Commedia dell’Arte nel cinema italiano e nella comicità contemporanea). Iscrizioni entro il 30 Maggio.

Foné Scuola di Teatro e il Centro di preformazione teatrale sostengono la campagna di crowdfunding “Una redazione condivisa per Ferraraitalia” [vedi], partecipa anche tu! Vedi la clip di Massimo Malucelli girata da Luca Pasqualini per il crowdfunding di Ferraraitalia cliccando qui.

Per maggiori informazioni sulla Tenda Summer School, visita il sito del Centro di preformazione teatrale [vedi] e la pagina Facebook [vedi].

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Il teatro dell’inclusione. A Ponte performance, incontri e spettacoli comunitari

Carceri, ospedali psichiatrici, scuole, strutture terapeutiche: luoghi non convenzionali di messa in scena. Sono passati ormai quasi quarant’anni da quel 1976, quando il Teatro Nucleo – allora Comuna Nucleo – è arrivato in Italia da Buenos Aires, costretto all’esilio dal golpe di Videla. Fondato nel 1974 da Horacio Czertok e Cora Herrendorf, nel 1978 il Teatro Nucleo si stabilisce definitivamente a Ferrara, chiamato dallo psichiatra basagliano Antonio Slavich per collaborare nel processo di chiusura dell’ex-ospedale psichiatrico della città, che diviene anche la sua prima sede. Alla base dell’attività del Nucleo c’è la concezione del teatro non come puro intrattenimento, ma come portatore di un’etica sociale, come momento di profonda condivisione di un’esperienza fra attori e spettatori. E se, come fa il Teatro Nucleo, al centro si pone il rapporto con l’essere umano in quanto tale, il teatro diventa un potente strumento di inclusione e trasformazione sociale. È con questo spirito che negli anni sono nati spettacoli per gli spazi aperti e i tanti progetti di teatro in carcere, nelle scuole, nelle strutture terapeutiche e nelle istituzioni legate al lavoro sulla salute mentale e all’integrazione sociale. Il progetto Teatro Carcere, nel quale Horacio Czertok lavora con alcuni detenuti della Casa circondariale di Ferrara, insignito nel 2012 con la medaglia premio di rappresentanza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il progetto Arte e salute mentale con pazienti psichiatrici del Dipartimento salute mentale di Ferrara e la Scuola di formazione per operatori teatrali nel sociale, diretta da Cora Herrendorf, sono solo alcuni esempi.
Nel 1981, dopo un seminario con Horacio Czertok e Cora Herrendorf, entra a far parte del Teatro Nucleo anche Antonio Tassinari, che ne diventa da subito elemento fondamentale. È lui a ideare e coordinare il Teatro Comunitario di Pontelagoscuro, un’esperienza nata anche dai legami mai del tutto recisi del Teatro Nucleo con l’Argentina. È qui che il teatro comunitario nasce negli anni Ottanta, forma teatrale della e per la comunità, basata sull’integrazione intergenerazionale e su un’idea di recupero della memoria collettiva, non la storia scritta sui libri, ma la narrazione costituita dai ricordi delle persone che la comunità la costituiscono e la vivono.
Nel frattempo il Teatro Nucleo diventa organismo stabile riconosciuto dalla Regione Emilia Romagna e, nel 2003, riceve dal Comune di Ferrara una nuova sede a Pontelagoscuro, due anni dopo intitolata allo scrittore Julio Cortázar, in onore delle proprie radici argentine.

Teatro Nucleo, 'Quijote!', con Horacio Czertok e Antonio Tassinari.
Teatro Nucleo, ‘Quijote!’, con Horacio Czertok e Antonio Tassinari.

Guardando indietro, a tutto ciò che ha costruito in questi quarant’anni, la cooperativa Teatro Nucleo ha pensato di festeggiare questo suo quarantesimo compleanno e di cogliere l’occasione per rendere omaggio alla memoria di Antonio Tassinari, scomparso un anno fa lasciando un grande vuoto nel mondo culturale e teatrale ferrarese e non solo. Così è nata “La Primavera del Teatro”, che arriverà al Teatro Julio Cortàzar a Pontelagoscuro da domani 22 maggio al 7 giugno 2015. Un assaggio lo si potrà avere già stasera alle 18 a Ferrara Off Teatro con la presentazione in anteprima di due volumi: “Pasado y presente de un mundo posible. Adhemar Bianchi y Ricardo Talento: del teatro independiente al comunitario”, a cura di Mónica Berman, Ana Durán e Sonia Jaroslavsky (edizioni Leviatan) e “Un’avventura utopica. Teatro e trasformazione nell’esperienza del Gruppo Teatro Comunitario di Pontelagoscuro”, a cura di Greta Marzano ed Erica Guzzo (edito da Titivillus).

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‘Los Calandracas’, Circuito Cultural Barracas

Dal 22 al 31 maggio il Teatro Julio Cortázar ospiterà “L’Eredità Vivente”, progetto di formazione artistica e culturale con gruppi di spicco della scena teatrale internazionale, che in questi anni hanno intrecciato le proprie vicende e la propria ricerca con quelle del Nucleo.
Dall’Argentina saranno a Ferrara Ricardo Talento e Ana Serralta, esponenti del Circuito Cultural Barracas e del Gruppo di Teatro Catalinas Sur, due realtà con sede a Buenos Aires legate all’impegno nel Teatro comunitario.

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Teatr Osmego Dnia
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Cathy Marchand

Dalla Polonia arriverà Teatr Osmego Dnia: fondato nel 1964 da un gruppo di studenti universitari della città di Poznan, con la proclamazione dello stato di assedio e la legge marziale, la sua attività viene pesantemente compromessa e una parte del gruppo nel 1985 deve emigrare, facendo tappa a Ferrara, dove viene accolto dal Teatro Nucleo. Infine in rappresentanza del Living Theatre, l’attrice Cathy Marchand, allieva dei maestri fondatori Judith Malina e Julian Beck. “Presupposto del progetto, da cui il titolo – afferma Horacio Czertok, presidente di Teatro Nucleo – è che l’eredità umana e artistica dei Maestri non possa essere sostituita dallo studio in differita sui libri di testo o altri materiali tramandati. L’unico vero spazio in cui si può ricevere un’eredità artistica, umana e spirituale come quella di cui sono portatori i gruppi invitati, è quello dell’esperienza condivisa, dell’incontro e della relazione tra allievi e Maestri”.

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Teatro Catalinas Sur

Fra gli eventi aperti al pubblico al Teatro Cortàzar si segnalano: il 26 maggio alle 20:30, in anteprima nazionale, “I Dossier”, nato dalla scoperta da parte degli attori e delle attrici della compagnia Teatr Osmego Dnia, dei loro fascicoli personali redatti dalla polizia segreta tra il 1975 e il 1983, durante il regime totalitario in Polonia (ingresso a offerta libera); il 28 maggio alle 16:00 l’incontro aperto al pubblico con i maestri de “L’Eredità Vivente”, seguito dalla presentazione di “Living Theatre nelle immagini di Marco Caselli Nirmal 1977-2013”; infine il 29 maggio alle ore 21:00 il “Tributo a Judith Malina”, video e testimonianze della maestra Cathy Marchand (Living Theatre).

Dal 5 al 7 giugno toccherà poi al Totem Arti Festival animare il Teatro Julio Cortazar e il parco Tito Salomoni, luogo della memoria della Pontelagoscuro prima dei bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Giunto alla sua terza edizione conserva intatta la volontà di creare uno spazio di condivisione e partecipazione, per coinvolgere la comunità e i giovani avvicinandoli alla fruizione di sperimentazioni artistiche e culturali. L’inaugurazione sarà venerdì 5 alle 18:30 con aperitivo e performance nel parco: la Compagnia Iris presenterà “Segni particolari: un segno sul cuore”, l’esito del laboratorio condiviso sulla performance contemporanea, condotto in collaborazione con Alice Bariselli e A/M Project, Natasha Czertok con Greta Marzano e fannybullock. Si proseguirà alle 21 con la danza della Compagnia Simona Bertozzi/Nexus che presenta “Bird’s Eyes View”.
Sabato 6 giugno alle 21 la danza lascerà spazio alla prosa per uno spettacolo che, con profonda ironia e cinica leggerezza, affronta il dramma del futuro negato: “Mio figlio era come un padre per me” dei Fratelli Dalla Via, vincitore del Premio Scenario 2013.

Foto del Totem Arti Festival edizione 2014. Clicca sulle immagini per ingrandirle.
Foto di Daniele Monatovani.

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Domenica 7 alle 17 Irene Guerrini terrà una lezione gratuita della disciplina circense del tessuto aereo, per tutti coloro che al circo non possono fare a meno di rimanere con il naso all’insù, affascinati da quelle figure che sembrano fluttuare nell’aria. Alle 18.30, direttamente dal Freak’s Puppet Circus delle Officine Duende, nel Parco Tito Salomoni verrà esibito, come nelle fiere d’altri tempi, il “fenomeno” delle sorelle siamesi: un unico corpo con due cuori separati o due corpi uniti da un amore unico e indissolubile? A chiudere il Totem Arti Festival sarà alle 21 “Memorie dal reparto n°6 di Teatro Nucleo/Sfumature in atto, liberamente tratto dal racconto di Anton Checov.
Da venerdì a domenica il parco Tito Salomoni si riempirà di musica: dalle 19 alle 21 con Radio Strike, le sue selezioni musicali e le sue interviste agli artisti. Inoltre venerdì 5 dalle 22 nel parco si esibiranno i Jessica Hyde, mentre sabato 6 dalle 22.30 toccherà a Voodoo Sound Club.

Link correlati:
Programma L’Eredità Vivente [vedi].
Programma Totem Festival [vedi].

Mirella, la scultrice che gioca a scacchi con miseria e nobiltà

Miseria e nobiltà. Re, regine e alfieri che si alternano a gabbiani randagi e contadine acqua-e-sapone. Sono i due estremi dentro ai quali sta tutta l’opera di Mirella Guidetti Giacomelli. La scultrice festeggia i quarant’anni della sua attività artistica con una serie di esposizioni in città, inaugurate questo fine settimana e destinate a concludersi con l’autunno-inverno.

Le due anime opposte dell’opera di Mirella Guidetti Giacomelli convivono, ad esempio, nel bronzo messo letteralmente in piazza domenica scorsa con una parte delle sue sculture più auliche: trentadue scacchi giganteschi, che trasformano il cortile interno del Castello in un tavolo di gioco a riquadri da percorrere a grandi passi. La rappresentazione ricorda l’antica passione dei signori estensi per queste partite, grazie anche alla presenza dei figuranti della Corte ducale, il gruppo all’interno dell’ente Palio di Ferrara che dà volti e sembianze agli Este e ai loro familiari. In questo caso negli abiti di velluto e seta ispirati agli antichi affreschi ci sono, in prima fila, Isabella e sua cognata Lucrezia Borgia. Le ragazze che rappresentano le celebri dame siedono accanto alla tavola con la versione maneggevole delle stesse sculture-pedine, modellate in questo caso in terracotta da Mirella, per ricordare la partita che le due avrebbero giocato proprio qui, qualche centinaio di anni fa (1483). A vigilare sul gioco da tavolo e su quello a grandezza umana che si svolge nel cortile c’è anche Borso, il marchese che riceve dal papa l’investitura a duca e che prende il volto di Franco Zoboli, imprenditore metalmeccanico che da quando è in pensione veste i magnifici panni di colui che innalza il livello nobiliare della casata.

In parallelo alla versione scultorea e signorile degli scacchi, si svolge la mostra allestita all’interno di una banca in pieno centro storico per raccontare l’altra anima del lavoro della Guidetti Giacomelli, “L’anima della terra”. E’ questo infatti il titolo scelto dal curatore Lucio Scardino per la rassegna di sculture negli spazi della banca Mediolanum, in via Saraceno 18, che danno corpo alla “Contadina”, a un paesano e appassionato “Incontro”, ma anche a composizioni che trasportano nel paesaggio delle paludi, tra il Po e il mare, con i gabbiani che volteggiano “Dove il fiume lascia la rena” e gli eleganti uccelli del “Richiamo”.

Cresciuta nelle terre tra Mirabello e Casumaro, Mirella mette in scena quarant’anni di attività e lo fa in modi e luoghi diversi, adatti a mostrare i vari aspetti contenuti nelle sue opere. Scardino le definisce “sculture dai robusti ritmi plastici, che trascendono l’ovvia ruralità per divenire simboli, metonimie, allegorie”, con “la scena ferrarese e la Vita che si confondono” fino ad arrivare alla “trasfigurazione fantastica dell’ambiente, del vivere quotidiano”.

Un’ulteriore esposizione di lavori dell’artista è prevista per settembre nel salone d’onore di Palazzo Municipale. Intanto si può anche andare a riscoprire alcune delle sue opere pubbliche, disseminate per la città: il busto di Dante a Parco Massari; quello di Giorgio Bassani nella biblioteca comunale di Barco; l’arcangelo Michele combattente, realizzato per commemorare gli aviatori ferraresi in viale IV Novembre all’incrocio con via Fortezza.

“Nell’anima della terra” è visitabile alla banca Mediolanum, via Saraceno 16-24 con catalogo edito da Liberty House e fotografie di Aldo Gessi e Andrea Samaritani. Fino al 30 giugno dal lunedì al venerdì negli orari di ufficio.

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Figuranti della corte guardano la partita a scacchi (foto Giorgia Mazzotti)
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Scacchiera a grandezza umana di Mirella Guidetti Giacomelli (foto Giorgia Mazzotti)
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Figuranti della corte guardano la partita a scacchi (foto Giorgia Mazzotti)
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Scacchiera a grandezza umana di Mirella Guidetti Giacomelli (foto Giorgia Mazzotti)
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Figuranti della corte guardano la partita a scacchi (foto Giorgia Mazzotti)
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Borso d’Este interpretato da Franco Zoboli davanti alla scacchiera di Mirella
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La scultrice con l’assessore Aldo Modonesi, il presidente del Palio Alessandro Fortini e il presidente del Lions estense Paolo Bassi
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Lucio Scardino e Mirella Guidetti Giacomelli davanti alla scacchiera
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Scacchi nel cortile del castello (foto Giorgia Mazzotti)
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Scacchi nel cortile del castello (foto Giorgia Mazzotti)
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“Incontro” di Mirella Guidetti Giacomelli in mostra in via Saraceno (foto Luca Pasqualini)
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“Dante Alighieri, l’esilio” di Mirella Guidetti Giacomelli (foto Luca Pasqualini)

Scacchi

Primi mattoni per la coop di Ferraraitalia. E al festival di Altroconsumo si potrà aderire al crowdfunding

Un solido futuro per Ferraraitalia e un’opportunità di lavoro per alcuni giovani collaboratori che con passione si sono impegnati in questi mesi nello sviluppo del progetto. Lunedì 11 maggio è iniziata l’avventura di “Una redazione condivisa per Ferraraitalia”, la campagna di crowdfunding lanciata con l’obiettivo di favorire il passaggio dalla fase del puro volontariato a quella dell’impresa, che vede nella nascita di una cooperativa una concreta opportunità occupazionale. E’ un passo importante quello che ci accingiamo a compiere, ben ponderato. Un passo, però, che necessità del contributo della nostra comunità di lettori ai quali abbiamo rivolto l’invito ad accompagnarci in questo cammino.

Dopo poche ore dall’avvio della campagna, ecco già i primi sostenitori. I contributi sono affluiti regolarmente e in appena dieci giorni di raccolta abbiamo raggiunto la ragguardevole quota di finanziamento di 1.360 euro pari al 27% del budget previsto, grazie allo slancio di 40 sostenitori.

La durata inizialmente prevista per la campagna è di 90 giorni, 80 sono quelli residui, si potrà dunque concorrere al consolidamento di Ferraraitalia sino al 9 agosto.
Versare un contributo è semplice, basta andare sulla piattaforma Ideaginger.it, cliccare sul nostro progetto [vai] e scegliere fra le ricompense definite in collaborazione con i partner che ci sostengono in questa campagna: a ognuna è associata una cifra, commisurata al valore della proposta. Oppure si può optare per una donazioni libera, svincolata da doni e importi predefiniti. Gli amici che ci affiancano sono Altra qualità, Ferrara Off, Hostaria Savonarola, Foné, Delta ciclando, Bao publishing, Holiday village Florenz.

Abbiamo denominato il progetto “Una redazione condivisa” perché immaginiamo Ferraraitalia come laboratorio aperto alla partecipazione, all’incontro e al confronto con i lettori, attento alle loro esigenze, capace dunque di orientare il proprio lavoro in un’ottica di autentica condivisione comunitaria. L’obiettivo è rafforzare la rete di relazioni che si è creata in questi mesi e irrobustire sempre più la base sociale di Ferraraitalia. Anche per questo abbiamo scelto il crowdfunding, una forma di finanziamento dal basso per sviluppare progetti di riconosciuto interesse collettivo.

crowdfunding-altroconsumoIl nostro cammino interseca quello del festival di Altroconsumo, che si svolgerà in città nel fine settimana. I temi della ‘sharing economy’, fra i quali rientra anche la riflessione sul crowdfunding, saranno al centro di alcuni dei numerosi incontri del festival.“Dire, fare, cambiare”, è il titolo-slogan dell’iniziativa che esprime un orientamento che ci sentiamo idealmente di sottoscrivere. Le iniziative di questa che è la terza edizione si rivolgono principalmente ai consumatori, con lo scopo di favorire corretta informazione e consapevolezza. Ma l’intento programmatico ha un valore più ampio e generale e parla ai cittadini, al di là del loro ruolo di consumatori.
Sabato 23 maggio ti aspettiamo alle 10.30 a Palazzo della Racchetta per l’incontro-caffè “L’informazione indipendente e il senso del consumo (critico)”. Rosanna Massarenti, direttore di Altroconsumo, intervisterà Maura Franchi, sociologa, esperta dei comportamenti di consumo, che per Ferraraitalia redige la rubrica “Elogio del presente”.
E poi saremo alle 17.30 al Chiostro di San Paolo, per la presentazione del libro “Mi fido di te” di Gea Scancarello sulla sharing economy, per comprendere come creare relazioni ci permette, per esempio di girare il mondo gratis. Saranno presenti i ferraresi Simone Chiesa e Anna Luciani, la cui vicenda è stata raccontata da Ferraraitalia [vedi], che esplorano il mondo utilizzando il Couchsurfing.

Durante entrambi gli eventi chi lo desidera potrà fare la propria donazione per la campagna di crowdfunding in forma semplice e diretta, senza l’ausilio di strumenti informatici.

Link correlati:
“Una redazione condivisa per Ferraraitalia” [vedi]
Programma del Festival di Altroconsumo a Ferrara [vedi].

 

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Nuovi parametri nella stima del benessere. E qualcuno vuole rottamare il Pil

Anche le città sono entrate nelle indagini statistiche dell’Istat che ne ha valutato il benessere equo e sostenibile. UrBes, è infatti un interessante studio che ha analizzato un campione di città con l’obiettivo di progettare una politica nazionale per le città tale da prevedere azioni e governance orientate all’incremento della qualità urbana. Ho ritenuto il progetto interessante da proporre.

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Copertina del rapporto

In premessa dello studio, attuato in collaborazione con il Cnel, si dice che “La riflessione su quali siano le dimensioni del benessere e su come misurarle è, infatti, una riflessione sui fenomeni che è necessario prendere in considerazione per migliorare una società, su come definire obiettivi di breve e lungo periodo e su come valutare i risultati dell’azione pubblica. […] UrBes può servire a rafforzare il dialogo tra amministratori e cittadini e a promuovere una rendicontazione periodica sullo stato della città da parte degli amministratori al fine di promuovere lo sviluppo di esperienze di partecipazione e di democrazia locale basate sul principio di accountability. Ciò può consentire ai cittadini di valutare i risultati dell’azione di governo e, al tempo stesso, di partecipare con maggiore consapevolezza ai processi decisionali locali. Il progetto UrBes è un lavoro in progress il cui set di indicatori potrà continuare a migliorare grazie alla collaborazione già assai proficua tra Istat e Comuni.”
A mio avviso non sono importanti i risultati che in fondo propongono aspetti conosciuti (le differenze tra nord e sud, la spaccatura tra realtà metropolitane e comuni capoluogo, molto altro ancora), ma un metodo che inizia a rilevare questioni prioritarie per la vita del cittadino, dalla sicurezza al paesaggio, al patrimonio culturale, al benessere soggettivo, ma anche la banda larga, la presenza di non profit, la quota di donne nei consigli comunali, il verde pubblico, la scolarizzazione, il lavoro, il reddito, etc. i dati raccolti sono tantissimi e sono consultabili nel rapporto [vedi].

urbes-rapportoL’approccio di una pianificazione strategica marketing-oriented è però un principio innovatore che sta alla base di questo approccio e che concepisce la città come centro che scambia valori con l’esterno attraverso un attività di importazione e di esportazione sia di beni e servizi tradizionali sia di altre attività rilevanti. Queste strategie riguardano in particolare l’assetto urbano, le infrastrutture, i trasporti, le comunicazioni, le aree attrezzate, i servizi pubblici e sociali, la sicurezza, l’istruzione, la sanità, il patrimonio storico e artistico, i parchi e i giardini, le attrazioni culturali e sportive, strategie di attrazione del turismo e delle attività economiche, il coinvolgimento di soggetti esterni (finanziari, commerciali, produttivi, etc.), strategie di comunicazione e di promozione, infine è importante, per non dire fondamentale, aggiungere le strategie di miglioramenti nei servizi pubblici che determinano in maniera spesso rilevante il consenso e comunque il grado di benessere offerto dalla città.

Su questi riferimenti si potrebbero valutare le città inserendole in specifiche categorie di appartenenza. Proviamo a giocare. Ci sono le città metropolitane che definirei ‘le leonesse’ caratterizzate dal potere economico (e dunque anche politico) con un buon livello di benessere, ma anche di complessità sociale. Ci sono le città ‘castoro’ produttive che si basano sul lavoro dei tanti artigiani, ma che hanno anche una forte caratterizzazione industriale. In queste due la popolazione aumenta e l’incremento demografico è una risorsa. Poi ci sono le città nobili ‘i cigni’ del benessere maturo, con economia statica e rivolta all’auto soddisfazione, ma che non hanno molta inventiva, al contrario dei poli innovativi ossia le città in rincorsa ‘le gazzelle’ ancora fragili, ma che fanno strada. Poi ci sono le città operaie, ‘le mucche’, che cercano di pascolare, ma che faticano ad allinearsi per una assenza di solidità di fondo e le città arretrate ‘i polli’ che rappresentano l’anello debole del sistema e operano solo in allevamento. Ci sono tanti altri animali e tante altre città. Poi ci sono ‘gli elefanti’ lenti e burocrati, ‘le lepri’ che corrono a zig zag e poi si fermano. Ferrara chi vi ricorda? Il gioco è aperto.

A parte le battute, è in elaborazione una proposta di legge a cura di una schiera trasversale di deputati che sono convinti sia ora di considerare nuovi indicatori di benessere al posto dell’ormai superato Pil. Chissà che almeno una volta la Camera ci stupisca con una legge equo sostenibile e soprattutto utile ai cittadini.

La comunicazione politica ai tempi di Twitter

Arrivo, arrivo! Era il 21 febbraio 2014 quando Matteo Renzi, futuro primo ministro, faceva sapere con un tweet che stava salendo al Quirinale per presentare a Giorgio Napolitano la lista dei ministri. L’hashtag #lavoltabuona metteva un ‘suggello’ all’entusiasmo di quel momento e inaugurava moltissime altre comunicazioni future sotto lo stesso slogan.
La comunicazione politica è, negli ultimi anni, decisamente cambiata nei tempi, nei modi e nei contenuti. Il politico apre una pagina facebook, crea un profilo twitter, interviene sui fatti del giorno, li commenta e li anticipa. Si fotografa e diffonde, si mette a disposizione nella rete, che, per definizione, amplifica e moltiplica.
La battuta del presidente del consiglio Renzi sul Rolex indossato da una ragazza durante le devastazioni di Milano all’apertura dell’Expo, ha creato una reazione a catena che ha investito il web e i media, incrociando gli interessi di un’azienda internazionale alla società dei consumi e aprendo una nuova lettura del fatto di cronaca in sé. Il teatro dello scontro è andato oltre le vie di Milano, è diventato quello dei media, dove l’azienda ha acquistato uno spazio per chiedere un intervento riparatore da parte del presidente del consiglio.
L’agenda quotidiana del giornalista viene ormai dettata da come e cosa scrive chi ha un ruolo istituzionale e lo fa attraverso canali che di istituzionale hanno ben poco. E nella rete anche il giornalista deve esserci perchè il tweet arriva prima di un comunicato stampa ufficiale, una foto può arrivare a dire molto di più di una conferenza stampa. Per quanto la politica non rinunci agli strumenti tradizionali, il web e i social network primeggiano. È cambiato, infatti, il sistema dei media, la convergenza fra più piattaforme dà modo, al giornalista e alle testate, di attingere a più fonti scritte e visive che, tuttavia, vanno maneggiate con cura.
Sul desk giunge di tutto senza nemmeno andarlo a cercare ed è per questo che la verifica delle fonti vale oggi più che mai, soprattutto perchè la troppa informazione può rischiare di diventare, per il cittadino, disinformazione. Il ruolo del giornalista, pertanto, rimane quello di intermediazione tra l’istituzione, la politica, il fatto e il destinatario della notizia. I media sono, appunto, ancora medium, mezzo di connessione e agorà pubblica privilegiata per la formazione della pubblica opinione.
La velocità e l’immediatezza di internet o la sintesi a effetto di un tweet, per quanto utili e pervasive, non potranno mai sostiuire la ricerca, la selezione e l’approfondimento che devono continuare a distinguere la professione giornalistica dal chiacchiericcio, che nulla ha a che fare con la notizia e i suoi inderogabili valori.

Dall’unione civile al matrimonio, la cattolicissima Irlanda al voto per i diritti omosessuali

DUBLINO – Tempo di referendum, si respira un aria frenetica in Irlanda. Difficile fare due passi senza che un attivista ti fermi per una chiacchierata o per porgerti un volantino od una spilla da suffragetta. Locali da ballo organizzano serate a tema, alberghi e hotel mettono a disposizione le loro halls per convegni e dibattiti, per radio non si parla d’altro. Domani (22 maggio) la popolazione è chiamata alle urne per modificare la Costituzione. “To make a long story short”, o per farla breve, se dovesse passare il “si” due persone dello stesso sesso potranno sposarsi civilmente – contrarre ufficialmente matrimonio – ed essere coperti dagli stessi diritti costituzionali di una coppia eterosessuale.
L’Irlanda ha già introdotto una forma di unione civile per coppie omosessuali nel 2010 (Civil partnership) per cercare di dare un’accenno di prima protezione giuridica ad unioni tra individui dello stesso stesso.
La comunità Lgbt ha tuttavia, e fin da subito, contestato alcuni punti oscuri di questa normativa. In particolare il fatto che i diritti acquisiti attraverso l’unione civile disciplinata cinque anni fa, non fossero “costituzionalmente garantiti” – solo i diritti acquisiti dal matrimonio hanno copertura costituzionale – e di conseguenza, eventualmente modificabili per legge ordinaria dal partito o coalizione che si dovesse trovare al governo in futuro. Insomma, il sospetto di poter divenire argomento di dibattito elettorale , o peggio, voto di scambio. La Costituzione e invece modificabile solo tramite referendum popolare. E ancora, una modifica costituzionale deve prima essere dibattuta e approvata da entrambe le Camera del Parlamento, e una volta approvata a maggioranza popolare, firmata da Presidente della Repubblica. Un iter abbastanza complesso.
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Insomma, sul tema la parola passa ai cittadini. La cattolicissima Irlanda diventerà – oppure no – l’ennesimo Paese a garantire matrimoni tra coppie dello stesso sesso in Europa dopo Uk, Lussemburgo, Francia, Danimarca, Islanda, Spagna, Portogallo, Svezia, Norvegia, Belgio, Olanda? Dal canto suo il governo non sembra volere mettere il bastone tra le ruote, l’impressione e che l’esecutivo di Enda Kenny del Fina Gael – partito che potremmo definire di area democristiana e considerato più spostato a destra in rapporto ai diretti rivali del Fianna Fáil – sia fondamentalmente favorevole alla riforma. Pubblicità governative campeggiano sui muri: “Non importa come voterai, l’importante e che tu vada a votare” oppure “Fai sentire la tua voce”.
I canali di Stato danno ampio spazio all’argomento con pubblicità informative e Talk show serali. Il ministro della Sanità, Leo Varadkar – omosessuale dichiarato – si e pubblicamente espresso a favore del “si”, con l’intenzione di rassicurare i cittadini che questa modifica costituzionale non porterà a nessuna “rivoluzione” nella società irlandese, alquanto tradizionale, cattolica e basata sul matrimonio. Anche l’ala della sinistra e radicale e apertamente favorevole al sì, in testa Sinn Fein e Labour che invitano i loro elettori ad approvare i cambi costituzionali proposti dal referendum.

Sul fronte del “no” si posizionano ufficialmente due delle quattro maggiori Chiese d’Irlanda: la Chiesa Cattolica , con tutti I vescovi sul territorio contrati ai cambi constituzionali, e la Chiesa Presbiteriana che tramite una nota ufficiale conferma la sua visione del matrimonio come istituzione siglata solamente tra uomo e donna. Poster, volantini e informazioni porta a porta sono invece organizzati dal gruppo “Mothers and Fathers matters”, appositamente creato per fare campagna al “no” sul referendum. L’argomentazione è basata sulla salvaguardia della famiglia tradizionale come unica famiglia. Ed il fatto che, se dovesse passare il si, le coppie omosessuali che contraggono matrimonio avrebbero estattamente gli stessi diritti all’adozione della coppia eterosessuale. L’accento è posto sul bambino, che necessiterebbe di crescere con una coppia eterosessuale, e con chiare figure di madre e padre. Altri dubbi sono relativi alle modifiche delle nozioni di educazioni civica che una vittoria del “si” comporterebbe nelle scuole – diventando a questo punto il matrimonio un’istituzione tra individui indipendentemente dal sesso, e legittimando questo concetto agli occhi delle nuove generazioni.

Gli ultimi polls organizzati dai maggiorni quotidiani (The Guardian, Irish Times, Irish Examiner) danno al “si” un vantaggio consistente e, anche se piu cautamente negli ultimi giorni, danno la vittoria come cosa fatta.
L’impressione e che il movimento del sì possa fare il pieno nei centri urbani, dove e impossibile non notare il gran numero di persone che esibiscono sul petto la spilla “yes equality”, esprimendo e supportando pubblicamente la loro intenzione di voto. Rimane tuttavia l’incognita dell’Irlanda rurale, tradizionale e cattolicissima, grande serbatoio del voto ‘democristiano’, piu restia ai cambiamenti e ancorata alle tradizioni.

Comunque vada, e comunque la si pensi sull’argomento, la piccolo Irlanda si pone su questa tematica come un gigante di democrazia, dimostrando la maturità necessaria per dare voce ai suoi cittadini, decidendo di fare orecchie da mercante ai moniti di uno dei sue due Re, quello che siede sul trono di Pietro, lasciandolo sì alla guida di faccende spirituali, ma prendendo in mano le proprie decisioni politiche e civili.

Per maggiori informazioni sul fronte del “NO” : http://mothersandfathersmatter.org/

Per maggiori informazioni sul fronte del “SI” : https://www.yesequality.ie/

La memoria e l’orgoglio, Putin in parata sfrutta il disprezzo dell’Occidente

MOSCA – A dominare, il manifesto inneggiante all’anniversario ispirato alla pace con la colomba bianca su sfondo azzurro e l’istituzionale nastro di san Giorgio, arancione e nero (il “georgevskaja lentočka”), che, creato ai tempi della zarina Caterina (pare con i colori dello stemma dei Romanov), è diventato il simbolo della grande vittoria nella guerra patriotica e, oggi, vi il ero simbolo nazionalista russo.

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La medaglia per la vittoria sulla Germania nazista retta dal nastro di san Giorgio

Il 9 maggio si è tenuta la grande parata militare per il settantesimo della Vittoria, in una piazza Rossa gremita e soleggiata (uno dei pochi giorni di sole del mese di maggio). Celebrazioni iniziate alle 10, con solamente il cielo azzurro in grado di tirare su il morale a un presidente colpito dalla “sanzione delle assenze dei leader occidentali”, tribune vuote nei posti degli ospiti d’onore che hanno voluto ribadire il loro dissenso verso la politica del Cremlino. L’aver partecipato a cerimonie svoltesi in parallelo e successivamente alla parata ha in qualche modo lasciato intendere che si volevano comunque tributare omaggi ai caduti della seconda guerra mondiale, quella guerra che i russi definiscono “Grande guerra patriottica”, per sottolineare, fin dal primo giorno di belligeranza, la natura difensiva ed eroica della loro entrata nel conflitto. Costretti a proteggersi dall’invasione nazista, dal tradimento di un patto di reciproca non aggressione stipulato nel 1939 tra i ministri degli esteri tedesco e sovietico, Ribbentrop e Molotov. Un ricordo, comunque, di chi si è sacrificato, di chi è caduto, senza però sedere a fianco dell’istituzione che oggi li rappresenta. La parata del 9 maggio 2015 è stata annunciata come la più sensazionale della storia. E così sembra essere stato. Qualcuno l’ha definita una dimostrazione di muscoli e una carica di retorica, fatta di patriottismo, d’inno al coraggio e allo spirito di sacrificio ma anche di superiorità rispetto al resto del mondo. Vi erano le note di Svjaščennaja vojna (Guerra sacra), la canzone simbolo degli anni bellici, lo storico vessillo della vittoria e la bandiera della Federazione russa che hanno fatto il loro ingresso sulla piazza Rossa, portate da un drappello degli otto migliori elementi del 154° reggimento Preobraženskij, una tribuna d’onore allestita ai piedi del Mausoleo di Lenin, i magazzini Gum ricoperti da cartelloni e immagini, commenti sonori che rievocava gli anni della guerra, le decappottabili tradizionali che portano i militari d’alto grado.

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Tribuna d’onore davanti al mausoleo di Lenin

La scenografia è impressionante per potenza, coordinamento, simmetrie, coinvolgimento empatico. Putin prende parola e rievoca la grandiosità della vittoria, l’orgoglio di avere vinto laforza oscura”, il glorioso contributo dell’Armata rossa nella fine del conflitto. Questo è il vero punto, il vero significato di una parata che deve andare aldilà dei disagi del momento storico attuale, delle sanzioni e dei dissensi. Il presidente russo ricorda anche tutti i popoli che hanno contribuito a fianco del russo a raggiungere la “vetta più eroica della storia”, con saluti agli stranieri che hanno contribuito alla vittoria finale, francesi, inglesi e americani (assenti) e poi cinesi, indiani, serbi, mongoli. Invita a un minuto di silenzio, per onorare la memoria di coloro che non sono tornati.

 I drappelli schierati ricevono il saluto dei comandanti
I drappelli schierati ricevono il saluto dei comandanti

Le telecamere inquadrano la fiamma del fuoco eterno sulla tomba del milite ignoto. Inizia poi la parata vera e propria, sfilano truppe di terra, mezzi e strutture di guerra e aviazione, al suono dei tamburini della scuola di musica militare moscovita, gli stendardi dei fronti che hanno segnato le tappe finali della guerra. Si susseguono rappresentanze dei vari corpi e delle varie armi, i Cosacchi del Kuban, i paracadutisti dell’operazione Crimea, i militi di Armenia, Bielorussia, Kazakistan, Tagikistan e poi dell’India, della Mongolia, della Serbia, della Cina. Tutti “amici oggi”. Ignorati gli altri (che, d’altra parte, non c’erano). La musica fa da padrona. Si riconoscono Podmoskovnye večera (“Mezzanotte a Mosca”), Katjuša (in Italia nota come “Fischia il vento”), dedicata al sostegno fornito dalle donne sovietiche durante il conflitto, Moskva majskaja (Mosca di maggio), Pesnja o trevožnoj molodosti (“Canzone della gioventù irrequieta”).

 I drappelli schierati ricevono il saluto dei comandanti
L’aviazione forma in cielo la cifra 70, tra le guglie del Cremlino.

Alle 11, le orchestre bandistiche lasciano la piazza per dare spazio alla sfilata dei mezzi e delle attrezzature militari. I carri armati sfilano in ordine cronologico, da quelli storici-sovietici ai più recenti prototipi modello “Armata”, mezzi che, si saprà dopo, danneggeranno il pavimento della Piazza, con milioni di rubli da spendere. L’aviazione da caccia forma in cielo la cifra 70, fra le aquile poste sulla sommità di due torri del Cremlino e, lasciando la scia con i colori della bandiera, chiude la manifestazione. Veterani, colori sgargianti, saluti, abbracci, commozione, lacrime, bandiere rosse, simboli sovietici, ricordi. La sera, immancabile, il “saljut”, lo spettacolo di fuochi d’artificio che evoca quello del 1945 e illumina a giorno la capitale. Quel maggio del 1945…

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La parata

Abbiamo voluto parlare di questa parata, fuori da ogni retorica e senza alcuna presa di posizione e schieramento attuale, per non dimenticare quel momento storico, per ricordare il ruolo della Russia in quel terribile conflitto. Un ruolo fondamentale e un onore al merito che non si possono negare. Un bellissimo articolo di Franco Venturini sul Corriere della Sera dell’8 maggio, intitolato “la politica dell’assenza che tradisce la storia”, ricordava proprio come la vittoria del 1945 fosse una vittoria comune sul nazifascismo e come essere alla parata di Mosca non significasse appoggiare la politica di Putin ma ricordare i 20 milioni di russi morti, senza i quali oggi l’Europa sarebbe (quasi sicuramente) diversa.

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Jurij Levitan

La parte orientale dell’Europa era stata liberata dai sovietici, ad Auschwitz le divise dell’Armata rossa erano quelle rimaste negli occhi di chi ne aveva visto spalancare i cancelli, il 27 gennaio 1945. Senza l’eroica resistenza di Stalingrado (dall’8 settembre 1941 al 18 gennaio 1944) e il lungo e vano assedio a Leningrado, dove il numero dei morti superò quello di inglesi e americani di tutta la guerra, la storia sarebbe stata un’altra. Quando l’annunciatore radiofonico Jurij Levitan aveva comunicato all’intero Paese la capitolazione nazista dell’8 maggio, firmata fra il maresciallo Georgij Zukov, il Feldmaresciallo Wilhelm Keitel e il maresciallo Arthur Tedder dell’aviazione britannica, la Mosca di Stalin esultava.

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Annuncio della resa tedesca

Un decreto del soviet supremo di quello stesso giorno, pubblicato sulle “Vedomosti Verchovnogo Soveta” (Gazzetta del soviet supremo) a firma di Stalin, istituì per il 9 maggio la festa della vittoria e stabilì che la giornata diventasse festiva. Allora come ora. Uno Stalin che non piaceva né a Churchill né a Roosevelt ma che era (ed era stato) assolutamente indispensabile per battere Hitler.

Ricordare i fatti, continua Venturini, non significa plaudere a Stalin, trascurare quanto d’inaccettabile fatto da lui e dai suoi sostenitori o, anche, sottovalutare alcuni contenuti nazionalistici della parata russa odierna. Ma il peso della Vittoria del 1945 dovrebbe prevalere. Non si può sfuggire dalla storia. Chiunque conosca la Russia, anche poco, sa che la strage della Grande guerra patriottica è ancora molto viva nelle memorie, nella psicologia collettiva. E che ciò non tollera offese. Il ricordo è vivo, lo dimostrano le molte esposizioni che ci sono ora nella capitale russa, come quella organizzata dal Museo di Mosca, che, aperta il 9 maggio, si protrarrà fino al 6 dicembre. I russi vanno e onorano.

La mostra inizia con il 22 giugno 1941, quando scatta l’Operazione Barbarossa e la Wehrmacht attacca dal Baltico al Mar Nero. In novembre-dicembre Hitler perde la battaglia di Mosca e la campagna di Russia (dell’Unione Sovietica, allora, per la precisione). E’ l’inizio di uno scontro di logoramento che la Germania perderà. Mentre i moscoviti si preparavano al Natale, trasportando, nella neve, i pini da addobbare, le barricate si mescolavano con le tavole preparate per il tè della sera, con il suono gracchiante del grammofono e quello più duro e forte della radio. Era freddo, come sempre in quel periodo, i battaglioni sfilavano per le strade della capitale. Si resisteva. Il gelo avrebbe aiutato anche questa volta, come aveva fatto con Napoleone.

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Le fotografie dell’epoca esposte ricordano famiglie e caduti, uomini e donne, la storia di un popolo che non dimentica i suoi eroi. Ci sono poi i sacchi delle trincee, fra i quali scorrono i filmati dell’epoca, i ricordi dei bombardamenti, scene tragiche di freddo e morte. Non mancani i manifesti dell’epoca e molte fotografie in bianco e nero.

In mezzo a tutto, svetta l’inquadratura sullo storico vessillo della vittoria (znamja pobedy), quello che aveva sventolato sul Reichstag di Berlino una bandiera, ricavata da una tovaglia rossa, stante l’impossibilità di trovare, nella città devastata, un autentico gonfalone sovietico. La memorabile fotografia fu scattata dal fotografo di guerra Evgenij Chaldej, dopo avere costruito la scena, a battaglia terminata.

Non si possono guardare quelle immagini e non ricordare una tragedia della storia che ha colpito la Russia così come gran parte dell’Europa. Italia in primis, che ne è uscita distrutta. Non si possono rinnegare quei morti per la libertà. Una tavola ricorda il valore del pane. Quel pane per cui si è combattuto. Il disprezzo occidentale verso quei 20 milioni di morti russi è, poi, quasi un regalo alla propaganda interna di Putin, conclude Venturini. Qualunque sia la riflessione finale che ciascuno voglia sposare e condividere, resta il fatto che il vero danno oggi, di quell’assenza occidentale, non è solo alla storia e al suo senso ma anche alla vera politica. Ci vogliono statisti capaci di affermare il senso della storia. Ma, all’orizzonte, non se ne vedono.

Fotografie di Simonetta Sandri, mostraCittà dei vincitori”, presso il Museo di Mosca, dal 9 maggio al 6 dicembre 2015.

Crystal Palace, gioiello dell’architettura in vetro e acciaio del primissimo Expo

Se si parla di Expo si è immediatamente indotti a pensare a Milano 2015. E’ invece il ricordo dell'”Expo delle Meraviglie” che voglio recuperare. Fu l’evento internazionale all’interno del quale venne progettato il Crystal Palace o il Palazzo di cristallo, costruito per celebrare nel piὺ fastoso e florido clima vittoriano la prima grande Esposizione universale.
“The great exhibition of the works of industry of all nations”, promossa dalla Royal Society of Arts come celebrazione delle moderne tecniche industriali, invenzioni e merci inaugurata dalla Regina Vittoria, si tenne a Londra a Hyde Park dal 1° maggio all’ 11 ottobre del 1851.

crystal-palace-expoIl Crystal Palace, un insieme di meraviglie estetiche e tecnologiche per il tempo, è il primo e monumentale fabbricato per certi versi rivoluzionario nel concetto architettonico e nei materiali utilizzati. Prende vita e forma all’interno di un contesto economico e sociale, europeo e mondiale, in profonda trasformazione grazie al contributo di eventi rilevanti come l`affermarsi e la crescita dell’industrializzazione inglese e centro-europea e la pubblicazione nel 1848 del Manifesto di Karl Marx e Friedrich Engels.
Il team di progettisti della struttura capitanati dall`architetto Joseph Paxton, giardiniere costruttore di serre, si misurò nella realizzazione dell’opera in tempi brevi, nove mesi, per un progetto fuori dagli schemi architettonici fino ad allora imperanti, e attraverso l’utilizzo in tutta la costruzione di due materiali allora sostanzialmente all’esordio della loro carriera d’utilizzo per fabbricati con quella destinazione: l’acciaio e il vetro.

crystal-palace-expoIl Crystal Palace è l’icona per antonomasia di una nuova modalità di progettare, per diversi osservatori apripista dellapoetica della leggerezza e della trasparenza”, la Glasarkitektur, un vero capolavoro di ingegneria ispirato se vogliamo alle grandi serre e che ebbe un intenso seguito e grande fortuna con le architetture che ancora oggi ammiriamo nelle stazioni ferroviarie e nelle eleganti gallerie urbane delle più importanti città italiane ed europee. Evitato l’impiego di pietre e di mattoni Paxton decide di guardare con grande fiducia e coraggio al materiale trasparente per eccellenza, da utilizzare per l’involucro esterno, nelle coperture e nelle pareti verticali: il vetro, sostenuto perimetralmente da una struttura portante leggera in acciaio ed incidendo profondamente nel rapporto fra esterno e interno della realizzazione.
Il Crystal Palace conteneva l’Esposizione universale con padiglioni espositivi, percorsi e servizi in genere per i visitatori, quindi il vetro avrebbe dovuto consentire un rifornimento consistente di luce in quanto all’interno erano ubicati oltre ai materiali esposti negli spazi dedicati, anche alti alberi e una grande quantità di piante che in questo modo potevano vivere e crescere all’interno degli spazi espositivi.

crystal-palace-expoTutte le lastre in vetro erano modulari, ne furono impiegate quasi 84.000 metri quadrati pari a 260.000 lastre in vetro piano di sei millimetri di spessore per una formato circa di un metro per tre, la dimensione massima producibile in quel momento storico e corrispondente ad un terzo della produzione vetraria inglese, la più importante quantitativamente in quel tempo nel mondo. Per fare un confronto comprensibile e sottolineare l’ardita scelta dei progettisti di allora, nel rivestimento esterno in vetro della torre Burj Khalifa a Dubai alta 830 metri e costruita 150 anni dopo sono stati impiegati quasi 170mila metri quadrati di vetro.

crystal-palace-expoMa un triste destino attendeva questo gioiello dell’architettura in vetro e acciaio. Ultimata l’Esposizione, l’intero edificio fu smontato nei suoi singoli componenti, (in analogia a ciὸ che è previsto per i padiglioni a Expo Milano 2015), trasportati con autotreni e rimontati in un altro luogo a sud di Londra, Sydenham Hill, che dal 1852 divenne la nuova ubicazione del gigante trasparente, sede di altre manifestazioni e attività. Il 30 novembre 1936 un furioso e disastroso incendio distrusse completamente l’edificio; le cronache del tempo descrivono così l’accaduto: “Di notte, luce e fumo potevano essere riconosciuti a chilometri di distanza”. Si chiudeva nel modo più drammatico la meteora del Crystal Palace, la fine di un`epoca si disse, la più spettacolare creatura di Joseph Paxton e del tempo, che aveva ospitato 28 nazioni di tutti i continenti con oltre tredicimila oggetti esposti e con la partecipazione di sei milioni di visitatori provenienti da tutto il mondo.

Bahamas, dietro la cartolina l’isola dei cristiani e degli obesi

“Bahamas”, già il nome fa venire voglia di vacanza e di mare. Visitare questo vastissimo arcipelago del Centro America, composto da circa 700 isole, di cui solo una trentina abitate, è desiderio di molti. Di recente sono stata a Grand Bahama, la più settentrionale delle grandi isole del Paese, e da quando sono rientrata in Italia desidero solamente una cosa: tornarci.
Atterrata al piccolo e tipicamente coloniale aereoporto di Freeport, il tempo non era dei migliori, il meteo aveva previsto una settimana di pioggia, ma ho presto imparato dai locali che il clima delle Bahamas è pazzo. Le isole risentono infatti della vicinanza del Tropico del Cancro e dell’influenza della corrente del Golfo, che fa sì che la temperatura del mare si aggiri sempre intorno ai 25-26 gradi. Il clima è tropicale, caratterizzato quindi solamente da due stagioni, invernale ed estiva. Io sono stata alle Bahamas ad aprile, durante il periodo umido: chi si lamenta dell’umidità di Ferrara non dovrebbe recarsi in questo paradiso nei mesi di maggio-giugno, periodo in cui inizia anche il pericolo di tornadi.

Per chi ama le spiagge bianche e il mare cristallino allora le Bahamas sono la meta di destinazione ideale. Il turismo è infatti una risorsa fondamentale per il Paese, la principale fonte economica dell’intero arcipelago. C’è chi vi si reca per visitare la capitale, Nassau, e le principali città del territorio come Freeport, West End e Coopers Town, perchè ogni cittadina è legata al passato da una storia personale e piuttosto unica; c’è chi invece sceglie le Bahamas per le molteplici attività acquatiche che è possibile praticare, come lo snorkeling, le immersioni nella barriera corallina, le gite in barca o il kayak in mezzo alle mangrovie; c’è anche chi va alle Bahamas per giocare a golf o a tennis, per lo shopping o per i Casinò; e infine chi, come me, vi si reca per godere dei panorami che l’arcipelago offre, per le passeggiate su soffici spiagge bianche, per le albe e per i tramonti.

Le Bahamas, pur essendo ex colonia inglese, sono isole dell’America Centrale e di essa rispecchiano un aspetto in particolare, l’alimentazione. Il tasso di obesità è molto elevato, sia tra la gente locale, sia tra i turisti che vi soggiornano. Gli alberghi definiscono i propri ristoranti “internazionali”, ma ciò che va per la maggiore sono hamburger, hot dog, pizza e patatine fritte.
Ricordo di aver visto clienti dell’hotel mettere nello stesso piatto uova, bacon e pancake al cioccolato. E’ vero che ognuno ha i propri gusti, ma le conseguenze di tale alimentazione sono gravi ed evidenti. L’aspetto positivo di queste persone in sovrappeso è che non si preoccupano minimamente di ciò che gli altri possono pensare di loro; lo si intuisce dal modo in cui si vestono e da come si atteggiano. Che per loro sia un problema o meno, la problematica resta: l’obesità in America raggiunge picchi preoccupanti.


Grand Bahama è un’isola che offre moltissimo, sia dal punto di vista naturalistico che culturale.
Nel Parco Nazionale della cittadina di Lucaya si può visitare una delle più grandi caverne sottomarine del mondo. Questo è un luogo molto importante per la storia dell’isola: nelle grotte e nel parco furono infatti rinvenuti numerosi teschi e manufatti delle antiche tribù che per prime si stabilirono a Grand Bahama. Altro sito archelogico importantissimo per l’isola è Deadman’s Reef, punto ideale per lo snorkeling. E’ un’isola meravigliosa dove mi è capitato di vedere una razza a tre metri dalla riva, dove si può nuotare con i delfini o, per chi è in cerca di adrenalina, immergersi con gli squali.
Il Giardino delle Mangrovie invece permette di esplorare una sorta di labirinto tra vegetazione esotica e nativa, stagni, cascate e numerose specie di uccelli e farfalle.
L’Heritage Trail è invece un percorso di 5 miglia che una volta veniva utilizzato per i principali trasporti dell’isola. Successivamente abbandonato, la natura ha fatto il suo corso e oggi ospita una vastissima varietà di fauna e flora rigogliosa.

Ma l’isola merita di essere visitata anche per la sua cultura e le numerose gallerie d’arte con tipici dipinti, come quelli dell’artista locale Leo Brown, che raffigurano la vita dei bahamensi. Il luogo ideale per immergervisi è il mercato di Port Lucaya, una baia piena di ristoranti, bar, pub, negozi con marche internazionali e bancarelle locali. Port Lucaya Marketplace è una zona coloratissima dove si incontrano persone di ogni nazionalità, dove si possono ammirare splendidi yacht ancorati al porto e comprare diamanti a prezzi estremamente convenienti.

Altro elemento caratteristico dell’isola sono le tante chiese dislocate su tutto il territorio. Il 90% della popolazione è infatti cristiano. Ogni volta che passeggiavo lungo la spiaggia del resort in cui ho soggiornato, mi fermavo ad ammirare una chiesetta con una torre fatta di pietre arrotondate e all’improvviso mi sentivo fuori dal mondo. Un luogo di culto a pochissimi metri dalla riva del mare ha decisamente qualcosa di magico che ti fa sentire libero, spensierato, in pace con il mondo.
Grand Bahama è l’isola ideale per rilassarsi, ma anche per divertirsi e festeggiare con gli abitanti locali. Oltre a celebrare le principali ricorrenze dell’America, due date sono molto importanti per i bahamensi: il 10 luglio si festeggia l’indipendenza delle Bahamas dalla Gran Bretagna, mentre il 1° agosto è noto come il Giorno dell’Emancipazione: il 1834 è infatti l’anno che marca la fine della schiavitù nell’Impero Britannico.

Vi sono inoltre molti eventi locali, come gli “Spettacoli Nativi” che si tengono a Port Lucaya, con danzatori, giochi con il fuoco e performer di diverse arti. Ma il più importante e noto, dal punto di vista culturale e storico, è il “Junkanoo Festival”, una sorta di carnevale che rimanda all’era pre-emancipazione: agli schiavi venivano dati 3 giorni di libertà durante i quali si travestivano e festeggiavano andando di casa in casa. La ricorrenza viene celebrata sia il 25-26 dicembre e il 1° di gennaio, sia nel periodo estivo da metà luglio a metà agosto. A East Mall Drive si tengono sfilate con maschere e costumi tipici e coloratissimi, tamburi, fischietti, campanacci, trampoli, il tutto accompagnato da musica indigena.

Grand Bahama è davvero una meta in grado di soddisfare tutti i gusti. Per chi ama l’architettura, sull’isola si possono trovare strutture molto diverse tra loro, dalle casette in legno tipicamente locali che costeggiano le strade, ai villagi dei pescatori, fino alle ville super lussuose costruite soprattutto sulle spiagge. Percorrendo i chilometri di sabbia, a destra e a sinistra dell’hotel in cui ho trascorso una meravigliosa vacanza, ricordo di essere rimasta scioccata nel passare davanti ad una delle “case” di Jhonny Depp, ma soprattutto nel vedere la residenza dell’attore statunitense Jamie Foxx, più simile a una reggia che a una villa.
Parchi nazionali, tesori ecologici incontaminati, grotte sottomarine, immersioni, eco-avventure, jeep safari ed escursioni in mountain bike; storia, cultura e tradizioni che si fondono in un mix vincente; spiagge infinite e acque color verde-smeraldo in grado di togliere letteralmente il fiato. Una vacanza meravigliosa, un luogo che consiglierei a chiunque, una meta che merita di essere visitata, almeno una volta nella vita.

IMMAGINARIO
Antichi fasti.
La foto di oggi…

Il profilo Instagram del Comune, @comunediferrara, ha una nuova amministratrice: Paola Coluzzi, @paolaire, che ha partecipato alla selezione per #MyFerrara, ed ora per una settimana pubblicherà le sue foto di Ferrara.

Questo il post di Paola sulla prima foto che ha scelto.

“Ciao a tutti, ecco la mia prima foto: Villa Melchiorri in viale Cavour, bellissimo esempio di stile Liberty a Ferrara. Magari aver partecipato alla festa di inaugurazione che sicuramente la famiglia avrà organizzato…”.

Infatti è così. Il 30 luglio 1904, lo stesso anno in cui il villino fu costruito dall’ingegner Ciro Contini, i proprietari – il floricoltore Fernando Melchiorri e la moglie Giuseppina Marchi – inaugurarono il negozio-residenza con un avvenimento mondano e d’importanza culturale tale che sia i giornali di cronaca nazionali che quelli specialistici d’arte ne parlarono, come pure la rivista «Architettura italiana» nel 1905.

A questo proposito c’è un interessante approfondimento sulla villa, sul sito Italia Liberty [leggi].

Questa la presentazione di Paola, di cui per una settimana pubblicheremo gli scatti.
Di se stessa dice che le piace guardare i tramonti, stare in compagnia di gente allegra, mangiare pesce fritto bevendo birra ghiacciata e dormire sul divano in una giornata piovosa; le piace abbracciare il suo cavallo, avere paura mentre legge un libro giallo e sapere di avere sempre due persone speciali da cui tornare a casa la sera. E le piace Ferrara, dove è nata e cresciuta.
Noi le auguriamo buon divertimento!
#MyFerrara #comunediferrara #igersferrara #Ferraraitalia #Ferrara

L’idea di #MyFerrara è nata all’interno dell’Agenda Digitale per avvicinare i cittadini alla pubblica amministrazione attraverso i social network. Tutti possono partecipare, su Cronaca Comune, il quotidiano on line del Comune, tutte le informazioni [leggi].

OGGI – IMMAGINARIO MYFERRARA

Ogni giorno immagini rappresentative di Ferrara in tutti i suoi molteplici aspetti, in tutte le sue varie sfaccettature. Foto o video di vita quotidiana, di ordinaria e straordinaria umanità, che raccontano la città, i suoi abitanti, le sue vicende, il paesaggio, la natura…

[clic sulla foto per ingrandirla]

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foto di Paola Coluzzi
foto di Paola Coluzzi

ACCORDI
Lindbergh.
Il brano di oggi…

lindfossOgni giorno un brano intonato a ciò che la giornata prospetta…

(per ascoltarlo cliccare sul titolo)

Ivano Fossati – Lindbergh

Dopo 33 ore di viaggio ai 188 km/h di media, il 21 maggio del 1927 il venticinquenne Charles Lindbergh sorvolava la Tour Eiffel di Parigi e scriveva la storia: egli fu infatti il primo a completare una trasvolata atlantica senza scalo, dando così il via all’epoca d’oro dell’aviazione. Un’impresa leggendaria e insperata, alla quale Ivano Fossati nel 1992 dedicò uno dei suoi album più belli, Lindbergh – Lettere da sopra la pioggia, contenente il brano omonimo all’aviatore svedese.

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