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Mese: Dicembre 2013

Gian-Battista-Giraldi-Cinzio

Giraldi Cinzio, l’ispiratore dell’Otello di Shakespeare

GIAMBATTISTA GIRALDI CINZIO
a 440 anni dalla morte

Giambattista Giraldi Cinzio (1504-1573) fu un convinto aristotelico, cioè fautore del metodo analitico nella critica d’arte, si dedicò prevalentemente al teatro sia come autore che come critico e precisò il proprio pensiero al riguardo nel suo fondamentale Discorso intorno al comporre de i romanzi, delle commedie, delle tragedie e di altre maniere di poesia (1554). In particolare, le tragedie composte fra il 1541 e il 1562: Orbecche, Didone, Cleopatra, Antivalomeni, Eufimia, Epitia, Selene e Arrenopia, influirono in modo determinante sugli orientamenti letterari del tempo, infrangendo lo stile armonioso dell’umanesimo rinascimentale e instaurando un nuovo e più rigido classicismo. Basti pensare al sensibile influsso, nell’Orbecche e in altre tragedie, delle truculente atmosfere senechiane, dalle quali derivano il gusto dell’orrore e la predilezione per gli argomenti di sangue e di vendetta.
Giraldi Cinzio si cimentò inoltre con altri generi letterari, scrisse ad esempio una (ancor oggi) studiatissima favola drammatica, la famosa Egle (1545), nonché un poema: L’Ercole (1557), sfortunatamente non molto ben riuscito. Particolare successo ebbero gli Ecatommiti (1565), una silloge di centotredici novelle o racconti, in cui risultano evidenti il moralismo controriformistico dell’autore, il suo afflato neoclassico e la sua tendenza al “grandioso” e allo “smisurato”, quantunque non manchino qua e là pagine di sobria ma al contempo penetrante narrazione.
L’Orbecche, del 1541, è la più conosciuta tragedia di Giambattista Giraldi Cinzio. Composta in endecasillabi sciolti, è considerato il primo dramma moderno, di ispirazione classica, che si configuri suddiviso in atti e scene. La spaventosa vicenda, che attinge alla tipologia senechiana, è ambientata in Persia, dove la protagonista: la principessa Orbecche figlia del re Sulmone, sposa segretamente Oronte. Dall’unione nascono due bambini, però il matrimonio viene scoperto allorché il sovrano dispone che la figlia si sposi, scatenando la terribile ira di questi. Al cospetto di Orbecche vengono portate le membra straziate dei figli e la testa decapitata del marito Oronte, allora la donna si vendica uccidendo il padre Sulmone e poi espia il proprio delitto togliendosi la vita.
«La commedia pastorale nasce – scrive lo storico del teatro Giovanni Antonucci – quando la commedia rusticale mostra tutti i suoi limiti e le sue ambiguità di spettacolo “misto” e non ben definito. Ancora una volta è Ferrara a vedere la nascita del nuovo genere con la Egle di Giambattista Giraldi Cinzio, che rappresenta una vera e propria svolta con il suo recupero del dramma satiresco euripideo». Infine, forse non tutti sanno che l’Otello di Shakespeare «deriva da Giraldi Cinthio, – scrive l’esperto di teatro anglosassone Masolino d’Amico – il cui racconto per ragioni di ritmo drammatico è stato compresso in una sequenza serrata di pochi giorni».

Tratto dal libro di Riccardo Roversi, 50 Letterati Ferraresi, Este Edition, 2013

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“Winter Wonderland”, a natale in Fiera il parco divertimenti al coperto più grande d’Italia

La magia del Natale, tradizionale festa dei più piccoli, si sposa quest’anno con il fascino del divertimento delle giostre, che i bambini potranno godere al caldo e al riparo dalle intemperie. Per la prima volta infatti a Ferrara il luna park sarà ospitato all’interno dei padiglioni della fiera, aperti da oggi sino al 6 gennaio, per tutto il periodo delle festività.
A “Winter Wonderland – Natale in Giostra”, il parco divertimenti al coperto più grande d’Italia, c’è tutto ciò che appartiene alla tradizione e che è impresso nei ricordi d’infanzia di ciascuno: nella casa di Babbo Natale – informano gli organizzatori – i bambini potranno farsi fare una foto ricordo con il vecchio Santa Claus e soprattutto consegnarli la famigerata letterina. Negli oltre ventimila metri quadrati della kermesse saranno funzionanti tutte le attrazioni: dal truccabimbo alla babydance, dalle montagne russe alla nave dei pirati dei caraibi, dall’autoscontro al brucomela, dal tagadà al castello incantato, dalla piovra allo shuttle e allo space star, fino al trenino del far eest e al cinema 5D.
Tra i numerosissimi appuntamenti in programma si segnalano la maxi tombola da 5mila euro in calendario a santo Stefano, il veglione di capodanno, che il pubblico potrà trascorrere in fiera tra musica, cucina e divertimento, e i voli in mongolfiera che, con la collaborazione del Ferrara balloons festival, sarà possibile effettuare decollando dal piazzale adiacente al quartiere fieristico.
Ci sarà spazio per la comicità di Andrea Poltronieri, che si esibirà del “Poltro Show” sabato 4 gennaio, mentre la grande festa di chiusura sarà coronata da un emozionante spettacolo pirotecnico. Ma non finisce qui: nel ricco programma di Winter Wonderland troveranno spazio anche spettacoli di burattini e di magia, concerti, feste a sorpresa, il circo, i personaggi dei cartoni animati, senza contare le animazioni quotidiane all’insegna della baby dance e del face painting.
Nell’area ristorazione il pubblico potrà scegliere tra un’ampia gamma di stand e specialità, comprese le bancarelle con i dolci tipici di Natale. “Winter Wonderland – Natale in Giostra” sarà aperto tutti i giorni festivi e prefestivi dalle 11 alle 24; dalle 15 alle 22 nei giorni feriali; a Natale dalle 15 alle 24 e a Capodanno dalle 11 alle 3. Il biglietto giornaliero intero costa 4 euro, mentre quello ridotto consente di entrare in Fiera a soli 3 euro e dà diritto a un buono di 2 euro da spendere nelle varie attrazioni presenti.

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Troppe auto in sosta nella ztl? Colpa di Musa [audiointervista al sindaco]

La zona a traffico limitato sembra negli ultimi tempi sempre più permeabile a veicoli d’ogni tipo: quelli dei residenti, quelli degli artigiani e dei manutentori, quelli dei commercianti e di coloro che svolgono attività nelle aree precluse al transito, quelli dei disabili, quelli di addetti al carico-scarico merce… Insomma, ognuno con la propria giustificazione transita indisturbato nelle arterie del centro storico, persino quando c’è mercato. Non solo, ma nella zona monumentale sono troppe pure le auto in sosta in piazza Savonarola, dove i taxisti sono tornati a stallo in doppia fila, dopo che anni fa l’Amministrazione ne aveva contingentato la presenza, inoltre, specie nelle ore serali, in corso Martiri quando ci sono spettacoli al teatro e in via Cairoli.
Abbiamo approfittato della tradizionale conferenza stampa di fine anno per porgere al sindaco, al termine dell’incontro con i giornalisti, un interrogativo circa le sue intenzioni in merito. Tiziano Tagliani ha riconosciuto che c’è un problema legato alla sosta, affermando che, paradossalmente è conseguenza dell’introduzione del sistema di sorveglianza automatica Musa: “Avendo posto i varchi sotto il controllo delle telecamere, abbiamo progressivamente ridotto la presenza di vigili nell’area pedonale. Questo probabilmente ha indotto qualcuno ad approfittarne per fermare l’auto di notte anche dove non è consentito”.
La risposta integrale del sindaco è nel file audio “sindaco-ztl” caricato qua sotto.

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A teatro l’abominio del fascismo e il tragico silenzio degli indifferenti

Le parole dei conniventi, il silenzio degli indifferenti. Per entrambe il medesimo biasimo e un’uguale condanna. Fabrizio Gifuni ha portato sul palco le nefandezze del fascismo e la sua deriva razzista. L’opera è scandita da cinque emblematici momenti di rappresentazione racchiusi fra prologo ed epilogo: gli anni del manganello, arte e religione, questione di razza, gli anni dell’impero, l’abominio.
A far da filo conduttore a “Gli indifferenti, parole e musiche da un ventennio”, in scena al Teatro comunale di Ferrara sino a domani (sabato 21), sono appunto testi scritti da epigoni del regime, con il contrappunto delle parole degli oppositori. L’incipit è di Raffaello Ramat, critico letterario che nell’agosto del 1943, all’indomani del Gran Consiglio del fascismo che esautorò Benito Mussolini ma prima del tragico 8 settembre, riferisce di una situazione “non so più se tragica o grottesca in cui milioni di uomini acconsentirono di obbedire ad un branco di ladri e di avventurieri sapendo che essi erano avventurieri e ladri, e non riuscivano a sperarne la liberazione se non da forze esterne a loro. Bisogna dire chiaramente che di questo avvilimento generale una classe sopra a tutte è responsabile: quella degli scrittori. Invito i giovani a rileggere i giornali degli anni scorsi e a fare raccolta di pagine di viltà: ma non per riderci, si per piangerci sopra”.
Il servilismo richiamato da Ramat è demolito da un incisivo epitaffio coniato da Arturo Toscanini (costretto all’esilio per avere rifiutato di eseguire uni degli inni fascisti, Giovinezza) per spiegare che “la schiena curva è conseguenza di un’anima curva”. La viltà dell’indifferenza è stigmatizzata con disprezzo da Antonio Gramsci: “Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti”.
Fra il prologo di Ramat e l’epilogo di Gramsci è contenuto l’atto di accusa del fascismo, basato principalmente su un collage di parole pronunciate dai suoi compiacenti servitori, complici del regime e perciò colpevoli dei suoi abomini: intellettuali, docenti universitari, musicisti, artisti, magnificamente interpretati da Gifuni che dello spettacolo è anche regista. Ed ecco idealmente sfilare in parata, evocati dalle letture dal palco e accompagnati dalla musica del pianoforte di Luisa Prayer e dalla voce del mezzosoprano Monica Bacelli, il maestro d’opera Pietro Mascagni, il pedagogista Giovanni Gentile (per il quale parole e manganello sono strumenti egualmente validi per persuadere le coscienze della bontà d’un concetto), Guido Visconti di Modrone, un giovane e sprezzante Indro Montanelli e una moltitudine d’altre tristi anime curve.

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Quando i bambini non fanno “oh”

Osteoporsi: è una condizione per cui lo scheletro, a seguito di una significativa perdita di massa ossea causata da fattori nutrizionali e/o metabolici, è più fragile e poroso e quindi più soggetto al rischio di fratture.
Calcio: è il sale minerale più rappresentato nel corpo umano, soprattutto nello scheletro. È anche un gioco fra due squadre di undici giocatori che cercano di calciare un pallone dentro la porta avversaria.
Non mi pare esistano ricerche scientifiche che finora abbiano messo in relazione l’osteoporosi, o altre malattie a carico delle ossa, con la scarsa assunzione di calcio da parte degli esseri umani… almeno di quel calcio, inteso come gioco di squadra.
Sto cominciando a credere però che un apporto quotidiano sovrabbondante di “quel” calcio possa creare, in molti soggetti, vari tipi di dipendenze e manifestazioni patologiche; ad esempio: infiammazione del linguaggio, incontinenza dei toni, ipertensione emotiva, insufficienza cronica del rispetto, pigrizia critica volgare fino ad arrivare alla frattura dei freni inibitori, all’arresto dell’oggettività e alla conseguenza dell’ultimo “stadio”: la stupidità congenita.

Devo premettere ancora una volta un mio limite: osservo le questioni di sport da un retroterra rugbistico e quelle di calcio, in particolare, da un punto di vista “Internazionale”.
I fatti a cui intendo riferirmi sono questi: la Federazione Italiana Gioco Calcio ha deciso di far chiudere le curve degli stadi i cui tifosi si siano resi responsabili di cori offensivi o razzisti ai danni dei giocatori o dei tifosi avversari.
È successo a varie squadre ed ultimamente anche alla Juventus.
La blasonata società bianconera ha pensato bene di rimediare a tale danno invitando i bambini a riempire le curve, lasciate libere dai tifosi.
I bambini, come sanno bene coloro che si occupano di pubblicità, suggeriscono tenerezza, rimandano un’idea di candore, di spontanea ingenuità, di bellobuonogiustopulito.

Ebbene la prima partita con oltre dodicimila bambini in curva nord è stata Juventus Udinese del primo dicembre 2013.
Riporto un breve articolo dal giornale del giorno dopo:
“Ammenda di 5 mila euro alla Juventus per i cori dei giovani tifosi di domenica nel corso del match contro l’Udinese. Lo ha deciso il Giudice sportivo esaminando le gare dell’ultimo turno. La società bianconera paga «per avere suoi (giovanissimi…) sostenitori rivolto ripetutamente ad un calciatore della squadra avversaria un coro ingiurioso». I bambini hanno più volte urlato «Merda!» all’indirizzo del portiere dell’Udinese Brkic.”

La cosa non sembra aver interessato molto né i giornali sportivi e nemmeno la società bianconera che ci ha riprovato domenica scorsa, 15 dicembre, insistendo sui bambini.
Riporto uno stralcio dal giornale del giorno dopo:
“I 5000 euro di multa dopo Juventus-Udinese non sono serviti: anche contro il Sassuolo non sono mancati i cori “Oh… Mer-da” dei baby-tifosi juventini all’indirizzo del portiere avversario. Al primo rilancio dal fondo di Gianluca Pegolo, dalla curva nord (quella degli adulti) si è levato il coro. Al suo secondo rilancio si sono uniti anche i bambini, dalla sud. E così si è continuato, sebbene il clima non sia stato teso, quasi ad ogni rilancio, anche dopo il gol di Tevez”.
Massimo Gramellini su La Stampa all’indomani di Juventus Udinese si chiedeva ironicamente: “Ma da chi mai avranno imparato, le creature innocenti, a irridere il rivale anziché applaudirlo calorosamente? ”
Non voglio usare il mio punto di vista “Internazionale” e credo che ciò che è successo a Torino avrebbe potuto succedere anche ad altre società (ma è ovvio che chi vuol far crescere una sana cultura sportiva, deve cominciare a coltivare bene certi Campus).
Non voglio neanche entrare nel merito delle decisioni della giustizia sportiva che sceglie di chiudere le curve degli stadi per cori offensivi o razzisti dei tifosi…. anche se mi scappa da immaginare che, se la stessa sanzione venisse applicata in Parlamento, i banchi della Lega Nord sarebbero spesso vuoti e senza dubbio quello del deputato Gianluca Buonanno sarebbe perennemente deserto.

Visto che anche lo sport è veicolo di valori mi interesserebbe conoscere, da chi si occupa di calcio, la propria opinione sulla frase del pedagogista Bruno Ciari: “È assolutamente superfluo dire che la formazione di attitudini e di valori etici non può derivare dal verbalismo predicatorio, dai racconti edificanti, dalle chiacchiere. Le attitudini, i valori etici, in quanto di natura pratica, non possono che nascere da un modo di operare e di vivere”.
Ho contribuito alla intitolazione della scuola in cui lavoro a Bruno Ciari pertanto conosco e mi riconosco nel suo pensiero.
Vorrei sapere però se, ed in che modo, le società calcistiche si pongano il problema della trasmissione di certi valori sapendo che stiamo vivendo in una società spietatamente competitiva e ciecamente egoista; come affrontano il tema del tifo (per la propria squadra e basta o anche contro l’altra?), della correttezza (solo in campo o anche fuori?), del rispetto (dei propri compagni o anche dell’avversario, dell’arbitro, degli spettatori), della competizione (il sano agonismo o le simulazioni e le furbizie?), del modello sociale che lo stereotipo del calciatore professionista rappresenta (veline, fuoristrada, creste e tatuaggi oppure serietà, impegno e solidarietà?).

Di ciò che è successo a Torino ne abbiamo parlato in classe e, dopo una lunga discussione comune, gli alunni di quarta elementare pensano che quei bambini in curva a Torino abbiano usato le “parolacce”: perché si credevano più forti se le dicevano in tanti, per infastidire il portiere avversario, perché erano “gasati” e volevano vincere, per far perdere la concentrazione al portiere, perché erano arrabbiati, per far arrabbiare gli altri, perché gli altri imbrogliavano, perché gli altri facevano i falli, perché le sentivano dai grandi, per sfogarsi, perché avevano finito la pazienza, perché erano arrabbiati per altri motivi, per fare “scena”.

I bambini poi pensano che una parolaccia sia: una brutta parola, una parola che offende, un modo volgare di parlare, un insulto, un modo per prendere in giro gli altri, un’offesa contro gli altri per qualcosa che hanno detto, fatto o che rappresentano, una protesta, una parola non piacevole, una parola per far arrabbiare, una parola che vuole ferire, una cosa brutta sugli altri per farli piangere, un pensiero che fa dispiacere.

In conclusione, a loro sarebbe piaciuto molto giocare in quello stadio ma non avrebbero affatto gradito quel coro offensivo.
Nonostante la mia età, non sono così demodè da non ricordare che il bisogno di emulare i grandi c’è sempre stato e sempre ci sarà (anche se non ricordo che quando giocavano a pallone da piccoli, per le strade o nei campetti, qualcuno di noi indossasse il sospensorio sopra alla maglia per assomigliare a Jair); quello che però è cambiato nel tempo è il contesto sociale di riferimento.
In questo contesto, io penso che certi valori, se ci si crede, occorre praticarli con pazienza, lentezza, dedizione e convinzione.

Non bisognerebbe invitare appositamente i bambini allo stadio per far sembrare pulito quell’ambiente se, in realtà, si chiede loro di esserci per nascondere lo sporco sotto al tappeto.
Non bisognerebbe farlo perché altrimenti gli si insegna l’ipocrisia.
Non bisognerebbe farlo perché poi i bambini, imparando quello che vivono, non mentono.
Solo con un ottimo impegno ed un buon investimento in istruzione ed in educazione, da parte di tutti coloro che ci credono e che si ritengono interessati, si possono cominciare a fare davvero certi tipi di pulizia.

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L’elogio all’utopia di uno scomodo comunista libertario

Andrei Platonov è stato uno dei più grandi, e misconosciuti, scrittori russi del Novecento: odiato da Stalin, venne imprigionato, ma era un comunista vero e alla cultura destrorsa dell’occidente non serviva per propagandare l’anticomunismo viscerale di tipo maccartista che dominava il mondo al di qua della cortina di ferro. Era un comunista libertario, una specie da evitare come la peste. Il suo capolavoro, “Il villaggio della nuova vita”, pur tradotto in italiano ed editato da Mondadori e, se non ricordo male, da Rizzoli, morì dimenticato sulle scansie delle librerie, sepolto sotto le macerie di una letteratura molto spesso d’accatto. Non doveva essere letto e amato dagli italiani, non si sa mai. Ma il suo fantastico racconto è sempre più inesorabilmente attuale. Narra di un uomo, il quale non accetta la fine della rivoluzione d’ottobre e parte alla ricerca di quella che chiama la sua fidanzata, Rosa Luxemburg, morta – secondo questo matto protagonista- soltanto per la propaganda capitalista. Parte in groppa al suo cavallo dal nome emblematico di Forza proletaria: non arriverà mai a trovare la Luxemburg, ma giungerà in un paese anarchico ai confini delle Russie, dove la gente, in barba alla stupida burocrazia, ogni giorno cambia posto alla propria casa ambulante: qui, in questo nuovo mondo, nuovo e libero, si fermerà. E’ chiara la matrice utopistica del romanzo, ma senza utopie l’uomo dove finirà? Ho ripensato a Platonov leggendo di quella povera donna polacca morta di freddo qui a Ferrara, sotto un ponte, anche lei era arrivata nel nostro paese, non in groppa a Forza proletaria, ma in pullman, alla ricerca di un nuovo mondo, giusto e libero, l’utopia non ha confini: l’Italia giusta e libera? Per carità. Il nostro paese è un concentrato di ingiustizie spesso imbecilli, in mano a coloro che strillano più forte, agli imbonitori da fiera: per favore, si guardino i nostri uomini politici, coloro i quali dovrebbero cambiare il Paese, non hanno programmi, nemmeno sogni, hanno molta voce, strillano come dei pazzi uno contro l’altro. E’ uno scenario grigio quello in cui viviamo. C’è qualcuno che vuole cambiare sistema, che non vuole più essere servo di interessi economici misteriosi e quasi sempre sballati, che voglia crescere delle generazioni solidali, che voglia la giustizia sociale? Utopia? Utopia, meglio che queste urla volgari che sentiamo ogni giorno. Martin Luther King aveva un sogno, i nostri linguacciuti baroni no, non corrono il rischio di essere uccisi, nemmeno – purtroppo – di andare in galera se hanno rubato.

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L’addio di Comacchio, figlio della miopia politica

Con Comacchio un pezzo di storia se ne va e con esso, forse, il futuro sviluppo del territorio ferrarese. Una frase certamente dura ma piena di verità. Non capìti, sottostimati i comacchiesi si sono sempre considerati una libera repubblica: e questa scelta è la reazione a una miope politica del Castello che non ha mai affrontato i veri nodi ed è rimasta in superficie e con lo sguardo rivolto all’indietro, pensando persino che l’isolamento dal resto della regione Emilia Romagna per la nostra provincia fosse un vantaggio.
E intanto a Comacchio oltre cinquemila persone hanno detto basta e hanno scelto Ravenna, la Romagna e la costa. Sappiamo che le funzioni delle attuali Province saranno ridotte ai minimi termini, rendendole un ente di secondo grado con una Agenzia di servizi sulle infrastrutture e basta. Certo una piccola cosa e pur nel nanismo che a breve verrà, Comacchio ci ha lasciati, ci ha tolto un pezzo di geografia, forse la più bella, la più affascinante sotto il profilo ambientale e della sostenibilità, tra acque e valli, biodiversità, tanti turisti e animazione, viale Carducci, un porto, la pesca, gli ombrelloni, le barche a vela. Ed ancora: il dialetto, le tradizioni, una cultura, tantissima storia, un costume singolare, l’anguilla, i viali, i gabbiani, la gente, quella Comacchio dei canali e dei luoghi ampi e ricchi di aggregazione sociale e, soprattutto, gli odori, i profumi e i sapori che ti avvolgono con intensità. A noi restano solo le lacrime dell’addio.
Andare via però non cancella tutto quello che c’è nella cornice descritta, non lo sottrae ai nostri sguardi, alle passioni, al confronto con un milieu che ci piaceva molto, anzi, moltissimo. Quando entravi dai Tre ponti o dai lunghissimi portici tutto ti veniva incontro e ti soffiava dentro come un vento gentile. Eppure, adesso che la rottura si è consumata idealmente sarà diverso, profondamente diverso.
Ora cosa fare è e sarà un problema, un rovello, perché le piaghe sono profonde e i nuovi percorsi difficili, perché è uno strappo più culturale che politico.
Saprà il Castello capire, saprà leggere e ascoltare quello che non ha voluto intendere prima, oppure cieco e sordo si rinchiuderà nel suo ristretto perimetro, abbarbicato a strutture periferiche sia pure circoscritte, senza pensare, nuovamente, che altri territori si sono uniti, che Bologna sarà metropolitana e noi in un cantone e all’angolo, perché questo accadrà.
Qualcuno alcuni mesi fa aveva capito, pur in un’ala grigia della residenza estense, che la scelta sapeva di vecchio, di sterile, di conservazione. Ora gira chino per non aver fatto di più, ma c’è forse, ancora, una strada da percorrere. Bisogna però far presto, anzi prestissimo, prima che la nave molli gli ormeggi e salpi senza rimedio.

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Sprechi, ora a Economia promettono che di notte spegneranno le luci

Dopo la segnalazione di ferraraitalia di un paio di settimane fa, c’è una buona notizia in tema di lotta agli sprechi: le luci della facoltà di Economia, ospitata a palazzo Bevilacqua Costabili di via Voltapaletto, che da anni restano accese anche di notte e nei giorni di chiusura, fra qualche giorno saranno quotidianamente spente al termine delle attività e riaccese alla ripresa.
Si tratta di un segnale incoraggiante e della conferma che, volendo, anche a partire da piccole avvertenze, c’è la possibilità di risparmiare senza necessariamente tagliare servizi e personale. A ben vedere in termini percentuali la riduzione dei costi sarà significativa: visto che tutte le luci finora restavano accese ininterrottamente negli spazi comuni, in futuro per quegli ambienti si spenderà la metà.

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L’ingresso della facoltà di Economia in via Voltapaletto

In fondo era sufficiente un po’ di perizia. Dopo una verifica condotta fra segreteria amministrativa e addetti alla portineria, infatti, è emerso che di notte anziché accendere regolarmente il sistema di luci di emergenza a ridotto consumo veniva lasciato in funzione l’impianto di illuminazione ordinario per presunte “ragioni di vigilanza”. La direzione del comparto Manutenzione dell’Università, da noi interpellato, ha quindi comunicato che darà disposizione di spegnere tutte le luci nell’orario e nei giorni di chiusura della facoltà, lasciando in futuro attive solo quelle di sicurezza. Nei prossimi giorni verificheremo se alle parole seguiranno i fatti.

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Investire nell’infanzia, un dovere e un ottimo affare

di Loredana Bondi

I servizi educativi e scolastici per i bambini in Italia sono purtroppo un nervo dolente, perché quelli che ci sono (laddove esistono) sono assolutamente insufficienti. L’Europa da tempo ci sollecita l’adempimento dell’obbligo di garantire servizi diffusi e di qualità, invece siamo all’età della pietra in molte parti d’Italia. Solo in alcune regioni ci si è avvicinati ai dati richiesti dal trattato di Lisbona che chiedeva di arrivare almeno alla copertura del 30% (rapporto fra nidi e bambini nei primi tre anni di vita) entro il 2010, ma la nostra media nazionale sta ancora largamente sotto il 10% con regioni come la nostra che superano o si attestano sulla richiesta e un Sud che spaventosamente manca di ogni servizio e mediamente arriva al 3% gestito solo dal privato. Parlare della necessità di avere servizi educativi e scolastici fino a 6 anni è sempre attuale, se si pensa che lo Stato dovrebbe direttamente provvedere in fatto di scuola d’infanzia, perché così sta scritto negli ordinamenti scolastici nazionali della formazione. Perché parlarne e parlarne sempre? Perché l’educazione delle nuove generazioni (e non si tratta solo di cura) permette di investire in termini di crescita relazionale e razionale.
James Heckman, premio Nobel 2000 per l’economia, in uno studio recente ci dimostra che l’analisi dei costi e dei benefici dell’investimento in capitale umano in diverse fasce d’età mostra come l’investimento nei primi anni di vita abbia rendimenti più elevati rispetto a investimenti fatti più tardi, perché le capacità individuali sono più malleabili. Ormai tanti, troppi studi lo dimostrano. A parte questo, il vero dramma cui assistiamo in questo periodo di crisi tremenda da tutti i punti di vista è quello che non c’è un progetto scolastico educativo serio per il Paese, prova ne sia la mancanza assoluta di finanziamenti nell’ambito della legge finanziaria.

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L’anomalia di uno Stato che lascia solo chi lo onora

Nino Di Matteo è il pm di Palermo che Totò Riina vuole morto. Di Matteo è stato pm in molti processi in cui Riina era imputato: per le stragi di Capaci e di via D’Amelio; per gli assassinii dei giudici Chinnici e Saetta. Ma fin qui tutto torna: la mafia condanna a morte i suoi nemici. Ciò che, invece, fa problema sono le amare dichiarazioni di questo magistrato coraggioso e competente. “Per fortuna prevale la passione, che ha ancora la meglio sulla razionalità pura che consiglierebbe di mollare tutto. Fare il magistrato secondo la Costituzione ‘non paga’. Né in termini di serenità personale, né di apprezzamento da parte delle Istituzioni e degli uomini che le rappresentano. Ho la netta consapevolezza che, quando ti inoltri su certi crinali investigativi sui rapporti fra mafia e Istituzioni, senti – per usare un eufemismo – di non essere capito da chi rappresenta lo Stato e persino da vasti settori della Magistratura. Troppi pensano che le nostre indagini siano tempo perso, risorse sottratte alla ‘vera lotta alla mafia’, che consisterebbe soltanto nell’arrestare la manovalanza criminale, nel sequestrare carichi di droga. Invece, oggi più che mai, un contrasto serio alla criminalità organizzata deve recidere i suoi legami con Istituzioni, politica, banche, finanza, forze dell’ordine, apparati dello Stato. Ti senti additato al pubblico ludibrio come un ‘acchiappanuvole’, o peggio come un soggetto destabilizzante che rema contro le Istituzioni per scalfirne il prestigio… Ma non importa, andiamo avanti”.
“Le parole sono pietre” recita il titolo di un bel libro di Carlo Levi: e queste sono dei macigni! Fino a quando un servitore dello Stato democratico e costituzionale descrive il proprio ‘vissuto’ come espressione di una condizione di solitudine rispetto alle Istituzioni e alla politica che dovrebbero sostenerlo e valorizzarlo, non saremo mai un ‘Paese normale’… Lo Stato e la politica devono essere presenti ogni giorno a fianco di chi difende la legalità e la Costituzione, e non solo ‘post-mortem’ ai funerali… di Stato!

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Beni Comuni, Ambiente e Partecipazione buchi neri del bilancio di fine legislatura

di Leonardo Fiorentini

Quello che più salta agli occhi nella presentazione del Bilancio 2014 del Comune di Ferrara è l’indubbio processo di riequilibrio dello stesso, in particolare in termini di struttura della spesa. Da ragioniere non posso che salutarlo con piacere. Non starò neanche a discutere troppo su cosa si è venduto per arrivare a questo risultato. Perché ritengo, in modo laico e pragmatico, che vendere pezzi del patrimonio pubblico “marginale” (pensiamo alle azioni svincolate di Hera) per ridurre il debito sia infatti un’operazione ragionieristicamente corretta, patrimonialmente neutra, ma politicamente nulla. Perché la vera scelta che il Comune deve fare non è quando è meglio vendere sul mercato borsistico azioni di una società, bensì se abbia senso per una istituzione pubblica detenere pacchetti azionari di società quotate in Borsa. Le domande che il Pd (maggioranza assoluta in Consiglio Comunale) si dovrebbe porre oggi sono difficili, ma fondamentali: primo, ha senso rimanere in Hera? Secondo, con il ricavato della vendita si deve solo ridurre il debito, o si puo’ dare una risposta, di sinistra, al tema dei Beni Comuni? Chi scrive – ancora nella scorsa legislatura e con ben altri valori di mercato – aveva sostenuto la proposta dei Verdi di vendere tutte le partecipazioni in Hera con un duplice fine: affrancarsi da questo rapporto insano di proprietario che non conta nulla/controllore che non sa controllare e reinvestire il ricavato nella diminuzione del debito, nella costruzione di un nucleo di controllo reale sui contratti di servizio e soprattutto nella ripubblicizzazione del servizio idrico integrato come i cittadini hanno chiesto con un referendum. In quest’ottica vendere parti del patrimonio pubblico non “marginale”, come le azioni di Hera, tutte le azioni di Hera, sarebbe stata una scelta di “sinistra” e più rispettosa del Bene Comune rispetto a mantenere una partecipazione in una SPA quotata. Oggi, anche se i valori patrimoniali sono purtroppo ben diversi, quella riflessione politica credo resti ancora valida.

Ma quello che oggi abbiamo veramente in discussione è la destinazione dei risultati del riequilibro del Bilancio sulla spesa corrente. L’Assessore Marattin ha più volte ha rivendicato come “di sinistra” la scelta di restituire il denaro ai cittadini: “meno debito – meno spese – meno tasse” il refrain delle sue presentazioni del bilancio.

Io, pur non considerandola di per sé un’operazione di destra, la considero un’operazione inutilmente simbolica. Simbolica perché “restituire” 20 euro l’anno a testa ai cittadini non incide né sulla capacità di spesa delle famiglie, né sull’effettiva competitività delle imprese in termini di diminuzione di cuneo fiscale. Inutile perché si inserisce in un quadro complessivo talmente catastrofico per le finanze degli enti locali che rischia di vedere l’anno prossimo tornare indietro quei 20 euro sotto forma di qualche altra tassa inventata in vista del prossimo passaggio parlamentare di questa o della prossima manovra.

Sinceramente non ho neanche gli strumenti adeguati per poter dire oggi come avrei speso in modo efficiente quelle risorse. Forse era anche questo l’imbarazzo della Giunta: dopo anni di tagli e tanti “no, non ho un quattrino” distribuiti a destra e a manca, diventava difficile scegliere come e dove investire ben 2.000.000 di euro senza scontentare nessuno.

Ho però delle certezze che non posso dimenticare: il bilancio dell’assessorato all’Ambiente è passato in pochi anni da circa 700.000 a poco più di 100.000 euro. In una città che, nonostante tutto qualche problema ambientale ce l’ha, non è una questione politica da poco. Poi non ci si lamenti se la “vox populi” vuole che le politiche ambientali di questo Comune le faccia Hera. Ed infatti la raccolta differenziata (un dato a caso) ha subito un imbarazzante stop dopo un incremento a doppia cifra nelle due legislature precedenti. Nonostante la riduzione complessiva dei rifiuti, siamo oggi fermi al 52%: ben lontani quindi da quel 65% che era obiettivo di legge per il 2012 (Rovigo è al 66%). Ecco, io un po’ di fondi li avrei piazzati nelle politiche ambientali, ma forse qui mancavano proprio le idee. Come, pescando a caso fra le tante istanze venute alla luce in questi mesi, li avrei posti a sostegno dell’associazione che non riesce a tenere aperta la casa famiglia per madri in difficoltà, o nell’accoglienza dei senza tetto (anche quelli clandestini), nel trasporto pubblico locale (il bus per Cona è già rifinanziato?) o in politiche sul turismo innovative.

Siamo poi arrivati al termine dell’esperienza del Decentramento. E’ colpevole il mondo politico che ha sacrificato all’altare dell’antikastismo proprio (e solo) le Circoscrizioni, perdendo un enorme capitale umano, sociale e politico in cambio di ben magri risparmi sulla spesa. E’ colpevole chi non ha saputo opporsi a questo scempio democratico (mi ci metto anche io) ma è colpevole questo Comune che non ha saputo neanche ipotizzare una transizione verso forme di partecipazione alternative. Perché, mi spiace dirlo, non basta presentare il bilancio in sala estense o mettere le slide sul sito del comune per poter dire di aver fatto partecipazione.

Sia chiaro: non sto quindi mettendo in dubbio la bontà “contabile” del Bilancio di quest’anno. Mi pongo invece dei dubbi rispetto all’operato di una legislatura che è parsa più di gestione da buon padre di famiglia che di progetto e trasformazione della città. Forse c’era bisogno di un po’ di ragioneria, ma ci sono state occasioni che non costavano nulla dal punto di vista della spesa: il RUE e il POC, ad esempio, sembravano messi lì apposta per permettere di continuare un processo di alleggerimento della pressione edilizia sul territorio cominciato col PSC, e che poteva determinare una reale svolta verso la rigenerazione urbana della nostra città. Occasioni mancate insomma, soprattutto in questo momento di stallo del mercato immobiliare.

Di fronte alla crisi, di fronte all’incapacità politica di chi governa il paese, c’è anche bisogno di segnali che vadano oltre la buona amministrazione e che diano appunto uno sguardo verso un orizzonte più ampio. C’è bisogno di vera politica, come, perché no, c’è bisogno di sinistra.

Nel mio piccolo mi sento oggi orfano non solo di un partito ecologista serio, ma anche dello spirito dell’Ulivo (quello inclusivo e rispettoso delle identità del ‘96, non certo quello fagocitatore e leaderista del PD di oggi, sia chiaro). Oggi che non esiste più nessun Centro Sinistra (forse per fortuna), fatico anche a riconoscermi nell’azione di questa giunta che pure ho sostenuto ormai 5 anni fa. Da libero battitore resto in attesa di capire se si può ricostruire qualcosa a sinistra. Almeno dal basso.

burocrazia

Il laboratorio, fiaba macabra di disordinaria burocrazia

Complici le festività che incombono, vorrei raccontarvi una delicata fiaba natalizia, dalla quale il lettore avveduto trarrà agevolmente una morale illuminante. Dunque, mica tanti giorni fa, in una città lontana lontana che chiameremo col nome di fantasia di Ferrara, c’era un giovane disoccupato che non riusciva a trovare lavoro perché il paese nel quale viveva era in crisi, le imprese chiudevano, molte famiglie faticavano ad arrivare a fine mese e perfino gli immigrati tornavano a casa loro perché là si stava meglio. Un giorno il giovane ebbe un’idea: metterò su un bel laboratorio di restauro mobili, si disse; il lavoro mi piace, sono bravo a farlo e potrei ricavare una stanzetta piccina piccina picciò dentro al magazzino che sta dietro la casa che al mercato mio padre (e anche mia madre) col sudore della fronte comprò, facendosi un coso che non si può dire nelle favole per via dei bambini che ascoltano, ma era un coso della madonna, e pagandoci sopra la Bucalossi, l’Ici, l’Imu, la Tares, la Tasi e tutte le altre tasse che gli uomini cattivi che governavano il paese avevano imposto alla popolazione, usando il denaro per comprare, tanto per dirne una, le mutande verdi di uno di loro, che intanto che si comprava le sue mutande coi soldi del mio papà e della mia mamma andava con altri come lui nelle piazze ad urlare lo slogan Roma ladrona, che se se ne stavano zitti tutti quanti ci facevano più bella figura. Così non sarò costretto a comprare un capannone, pensava il giovane ingenuo, che tanto i soldini non ce li ho e comunque la banca non mi darebbe nessun prestito visto che sono disoccupato e non posso darle garanzie.
Detto fatto, il giovane intraprendente si presentò baldanzoso agli uffici comunali della immaginaria città di Ferrara ed espose il suo progetto. Un comprensivo impiegato lo stette pazientemente ad ascoltare e poi gli disse dolcemente: giovanotto, nella stanzetta piccina piccina picciò che sta dentro al magazzino che hai dietro la casa che al mercato tuo padre (ma anche tua madre) col sudore della fronte comprò manca il bagno, e non puoi avviare un’attività se non sai dove andare a fare pipì. Poco male, rispose il giovane un po’ meno baldanzoso; ho la casa dove abito a dieci metri, se mi scappa vado nel bagno della mia abitazione che al mercato eccetera eccetera. Giovanotto, giovanotto, scosse la testa il comprensivo impiegato, così non va bene: se un domani tu dovessi cedere a qualcun altro l’attività di restauro che vorresti fare nella stanzetta piccina piccina picciò che sta dentro al magazzino e tutto quel che segue, questo qualcun altro dove andrebbe a fare pipì? Allora il giovane, molto meno baldanzoso, argomentò argutamente: basterebbe che mi deste un’autorizzazione ad personam, che tanto in questi anni c’è stato chi si è fatto le leggi, ad personam, e nessuno ha fatto una piega, anzi la gente continua a stravedere per questo tizio e alle ultime elezioni abbiamo dovuto chiudere a chiave in camera da letto la nonna che sennò andava a votare anche lei per quel soggetto lì. Se chiudo l’attività voi revocate l’autorizzazione e la stanzetta piccina piccina picciò con tutto quel che ci tiene dietro ritorna a far parte del magazzino. Non si può fare, replicò bonario ma severo l’impiegato comprensivo. E un’autorizzazione temporanea?, tentò il giovane molto ma molto meno, anzi quasi per nulla baldanzoso: mi date tempo tre anni per capire se il lavoro può andare o se mi tocca cercarmene un altro, poi se decido di continuare mi trovo un nuovo laboratorio, magari ci posso investire i soldini che ho guadagnato. Niente da fare, obiettò inflessibile l’impiegato comprensivo. Ma così non incentivate mica i giovani a trovarsi un lavoro e non favorite neanche tanto la nascita di nuove imprese, che con la crisi che c’è gli imprenditori si impiccano alle capriate per disperazione e gli operai aspettano che quelli delle pompe funebri liberino il posto dentro al cappio per risparmiare sulla corda e lo Stato spende un sacco di soldi in cassa integrazione e anche in autopsie, che non è neanche un bel vedere, disse il giovane ormai avvilito. Hai ragione figliolo, concesse magnanimo l’impiegato comprensivo, ma è la legge. Vedi? Oltretutto abiti in una zona di rispetto agricolo, e anche volendo non potremmo trasformare in laboratorio la stanzetta piccina piccina picciò e compagnia cantante. Quindi statti buono, non rompere l’anima alla gente che lavora e fanbrodo te e la tua stanzetta, che se ti schiodi col culo dalla sedia avrei anche delle cose più importanti da fare.
Fine della favolina di Natale, amico lettore. La morale è semplice semplice. Nelle favole si può fare tutto: cavare nonnette ancora vive dalla pancia di un lupo, sconfiggere orchi, fare la bella vita sposando principi azzurri bellissimi senza essere costrette a darla ogni tre per due a vecchiacci bavosi pieni di grinze come capita invece alle fanciulle in fiore nella vita di tutti i giorni, ma non si riesce a far fare alla burocrazia italiana qualcosa di sensato. Buone feste.

buskers

Crollano i turisti i città (-25% in 4 anni) ma il terremoto non c’entra

di Lanfranco Viola

Gentile Direttore,
come sempre accade, tutti cercano di infilare la parola “turisti” nei loro discorsi, poi nessuno riesce a fare “due più due uguale quattro”, quando esamina il tragico declino dell’industria dell’ospitalità a Ferrara.
Giovedì 12 dicembre è apparso su un quotidiano cittadino, a pagina 2, un articolo dal titolo “Spettatori e visitatori in calo. Crollano i musei e il Comunale”. Sottotitolo: “I dati dell’ufficio statistica del Comune disegnano un quadro allarmante”. Articolo con tanti numeri, ma senza nessuna analisi (come sempre), tanto per non esporsi troppo.
Di quei numeri ne riprendo qualcuno:
Nei musei i visitatori sono passati dai 199.846 del 2007 ai 147.091 del 2011 (prima del terremoto) cioè -52.751 pari a meno il 25% in soli 4 anni. Complimenti all’assessore ai musei.
Al castello Estense i visitatori sono passati dai 123.945 del 2007 ai 99.550 del 2011 (sempre prima del terremoto) cioè – 24.395 sempre meno circa il 25% in soli 4 anni. Complimenti ai funzionari (?) provinciali che gestiscono il castello.
Visto che tale calo di circa il 25% è analogo alla dimensione della disastrosa riduzione delle presenze turistiche in città, non credo che ci voglia un grande acume, per mettere in relazione i due fatti. Nessuno però lo fa, tanto meno l’estensore dell’articolo citato, anche perché se lo avesse fatto, avrebbe dovuto stabilire anche una seconda relazione tra tale drammatica riduzione e la inconsistente promozione svolta dagli enti locali negli anni in oggetto, a favore dell’industria turistica locale.
E’ stato proprio in questi anni che qualche Arci-esperto (ben retribuito) si è persino inventato la campagna pubblicitaria delle Emozioni Tipiche Garantite (vedi) che, costate oltre 250.000 euro, si sono rivelate un flop colossale.
Gli errori si pagano, prima o poi; peccato che a pagarne le conseguenze sia stata l’economia della città e sopratutto quella del suo centro storico.
Centinaia di migliaia di turisti in meno, nel corso degli anni, ha significato molte, molte centinaia di migliaia di acquisti in meno nei suoi negozi e ristoranti.
Desidero ricordare qui, se mai ce ne fosse bisogno, che i turisti, specialmente stranieri, non fanno acquisti ai supermercati delle Coop e non pranzano ai kebab.
Queste, fatte qui, sono (secondo me) le ovvie conclusioni a cui anche un giornalista non particolarmente ferrato sarebbe potuto giungere, con un po di onestà.
In presenza di tale grave lacuna, ho provato io a colmarla con queste brevi note, nella speranza che il suo nuovo quotidiano online voglia pubblicarle e vengano anche commentate.
Cordiali saluti
arch. Lanfranco Viola

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Per l’ambiente servono strategie e alleanze d’impresa su scala nazionale

Il sistema dei servizi pubblici locali, nonostante sia al centro dell’attenzione da molti anni sia sul piano delle riforme possibili sia sul suo ruolo, evidenzia posizioni contrastanti; manca una condivisione di politica industriale, di sviluppo sociale ed economico dei territori. Deve crescere la condivisione del servizio pubblico locale in una logica di trasparenza e di sviluppo della qualità. L’evoluzione del sistema in questi anni è stato costruito grazie all’intensa attività delle imprese di servizi pubblici ambientali che hanno sviluppato strategie aziendali e innovativa politica industriale, ma è mancato un quadro di regolazione e di vigilanza che ne potesse guidare gli sviluppi.
In alcune regioni, e sicuramente in Emilia Romagna, le concentrazioni d’imprese, la politica industriale di miglioramento e la crescita della imprenditoria pubblica hanno prodotto crescita del valore, economie di scala ed efficienza economica. L’obiettivo generale deve però essere quello di costruire a livello nazionale grandi imprese o alleanze tra imprese per favorire occupazione ed investimenti in un settore ambientale sempre più delicato per la tutela dell’interesse pubblico nel rispetto degli indirizzi comunitari. Si rileva come la definizione delle regole siano in palese ritardo nel sistema del ciclo idrico integrato, ma anche, ed è ancor più grave, per la gestione dei rifiuti.
Si ritiene si debba allora affrontare il tema non solo sul livello politico, ma debba crescere il confronto sul delicato e prioritario ruolo della impresa di servizi pubblici (indipendentemente dal fatto che si tratti di pubblica o privata). L’impresa di servizi pubblici, infatti, è una impresa che deve operare economicamente perseguendo fini collettivi e risultati sociali e quindi non è rappresentabile solo dall’efficienza e dal profitto, ma si deve valutare dal contributo al benessere della società. L’obiettivo prioritario è costruire grandi imprese o alleanze tra imprese che favoriscano occupazione ed investimenti in un settore ambientale sviluppato.

In alcuni territori (sicuramente in questa regione) le concentrazioni d’imprese, la politica industriale di miglioramento e la crescita della imprenditoria pubblica hanno prodotto crescita del valore, economie di scala ed efficienza economica. Le imprese con interessi collettivi (e dunque quelle che operano nei servizi pubblici) devono rispondere ad una utilità sociale e garantire la congruenza delle prestazioni, le condizioni di sviluppo tecnologico, la verifica continua della qualità attesa ed erogata, la sostenibilità ambientale.
Il bisogno di “governance” nei servizi pubblici ambientali ha dunque portato con sé anche elementi di conflitto tra interessi contrapposti in cui a finalità sociali e di miglioramento della qualità della vita si intersecano e talvolta si contrappongono esigenze economiche di tipo societario. La distinzione dei ruoli ed il sistema del controllo devono dunque essere questioni prioritarie e centrali. Il settore dei servizi pubblici ambientali in generale ed il ciclo dell’acqua in particolare richiedono che siano garantiti forti principi di regolazione per favorire la prevalenza del sistema integrato e della gestione unitaria. Si tratta allora di rivedere l’intero ciclo dei servizi in una logica complessiva e non di minor costo, orientata verso economie di scala e progetti integrati (quantità adeguata alla domanda e qualità compatibile con la economicità). Deve essere favorita la regolamentazione del mercato attraverso il ricorso agli strumenti di governo del territorio (pianificazione, programmazione, autorizzazioni, etc), con la predisposizione di accordi di programma, il supporto tecnico-informativo (analisi, ispezioni, controlli, etc) e la predisposizione di incentivi-disincentivi economici. In sintesi ben vengano le gare solo se il principio da perseguire sarà il miglior servizio per il cittadino ed il maggiore rispetto dell’ambiente (e della preziosa risorsa idrica bene di tutti).

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Alla ricerca del Proust perduto

Nella quasi incredibile presunzione umana non si può dire che i francesi siano secondi a nessuno. Come gli italiani, sono un popolo fatto di attrazione per i miserabilia e nello stesso tempo da questa loro naturale disposizione creano opere di una grandezza ineguagliata. Ritornare a Parigi con la ferma convinzione di vedere luoghi e monumenti da sempre accuratamente evitati quali la tomba di Napoleone o il Sacro Cuore (ah! La presunzione degli intellettuali d’antan…) non mi ha però impedito la decisione di andare a rendere omaggio alla tomba del Grande secondo l’antica esortazione foscoliana. Dopo avere l’anno scorso traversata mezza Francia per vedere la casa della “tante Leonie” e ammirare le madeleines ovvero il biscotto della memoria, dopo aver meditato sul cappotto di Marcel al musée Carnavalet, dopo essere entrato nella hall del Grand Hotel di Combray protetto dall’immagine delle jeunes filles en fleur, decido tra una mostra straordinaria sui gioielli di Cartier che sarebbe tanto piaciuta allo scrittore e la visita al Musée Rodin di attraversare Parigi per recarmi in commossa meditazione sulla tomba dello scrittore. Arrivo dunque al Père-Lachaise il cimitero monumentale di Parigi dove migliaia di giovani vanno in commosso e tribale pellegrinaggio alla tomba di Jim Morrison e mi avvicino al burbero guardiano che con fare sbrigativo mi dice di guardare sui tabelloni ma che comunque la tomba è molto lontana. Gambe in spalla consulto il cartellone e trovo che la tomba 90 (quella di Proust) è nell’appezzamento 85. Nulla. La tomba mi si rifiuta forse perché Marcel non sa che farsene di un vecchio suo lettore che ha per lui solo ammirazione e amore. Ai numerosi visitatori chiedo con fare umile se sapessero indicarmi la via: stupore e sconcerto. “Proust? Quoi? Poi deluso e irritato scendo ad un’uscita secondaria (tenete bene presente “uscita” e qui, fuori, trovo un addetto che ‘vende’ la mappa del cimitero… Pensate allora se a Ravenna non vi sapessero indicare la tomba di Dante o, a Milano, quella di Manzoni. Capisco che per un turista qualsiasi Proust è “un nome vano sanza soggetto” ma qui si rischia il ridicolo o meglio l’offesa e l’umiliazione a cui la cultura da sempre è soggetta e specialmente in questo momento storico. Se il nome di Proust anche nella cultura medio-bassa in Francia non significa più nulla o solo un ricordo cancellato sicuramente qualcosa non va. Come l’ennesimo scandalo che il 16 dicembre Adriano Prosperi denunciava su “La Repubblica” a proposito delle miserande condizioni in cui sono ridotte due tra le più importanti biblioteche d’Italia: quella della Sapienza di Pisa e quella storica di Modena. La stessa indifferenza per uno scrittore -che letteralmente ci ha obbligato a prendere coscienza di ciò che sta al di sotto di ciò che vogliamo ricordare- è la stessa che rende le case dei libri, patrimonio dell’intelligenza umana, luogo superfluo. Che dire allora dell’esaltazione delle magnifiche sorti e progressive di leopardiana memoria. Un gruppo sempre più ristretto di persone può comprare tutto e le vetrine di rue Saint-Honoré o degli Champs Elisées superbamente mettono in rilievo che la vera differenza tra gli “infelici molti” per usare una famosa distinzione di Elsa Morante (e qui ci si può riferire ai ricchi volgarotti che escono carichi di pacchi delle marche più famose) e i “felici pochi” (ch s’incantano di fronte a un libro antico o a una miniatura, a un quadro senza la necessità del possesso) sta nel lusso esibito e non in quello tanto più sottilmente élitario che è il lusso della mente a cui, purtroppo, ancor meno persone possono accedere. Perfino il lusso dei poveri diventa speciale allorché si trasformano i Campi Elisi in una fiera del mangiare e del comprare ignobili cianfrusaglie in linde casettine bianche che coprono sui due lati più di due chilometri della via tra lo sfavillio dei platani trasformati dai leds in bicchieri di champagne. E proprio in quel regno insopportabilmente volgare, il luogo del Lido o delle notti di Montmartre che non torneranno più perché hanno pero il fasto del proibito, ecco improvvisamente Proust che mi aveva negato la vista della sua tomba riapparire trasformato in un direttore d’orchestra, Ivo Pogorelich che in un concerto titanico mette in relazione e fa dialogare Chopin (nella mia giovinezza ricordato come un musicista per signorine!!!) con Liszt e il suo wagnerismo. Allora il Proust perduto mi viene incontro e mi fa capire che anche i miserabilia, specie della politica, sono il terreno su cui si fonda il genio umano. Dedicato quest’ultima riflessione a Grillo e a Forza Italia, negatori dei valori rappresentati dai senatori a vita. E una parola mi viene spontanea, tanto amata dai politici. Se credete che noi, popolo, paghiamo i rappresentanti della cultura, allora vergognatevi! Ma davvero.

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La realtà e il suo doppio nel nuovo romanzo di Gian Pietro Testa

“Quando non ci sono più la fantasia, l’immaginazione, l’utopia a guidare e a cercare di modificare il nostro cammino”, ha scritto il direttore su queste pagine qualche giorno fa, la conoscenza si sfarina, la curiosità si fa muta e, credo, si comincia un po’ a morire. Alla presentazione del romanzo Il rocchetto di Ruhmkorff di Gian Pietro Testa alla libreria Ibs, è avvenuto il contrario: ogni libro di Testa è, per la città, un guizzo dell’intelletto, il risveglio dei dormienti e una grande occasione per mettere insieme memoria e interrogazione.
L’autore, intervistato da Fabrizio Fiocchi, ha presentato la sua opera che non può essere riassunta in una trama qualunque, perché più che azione ci sono pensiero, immaginazione, fantasia a guidare i protagonisti. I personaggi principali sono tre, una donna e due uomini, in qualche modo intrecciati, ma potrebbero essere sei, nove, dodici. Chi non ha un suo doppio? Un altro ruolo che ogni tanto recita, una coscienza che interviene, un prima e un dopo, un sé manifesto e uno nascosto, un pensiero che consola e uno che spariglia? Michelangelo, che si rifugia nella pittura, quindi in un’altra dimensione, per esprimersi a pieno, ha poche altre compagnie se non Michelangelo due, ‘il suo fedele fantasma’, il suo doppio per nulla simile (altrimenti sarebbe inutile), ma saggio, sarcastico, caustico e lucidissimo.
Amico di Michelangelo è Giuseppe Garibaldi autonominato Fraschenor il muto, un uomo che ha scelto di non palrare più, o meglio, di interloquire solo a certe condizioni: con Dio, che tanto non risponde, con Idalgo Pistolini, manichino simbolo dell’uomo politico ‘buono per tutte le stagioni’ a cui rivolgere le contumelie peggiori e con Michelangelo, ma solo via e-mail. Il vantaggio del silenzio? “non si possono dire bugie” pensava Fraschenor.
Anche Fraschenor ha bisogno di rifugiarsi altrove, un luogo fisico che è anche una stanza della mente: la tundra, cioè il suo giardino, in cui immagina di essere in esilio volontario dando le dimissioni da italiano. Da qui scrive lettere a Michelangelo, suo unico contatto con il mondo.
E poi c’è Wanda, alla ricerca di un cambiamento, di un ruolo diverso, di una consolazione, di risposte dopo tante domande, soprattutto a se stessa. Wanda, a differenza di Michelangelo e Frachenor, è giovane, agisce e lavora. Non un lavoro qualsiasi, ma una specie di espiazione, una via per uscire dall’indifferenza in cui era caduta dopo un grande dolore che tutti gli altri, per primi i genitori, avevano trattato con pesantissima indifferenza.
Wanda viene assunta in una residenza per anziani, accudisce gli ospiti amandoli, cerca di alleviare le sofferenze altrui e anche un po’ la propria donandosi.
Una domenica mattina di giugno, la ragazza decide di andare al mare, così anche Michelangelo che intende dipingere in riva al mare, ha già abbozzato un quadro: l’ultima cena sull’ultima spiaggia. Quest’opera esiste davvero, perché Testa non entra nel romanzo soltanto attraverso i personaggi per esprimere una critica sociale e politica sempre molto esplicita, entra anche ‘iconicamente’ attraverso il quadro, mostrato durante la presentazione e di cui lui stesso è autore. Non solo, chi scrive entra nel romanzo rivolgendosi direttamente al lettore e facendosi personaggio a sua volta, testimone della vita di Fraschenor, suo interlocutore.
Tutto è doppio, anche il finale dove la morte sballotta la vita fra le acque del mare fino ad avere la meglio. E invece no, una svolta beffarda ribalta tutto, discolpa chi appariva colpevole di fronte alla legge e l’autore dichiara in prima persona la soluzione letteraria che, tuttavia, definitiva non è.

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A Ferrara è in pericolo il sistema industriale

La Camera di Commercio ha pubblicato nei giorni scorsi la quarta rilevazione congiunturale di quest’anno sull’andamento dell’economia provinciale, riferita al terzo trimestre 2013.
Non ci sono novità clamorose rispetto alla rilevazione precedente, effettuata a settembre, eppure forse vale la pena di tornarci su, perché alcuni dati meriterebbero a mio avviso un’attenzione – e una discussione – che finora non hanno avuto.
Si stima nel 2013 a Ferrara una caduta del valore aggiunto prodotto pari a – 1,5%, perfettamente in linea con la stima relativa all’economia nazionale, ma peggiore di quella regionale (-1,1%).
Ciò in cui però Ferrara si distingue di più è il dato relativo al valore aggiunto prodotto dall’industria, per il quale si stima un calo quest’anno del 4,2%, contro il 2,6% nazionale e il 2,2% regionale.
Questo significa che, in un quadro di difficoltà generale, il nostro sistema industriale sta soffrendo molto più della media.
Si potrebbe pensare che questo dipenda soprattutto dalla piccola dimensione delle imprese presenti sul nostro territorio, dove è quasi totalmente assente l’impresa industriale di medie grandezza, ma a ben vedere questo è vero solo in parte.
C’è un altro dato, infatti, per il quale Ferrara si distingue dalle medie regionali e nazionali, in maniera ancora più clamorosa: è quello che riguarda l’andamento delle esportazioni. Un calo del valore delle esportazioni del 7,5% nei primi nove mesi stride molto infatti con una media regionale in crescita del 2%, mentre quella nazionale è di poco sotto lo zero (-0,3%).
Se poi andiamo a vedere quali sono i settori maggiormente in difficoltà, ci accorgiamo che si tratta di quelli sui quali è concentrata la grande industria ferrarese: meccanica, automotive e chimica.
Insomma, quello che emerge è che la distruzione delle risorse industriali sta procedendo in provincia di Ferrara con un’accelerazione ben maggiore di quella osservata nel resto del Paese e anche in territori limitrofi e riguarda tutto l’apparato industriale, non solo quello tradizionalmente più fragile per dimensioni e per posizionamento di mercato.
Cercare di mettere in campo qualche contromisura dovrebbe diventare una priorità assoluta, attorno alla quale concentrare l’impegno di tutte le forze sociali e istituzionali, prima che sia troppo tardi.
Ma per il momento sembra non esserci neppure un’adeguata consapevolezza del problema.
A meno che non si pensi, irresponsabilmente, che Ferrara possa fare a meno di un sistema industriale.

calcino

Noi che…

Un video in rete, racconta la storia dei mitici anni sessanta. Il video, condito con un’accattivante colonna sonora, ricorda gli oggetti, i temi, i luoghi e i comportamenti che hanno caratterizzato una generazione. Il filo conduttore “noi che” precede una lunga serie di frasi che caratterizzano gusti, giochi, modi di vivere, sogni, ingenue esplorazioni di un mondo nuovo, fatto di joux box, di mangianastri, di beni alimentari industriali. E’ prima di tutto l’emergere di nuovi beni di consumo a segnare la percezione di un’era di libertà e di benessere e di un mondo nuovo. “Noi che i pattini avevano 4 ruote e si allungavano quando il piede cresceva. Noi che il Ciao si accendeva pedalando. Noi che sentivamo i 45 giri nel mangiadischi. Noi che le cassette se le mangiava il mangianastri, e ci toccava riavvolgere il nastro con la bic. Noi che c’era la Polaroid. Noi che si andava in cabina a telefonare”. Giochi semplici: “Noi che giocavamo a nomi, cose, animali, città e la città con la D era sempre Domodossola. Noi che ci mancavano sempre quattro figurine per finire l’album Panini. Noi che suonavamo ai campanelli e poi scappavamo”. Nuovi segni di benessere che oggi suscitano tenerezza: “Noi che ci sbucciavamo il ginocchio, ci mettevamo il mercurio cromo. Noi che la Barbie aveva le gambe rigide. Noi che quando a scuola c’era l’ora di ginnastica partivamo da casa in tuta. Noi che l’unica merendina era il Buondì Motta e mangiavamo solo i chicchi di zucchero sopra la glassa”.

Tempi di nuovi spazi di libertà intravisti piuttosto che conquistati: “Noi che ci emozionavamo per un bacio su una guancia”. Tempi in cui il senso della disciplina restava più solido di quanto al tempo potesse apparire agli adulti: “Noi che se a scuola la maestra ti dava un ceffone, la mamma te ne dava due. Noi che se a scuola la maestra ti metteva una nota sul diario, a casa era il terrore. Noi che le ricerche le facevamo in biblioteca, mica su Google. Noi che si poteva star fuori in bici il pomeriggio. Noi che se andavi in strada non era così pericoloso”.

Un filo velato di nostalgia si scorge dietro ogni frase-ricordo. Questo video tratta un tema universale: il bisogno di definire chi siamo, attraverso scelte che non siano solo nostre, ma che ci accomunino ad altri come noi. L’identità passa attraverso la possibilità di riconoscersi in tratti comuni, attraverso la ricerca di elementi che segnano differenze, caratteristiche peculiari, specificità presunte o reali.
Noi siamo ciò che narriamo di noi stessi. Attraverso il racconto delle nostre esperienze, troviamo ad esse un senso. Raccontare è un aspetto fondamentale della vita umana che accomuna tutte le culture. Per mezzo di storie, fin dalla tenera età riconosciamo dei modelli di comportamento. Attraverso le storie comprendiamo il mondo in cui viviamo e possiamo mettere in comune le esperienze; con le storie riusciamo a far emergere significati che molto spesso sono immersi in un “rumore di fondo” di difficile interpretazione.
Ogni generazione ha il proprio patrimonio di storie da raccontare. Le storie emergono attraverso la memoria e il confronto tra un ipotetico “noi” e “loro”. Evitiamo di pensare, quindi, che ora tutto è perduto e che non resta che il passato. Il problema è che il presente è sempre più difficile da interpretare rispetto a ciò da cui siamo usciti e che possiamo guardare a distanza.

 

Maura Franchi, laureata in sociologia e in scienze dell’educazione, vive tra Ferrara e Parma, dove insegna Sociologia dei Consumi, Storytelling e social media marketing, Marketing del prodotto tipico.
Studia i mutamenti socio-culturali connessi alla rete e ai social network, i processi della scelta e i comportamenti di consumo, con una particolare attenzione ai consumi alimentari, le forme di comunicazione del brand.

Tra le pubblicazioni recenti:
2013, “Social network: risorse per la collaborazione?”, La società degli individui, n. 45, gennaio
2012, “Le tecnologie delle relazioni: una via individuale alla socialità”, La società degli individui, n. 44, ottobre
2012, “The contents of typical food products: tradition, myth, memory. Some notes on nostalgia marketing”, in Ceccarelli G., Magagnoli S., Grandi A. (eds.), Typicality in History: Tradition, Innovation and Terroir, European Food Issues, P.I.E. Peter Lang – Bruxelles.
2011 (con Schianchi A.), Scegliere nel tempo di Facebook. Perché i social network influenzano le nostre preferenze, Carocci, Roma
2011, “Food Choice. Beyond the chemical content”, International Journal of Food Science and Nutrition, 1-12.
2009 (con Schianchi A.), Scelte economiche e neuroscienze. Razionalità, emozioni, relazioni, Carocci, Roma
2009, Il cibo flessibile. Nuovi comportamenti di consumo, Carocci, Roma.
2008, Raccontare il consumo. Strumenti per l’analisi, Franco Angeli, Milano.
2007, Il senso del consumo, Bruno Mondatori, Milano.

Contatti: maura.franchi@unipr.it

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Renzi senza portaborse trascina il suo trolley

Come era facilmente prevedibile il “modello papa Francesco” sta facendo proseliti. Ieri, al termine della direzione Pd che ha sancito l’insediamento di Matteo Renzi alla segreteria del partito, il neoeletto ha conversato con i giornalisti mentre lasciava la sala, trascinandosi dietro il proprio trolley senza l’aiuto di una figura che ha iconograficamente segnato decenni di vita politica italiana: il portaborse. Gli inviti alla sobrietà e alla semplicità del nuovo pontefice non solo fanno breccia fra le gente comune, ma in qualche modo impongono anche ai notabili (siano essi politici o dirigenti d’altro tipo) di rivedere i loro comportamenti. Per Renzi non è una novità assoluta, ma ora pure tanti suoi colleghi, per convinzione o per opportunità, si stanno adeguando. Ben vengano, dunque, quei gesti simbolici, fossero anche consapevolmente ostentati (la borsa, appunto, portata a mano; la vecchia auto in luogo dell’ammiraglia; lo scardinamento dei protocolli) se servono una buona causa: quella di ricondurre tutti a una dimensione di normalità e dunque, in un certo senso, di uguaglianza.

Ascanio Celestini riporta in scena l’operaio e la sua “Fabbrica”

Pochi elementi sul palco, per la precisione due: una scenografia minuta e un attore che lo è altrettanto. Tutto il resto è riempito dalle parole, un fiume in piena. Siamo al Teatro dei Fluttuanti di Argenta e le parole sono quelle che tessono il testo teatrale di Fabbrica, lo spettacolo datato 2002 che Ascanio Celestini oggi riporta nei teatri. Lo fa da solo e lo fa raccontando perché, come spiega lui stesso ai ragazzi di Share for Community e agli spettatori di un “aperitivo fluttuante” che anticipa la rappresentazione, “il ‘teatro di narrazione’ non è un genere a sé, tutti gli spettacoli narrano storie e non c’è tanta differenza tra quello che faccio io e chi porta in scena Molière. Quel che ci differenzia veramente è che nel mio spettacolo non c’è una compagnia di attori, ci sono io”.

Autore, regista e attore appunto, per un monologo della durata di un’ora e mezza, ma che scorre via in un battito di ciglia. Una fabbrica di inizio ‘900, di quelle storiche e stoiche, è la vera protagonista. Una “istituzione” vissuta attraverso la biografia quotidiana di tre generazioni di operai personificati nei tre Fausto di cui si narra: lo stesso nome per un nonno, un padre e un figlio, primi attori di vicende di vita bizzarre, che si intrecciano con la Storia, prima quella con la S maiuscola e poi quella della Fabbrica. La voce invece è di un narratore esterno che di quell’enorme edificio di produzione ha vissuto la decadenza e ascoltato gli aneddoti: è lui che dedica alla madre (e ai presenti) quell’unica lettera che non ha potuto scriverle il 17 marzo 1949. Lo spettatore è rapito nell’ascolto, tanta è l’autenticità trasmessa, perché “l’attore deve entrare nel proprio oggetto, deve avere esperienza di quello di cui sta parlando. Anche se il teatro è finto anche quando è vero” – afferma lo stesso Celestini.

Un teatro che mescola invenzione e realtà dunque, per un autore che, interrogato su una posizione politica che spesso gli viene attribuita, specifica: “Mi hanno sempre affibbiato una voce partitica, non è così. Sempre che oggi si possa parlare di ‘partiti’: negli anni ’50 si votava ad esempio quello Comunista, ma non si votava la persona, si votava un’idea, una visione del mondo. Ora non è più così”.

Riferimenti:
Teatro dei Fluttuanti di Argenta
Share for Community

Voltini castello

I voltini del castello, “un’indecenza”. Ma la Provincia prende tempo

“Il problema è lampante. I voltini così come sono risultano indecenti”. Davide della birreria Giori non fa giri di parole. “Servirebbe un intervento urgente. E’ uno dei passaggi più centrali e caratteristici della nostra città, così conciati sono anche un cattivo biglietto da visita per i turisti”.
Della questione, ferraraitalia si è occupata nei giorni scorsi segnalando la stato di degrado dello storico attraversamento che mette in comunicazione piazza Savonarola con piazza Castello.
“Sono vergognosi” aggiunge un altro commerciante della zona che però preferisce mantenere l’anonimato, ma non manca di segnalare che le bici posteggiate lì sotto sono preda quotidiana dei ladri che, specialmente d’estate, prendono di mira preferibilmente quelle lussuose dei turisti, “roba da migliaia di euro in qualche caso: ho visto gente piangere per questo”, afferma.
“Personalmente sarei anche disposto a contribuire al risanamento e all’illuminazione, per un fatto di decoro e di amore per la città” assicura Ilario Milani della tabaccheria che ha la vetrina proprio sotto il voltino di sinistra, quella “della biscia”. “Qui accanto – ricorda il tabaccaio – un tempo c’era la vendita di trippa e di là il mercato del bestiame. E’ un patrimonio storico della nostra città, è un peccato che siano ridotti così”.

Voltini castello
Voltini castello

“In effetti è sorprendente tanta trascuratezza in pieno centro in una città così bella – dichiara il veronese Pierluigi Massagrande, di passaggio a Ferrara – devo ammettere che Verona è più curata, situazione del genere da noi c’erano forse 20 anni fa, ma ora sono state tutte risanate”.
“C’è pure il problema dell’illuminazione – conferma Simona Sivieri dell’Hostaria Savonarola – di sera è tutto buio, qualche luce rallegrerebbe la piazza rendendo suggestivo l’effetto architettonico”.
Al riguardo l’assessore Aldo Modonesi riconosce che il problema c’è e che l’Amministrazione comunale sarebbe disposta a contribuire, ma la competenza è della Provincia. Davide Nardini, che ne è l’assessore ai Lavori pubblici, da noi interpellato la scorsa settimana ha promesso una risposta. La città l’attende.

Voltini castello
Voltini castello
Pci-Ds

L’oro del Pci, Lodi: il futuro dipende dal Pd, se sarà partito ‘pesante’ avrà il patrimonio

L’incontro con Bracciano Lodi si rivela una tappa fondamentale del nostro viaggio alla ricerca dell’oro del Pci. Lodi è da un anno amministratore delegato della fondazione L’Approdo che gestisce il patrimonio dei Ds, congelato al momento della nascita del Pd. La sua carica è a scadenza triennale, a differenza di quelle dei cinque componenti del comitato di indirizzo della fondazione (il presidente Cusinatti e i membri …) che invece sono a vita, e di quella di Attilio Torri che, al di fuori della fondazione, opera come liquidatore dei Ds (per la partita contabile, sostanzialmente i debiti del vecchio partito) e ricoprirà quel ruolo sino a esaurimento del compito.

Lodi, che ha ancora due anni di mandato, ci riceve nella nuova sede dalla fondazione, in piazzetta Righi, poco distante dallo storico stabilimento Moccia. Ha ovviamente letto tutte le puntate dell’inchiesta e gli interventi che ne sono scaturiti. E’ affabile e ci propone un’organica ricostruzione dell’intera vicenda, fino dalle sue origine. E’ evidentemente animato dalla volontà di fare chiarezza e riconosce che intorno alla questione ci sono stati in passato troppi silenzi che qualcuno può avere scambiato per reticenza. Invece, dice, non c’è nulla da nascondere. “Poi il giudizio naturalmente spetta ad altri, non a me”. Ecco allora la sua versione dei fatti, cadenzata dai nostri interrogativi posti a scandagliare il senso dei passaggi più delicati.

“Parto dall’inizio, come è doveroso – annuncia con voce piana – La fondazione L’Approdo nasce nel luglio 2007, all’epoca segretario dei Ds provinciali è l’indimenticabile Mauro Cavallini, tesoriere Attilio Torri. La vicenda locale è conseguenza di quella nazionale, ricordo che allora il segretario era Fassino e il tesoriere Sposetti, che tuttora preside la fondazione nazionale. Si decise di non trasferire al Pd il patrimonio e la liquidità dei Ds e si individuò nella fondazione privata lo strumento giuridico più corretto per la gestione. C’era diffidenza rispetto agli esiti di quell’operazione politica che metteva insieme due formazioni espressione di mondi diversi”.

A Ferrara come fu vissuto il passaggio?
“Da principio ci fu una grande consultazione per dire cosa sarebbe successo…”.
Se fu per dire cosa sarebbe successo la definirei un’informativa più che una consultazione…
“No! Perché come è successo altrove gli iscritti avrebbero anche potuto decidere di disporre diversamente del patrimonio locale. Quindi ci fu dibattito e si votò. La proposta passò a maggioranza in tutte le sezioni provinciali, con l’eccezione di Filo che, capeggiata dall’ex presidente di Lega Coop Egidio Checcoli, scelse di non confluire nell’Approdo e costituì una propria autonoma fondazione”.
Allora ha ragione lei, fu una consultazione. E cosa si decise programmaticamente?
“Triplice obiettivo. Concorrere alla costruzione del Partito democratico, dare vita alla fondazione che prese il nome L’Approdo, dare un po’ di soldi al Pd (circa 70mila euro ci ha riferito in una precedente intervista Attilio Torri che della fondazione fu il primo presidente, ndr) e donare al nuovo partito le attrezzature per fare le feste dell’Unità (stand, stufe, tavoli, frigo) depositati nell’enorme centro feste di Vigarano – settemila metri quadrati – lasciato in comodato d’uso gratuito al Pd di Ferrara”.

La prima pietra della ricostruzione è solidamente posata e Lodi sorride compiaciuto. Quella del “Pd poverino” – riprende – è una storiella che non regge: un po’ di soldini, le attrezzature, i capannoni, gli affitti delle sedi ai circoli a costi irrisori, come poi dirò meglio… Non li abbiamo mica fatti nascere in miseria!”.

Nel frattempo che succede? – si interroga il presidente del CdA e riprende il filo della sua ricostruzione – Nel frattempo il nuovo partito, dopo discussioni pesanti, decide di non riconfermare Cavallini e sceglie Marcella Zappaterra come segretario. L’ex tesoriere Attilio Torri diventa presidente della fondazione e nomina un consiglio di tesoreria con l’impegno di gestire la liquidazione dei Ds, che giuridicamente restano attivi anche dopo la cessazione dell’attività politica e lo sono tuttora”.

“La designazione delle persone che dovevano fare parte della fondazione e del Cda fu basata su due criteri: provata capacità e appartenenza territoriale; la decisione fu presa dai dirigenti ds dopo consultazioni interne. Furono equamente rappresentate città e territorio. Si può quindi affermare che la scelta del gruppo dirigente dell’Approdo fu fatta democraticamente. Le persone individuate erano oneste, competenti e rappresentative. Per il loro operato non sono stati corrisposti né compensi né rimborsi spesa. Anch’io nel corso di quest’anno sono stato più volte a Roma ma non ho mai chiesto il rimborso che pure per statuto sarebbe previsto. Per noi questo impegno costituisce un prosieguo volontario dell’attività politica”.

E anche il secondo mattone è posato. A questo punto Lodi affronta direttamente il nodo del patrimonio. “Gli immobili che costituiscono il patrimonio erano esclusiva proprietà dei Ds. Il problema si pose la prima volta nel 1991 a Rimini come giustamente ricorda Alfredo Valente nell’intervista che vi ha rilasciato. In quella sede infatti si decise che tutto ciò che era del Pci andasse ai Pds. Il successivo passaggio, fra Pds e Ds, fu cosa tutta interna e non creò problemi.
Nel 2007 le perplessità in ordine al futuro del Partito democratico indussero a mettere in sicurezza nelle fondazioni il patrimonio. Oggi però quella diffidenza è superata”.
E’ dunque tempo che le fondazioni si sciolgano?
“Il tema dello scioglimento non è attualmente all’ordine del giorno né a Roma né a Ferrara”.
Qual è il problema, oggi?
“Capire come sarà gestito il Pd, che tipo di struttura organizzativa vorrà assumere, se deciderà di essere partito liquido, pesante o leggero…”.
E a voi che cambia, scusi?
“E’ fondamentale per valutare le necessità. Un partito pesante ha bisogno di sedi, un partito leggero no. Ma prima lasci che le dica un’altra cosa”. A questo punto il presidente Lodi ci porge un foglio con l’elenco dettagliato dei trenta immobili di proprietà dell’Approdo con la specifica per ciascuno della destinazione d’uso.
“Quel che vorrei risultasse chiaro è che noi già ora siamo quasi esclusivamente al servizio del Pd, loro sono il nostro punto di riferimento, il nostro interlocutore privilegiato: gli affitti ai circoli sono calmierati, calibrati sui costi di mantenimento; calcoliamo in sostanza le tasse e quel minimo di manutenzione necessaria e su questa base determiniamo il canone. Ecco perché un patrimonio stimato in circa sei milioni di euro rende solo 170mila euro l’anno, appena il 3 per cento. E ricordo il comodato gratuito del centro di Vigarano, che da solo rappresenta quasi la metà del valore dei nostri immobili. Appena tre immobili sono affittati a privati e dunque a prezzi di mercato”. Ora, però, – facciamo notare – con il trasloco della federazione si sono liberati i locali di viale Krasnodar… “Già vedremo cosa fare, sono tempi difficili anche per il settore immobiliare.”
Qualcuno però adombra (lo ha fatto anche Enzo Barboni intervenendo su ferraraitalia) che in questo modo le fondazioni esercitino un potere di condizionamento, svolgano attività di lobby.
“Trattiamo il patrimonio immobiliare che abbiamo in consegna con più rispetto che se fosse nostro. E non vogliamo abusare di nessuna rendita di posizione, non esercitiamo alcuna pressione né pratichiamo alcuna forma di ingerenza”, afferma con decisione Bracciano Lodi.

Dunque par di capire che l’approdo… dell’Approdo sia il Pd: però non mollate! Date l’impressione di rapportarvi al partito come un genitore con un figlio scapestrato: gli offrite un tetto ma non gli consegnate le chiavi di casa. Lodi ride. “In effetti il Pd ha solo sei anni, eppure è già riuscito a fare fuori quattro segretari e ha appena eletto il quinto!”. Quindi aspettate che maturi e si dimostri assennato? “Aspettiamo di capire – e qui Lodi si ricompone e assume il tono austero – se vorrà gestire il patrimonio in proprio o se come la Spd o il Labur party si doterà di una fondazione.” E in quel caso eccovi a disposizione, giusto? Sorriso e ammiccamento.
“D’altra parte – riprende Lodi – il problema non è stato posto neppure da parte del Pd, evidentemente anche loro hanno bisogno di fare chiarezza e decidere in che direzione andare. Ma prima o poi a Roma il nostro tesoriere Sposetti e i dirigenti del Pd si siederanno attorno a un tavolo e decideranno il da farsi. Questa è una scelta che maturerà e dovrà essere compiuta a livello nazionale. Intanto a Ferrara noi proseguiamo la nostra attività. Lo statuto ci impone due obiettivi: tutela e valorizzazione del patrimonio, e promozione dei valori della sinistra. Devo riconoscere che il primo obiettivo è quello sul quale abbiamo lavorato di più. Alla promozione riserviamo gli utili di gestione, circa 20mila euro annui. Dovremo fare di più, anche a livello di idee. L’anno prossimo attiveremo finalmente il sito (che ora è poco significativo) rendendolo un’autentica vetrina, con i dati di gestione, l’elenco del patrimonio, le iniziative. Abbiamo già avviato e porteremo avanti con l’Istituto di storia contemporanea un progetto di valorizzazione della storia del Pci ferrarese, che si avvarrà anche di un supporto online accessibile a tutti. Poi se qualcuno vorrà contribuire, lo statuto prevede la possibilità di integrare nuovi soci e di ricevere donazioni”.

Me ne vado con una convinzione: leggero o pesante che il Pd scelga di essere, le fondazioni resteranno comunque. Se il Pd sarà partito pesante è probabile che mantenga le fondazioni come strumento gestionale. Quelle attuali magari cambieranno statuto (gli uomini chissà) ma resteranno nella funzione. Viceversa se il Pd sarà leggero o liquido come si usa dire, quindi non necessiterà di una struttura organizzativa capillarmente diffusa, è probabile che le fondazioni ritengano di dover preservare il proprio ruolo di promozione dei valori della sinistra e per questo trattengano il patrimonio (che è fatto di immobili) per impiegarlo a supporto della propria attività, continuando a sviluppare, come già ora in parte capita (o dovrebbe capitare), un autonomo progetto culturale. E continuando a elargire al proprio figlioccio le caramelle.

6 – CONTINUA

Sarah-Dunant

Il best seller di Sarah Dunant illumina Ferrara, inattesa perla d’Italia

Piccola, segreta città che finisce tra le pagine del best-seller di un’autrice inglese. Succede a Ferrara, città ispiratrice del libro di Sarah Dunant “Sacred Hearts”, tradotto in italiano con “Le notti di Santa Caterina” per l’editore Neri Pozza. Anziché l’invito terribile a bruciare i libri uscito nei giorni scorsi dalla manifestazione di protesta dei forconi, un libro illumina il centro storico alla libreria Ibs di piazza Trento Trieste in collaborazione con Wall Street Institute . E l’inquietudine di quella notizia si dilegua nel racconto che la scrittrice fa della sua avventura ferrarese. Perché, come il libro, è un modo di leggere la città dal di fuori, un modo che rende per incanto degne di essere raccontate storie antiche, ma anche dettagli di tutti i giorni, stra-noti, eppure all’improvviso interessanti come se fossero pettegolezzi su gente che conosci. Strade, palazzi e fatti sono riletti attraverso la storia, ma con una confidenza che gli dà la forma di aneddoti accattivanti.
Intanto, con la tipica ironia britannica, la scrittrice racconta come il suo primo problema – una volta che si è decisa ad ambientare qui il romanzo – ce l’abbia avuto con il correttore ortografico del suo computer. Perché continuava a modificarle il nome del la città in quello di un’auto. Come dire che il mondo anglofono, più che Ferrara, ha in mente la Ferrari. E così l’autrice si è resa conto – ha dichiarato pure a un’autorevole testata come “The Observer” – che tra i tesori nascosti d’Italia c’è proprio “questa città, ricca di storia, che si trova sulle rive del Po”.
Sarah Dunant vive tra Londra e Firenze. E quando arriva qui dal capoluogo toscano, per prima cosa viene colpita dal fatto di trovarsi in quella che definisce “una città medievale e rinascimentale perfettamente conservata”, dove però “a fatica si vede un turista” e dove la colonna sonora che ti accoglie è prevalentemente scandita da campane e campanelle: quelle dal suono grave provengono dalle chiese e quelle con un registro più squillante tintinnano sui manubri delle centinaia di biciclette, “linfa vitale del trasporto” per i ferraresi di oggi. Il contrasto tra la capitale del turismo e la città dai tesori segreti è ancora più grande, perché lei arriva dalla stazione di Firenze Santa Maria Novella dopo una corsa ad ostacoli tra comitive di turisti “talmente intenti ad aggiustarsi nelle orecchie gli auricolari delle loro audio-guide, da riuscire a malapena ad alzare gli occhi per vedere i capolavori del Rinascimento che la voce registrata cerca di far loro apprezzare”.
Secondo la Dunant il nord-est italiano è una miniera d’oro per chi abbia voglia di uscire dal percorso turistico obbligato di Roma-Firenze-Venezia. Ma Ferrara, per lei, ha qualcosa in più. La descrive come “una città-stato vivace fino all’avvento del potere pontificio che la inghiotte nel 1597”. Per secoli alla guida della città padana gli Estensi, che si presenterebbero “inizialmente come un clan di teppisti appena malcelati, per trasformarsi poi in sofisticati mecenati rinascimentali, con un occhio per l’urbanistica e un orecchio fine per la musica”.
Il castello – dice Sarah Dunant – divide il quartiere medievale dal lato cittadino rinascimentale e “nasconde storie di potere cruento”. Qui, nel 1425 Niccolò d’Este fece eliminare la sua seconda e giovane moglie e il suo pressoché coetaneo figlio illegittimo Ugo – per vendicarsi di una presunta relazione tra i due. Uno sfogo che l’autrice di romanzi storici definisce “comprensibile forse per l’irascibilità medievale, fino a quando non si apprende come Niccolò si vantasse di andare a letto con ottocento donne e come i cronisti del tempo lo considerassero il padre di bambini disseminati ovunque, tra la sponda sinistra e quella destra del Po” .
Alloggiata in una camera in corso Porta Reno con vista sulla facciata del Duomo, la Dunant ricorda di essersi svegliata trovando “il mercato in pieno svolgimento , come è successo per secoli” e di come si sia sorpresa a scoprire tutti i negozi costruiti sul fianco della grande cattedrale. Per lei la maggior parte dei vestiti a buon mercato in vendita “ora può venire dalla Cina, ma verdure , salumi e formaggi rotolano ancora qui dalla campagna circostante”.
Ma brava Sarah Dunant, che al posto dei forconi brandisce penna e tablet tra chiostri e chiese, ciclisti e bancarelle.

listone-mag

‘Listone magazine’ racconta ‘ferraraitalia’

Listone magazine”, giornale online ferrarese di raffinato profilo, con un’attenzione particolare al costume, alla cultura e allo spettacolo, ha dedicato a ferraraitalia un articolo, firmato da Licia Vignotto, con intervista al nostro direttore, Sergio Gessi. Ringraziamo i colleghi per l’interesse e la sensibilità dimostrate, affatto scontate fra media potenzialmente concorrenti. Per questo stesso motivo, a pochi giorni dalla nostra ‘nascita’, avevamo espresso gratitudine a Telestense, che ci aveva regalato un gradito augurio.

Queste attestazioni di considerazione, che ricambiamo, ci confortano in una idea di giornalismo fatto di confronto, collaborazione e lealtá, nel rispetto delle reciproche prerogative e autonomie.

In bocca al lupo anche agli amici-colleghi di Listone magazine, al suo direttore Eugenio Ciccone e al valido gruppo di giovani redattori.

Un grazie sincero.
La redazione

Leggi su Listone magazine: “Dal locale al globale le sollecitazioni di Ferraraitalia.it” di Licia Vignotto

luttazzi

Le contraddizioni d’Italia in mostra al ritmo di swing

‘Voglio morire abbronzato’, due verbi e un aggettivo tra ironia e cinismo, una battuta del triestino Lelio Luttazzi, artista eclettico, musicista, attore e regista a cui è dedicata la mostra ‘Lelioswing 50 anni di storia italiana’, allestita fino al 2 febbraio al museo dei Fori Imperiali a Roma. Ci sono le foto, le lettere, gli articoli, le copertine dei dischi, dei libri, un salottino con tanto di televisione vintage e filmati d’epoca. E musica, tanta musica. Luttazzi suona e i telegiornali delle teche della Rai riferiscono di scontri tra studenti e polizia, Lelio spiega dal teleschermo cos’è lo scat nel vocal jazz, conduce in tivù, in radio, scrive, recita, tiene concerti sul filo dello swing mentre Neil Armstrong mette piede sulla luna. Sono godibili dalla poltrona i fantastici i duetti della trasmissione ‘Doppia Coppia’ con Sylvie Vartan: Luttazi al pianoforte, canta con l’artista francesce, il sogno erotico di tutti gli italiani. Lui nel suo impeccabile smoking, lei in minigonna, insieme si prendono gioco dei tanti vecchi ‘adolescenti’ in cerca di amori acerbi dalle carni sode. Niente di strano nell’Italia mai tramontata delle amanti bambine, ma certo una novità per gran parte dei figli del boom economico, ipnotizzati dal rock e dalle ideologie. Si è snobbata la tivù in bianco e nero, la migliore, ignorando i suoi protagonisti, persino i più geniali come Luttazzi epurato dalla Rai per un errore giudiziario. Nel ’70 suo arresto insieme all’amico Walter Chiari riempì le pagine dei giornali e gli fruttò 27 giorni di carcere per presunta detenzione e spaccio di cocaina. Era all’apice della carriera. Ed era innocente. Ne rimase travolto, colpito al cuore. Luttazzi, anima della prima ora della fortunatissima ‘Hit Parade’, pagò un prezzo molto più alto dell’ingiustizia stessa. Riassunse l’esperienza della galera con poche parole ‘una cella fetida, col cesso così piccolo che dovevo prendere la mira’ e scrisse ‘Operazione Montecristo’, il libro cui si ispirò Alberto Sordi per il film ‘Detenuto in attesa di giudizio’. E’ la faccia triste di Lelio, celebrato oggi con grande affetto e un allestimento bello, semplice e completo, nella mostra promossa da Roma capitale, dalla Fondazione che porta il suo nome, curata da Cesare Bastelli, Silvia Colombini e Zètema Progetto Cultura. All’esposizione, alla cui realizzazione ha contribuito la Regione Friuli Venezia Giulia, hanno collaborato di nomi di primo piano del mondo dello spettacolo, l’autore televisivo e scrittore Enrico Vaime, il regista Pupi Avati, il direttore di Ciak Piera Detassis e lo scenografo Leonardo Scarpa. Lelio è pur sempre Lelio. Un ‘portatore sano di smoking’ come lo definisce Vaime, un insegnante sui generis di storia del costume. I suoi messaggi garbati riempiono uno spicchio del vuoto culturale in cui si naviga a vista, come recita uno dei suoi pezzi di successo, Luttazzi è un ‘giovanotto matto’, ma pieno di buonsenso, un narratore inconsapevole dell’italianissimo passaggio dal ‘giazzo’ al jazz. Ha raccontato con eleganza uno stile, un modo di vivere. Dalla lo sapeva meglio di qualunque altro artista, tanto da scrivergli ‘Che swing, Lelio, la vita, che swing!’.

(Info mostra: Roma, Mercati di Traiano – Museo dei Fori Imperiali, via IV novembre 94 – Orari: 9 – 19 chiuso il lunedì. La biglietteria alle 18, un’ora prima del museo. Biglietto intero 9,50 – ridotto 7,50)

bici

Il lato buono della crisi, si vendono più bici che auto

Nel 2012, in Europa, la vendita delle biciclette ha sorpassato quella delle automobili. Un dato considerato storico, registrato già lo scorso anno in Italia, che fa ben sperare non solo gli amanti delle due ruote, ma molti cittadini, stanchi del rumore, del traffico e dell’inquinamento prodotto dalle auto.
Nell’Unione Europea nel 2012 sono state vendute ben 20 milioni di bici contro 12 milioni di vetture. Guida la classifica delle vendite la Germania, con quasi 4 milioni, seguita da Regno Unito (3,6 milioni), Francia (2,8 milioni) e Italia, con 1,6 milioni di cicli contro 1,4 milioni di auto. Tra i 28 Paesi dell’UE solo in Belgio e in Lussemburgo le auto continuano a mantenere il primato delle vendite.
Si può notare però come questa tendenza sia in parte riconducibile alla flessione delle vendite delle auto causata dalla crisi economica: non a caso le vendite maggiori di biciclette sono state registrate nei Paesi dell’Unione con un Pil più basso, come alcuni Stati dell’Est Europa e la Grecia. Inoltre, nonostante i molti simpatizzanti della mobilità sostenibile, in Italia si continua a privilegiare il trasporto su quattro ruote, sia per gli spostamenti commerciali, sia per quelli di routine dentro le mura cittadine: almeno 10 milioni di famiglie ogni giorno compiono il tragitto casa-scuola in automobile, col risultato di aumentare l’emissione di sostanze inquinanti e trasmettere ai propri figli l’abitudine allo spostamento motorizzato.

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Classifica dei primi cinque Paesi dell’Unione europea per vendita di auto e biciclette nel 2012

Insomma, c’è ancora molto lavoro da fare sul fronte dell’ecotrasporto, anche se le amministrazioni locali da tempo si stanno attrezzando nel portare avanti una politica a favore delle biciclette. Ne sa qualcosa Ferrara, dove gli spostamenti quotidiani in bicicletta oscillano tra il 20 e il 30%. La nostra città è particolarmente virtuosa in fatto di ciclabilità e, con i suoi oltre 80 chilometri di piste protette, mostra fiera a chi entra nel centro urbano il suo titolo di “città delle biciclette”, accanto al cartello che ci include nei Patrimoni dell’Umanità dell’Unesco. E di recente, a Ferrara, è approdato il servizio di bike sharing, letteralmente “condivisione della bicicletta”, che permette di prendere a noleggio a prezzi modici bici messe a disposizione dal Comune.
Se per i paesi sviluppati l’uso delle due ruote a pedali evidenzia un’identità legata al rispetto dell’ambiente, altrove, come nel lontano Afghanistan, c’è chi della bicicletta fa un uso rivoluzionario: qui un gruppo di donne ha fondato la prima squadra di ciclismo femminile, e usa questo mezzo per sfidare la mentalità repressiva e rompere con coraggio un tabù che considera questo sport praticato dalle donne immorale.

integrazione

Scuola, noi pionieri dell’inclusione a rischio dis-integrazione

Il nostro paese è fra i pochissimi ad attuare l’integrazione scolastica degli alunni con disabilità nelle scuole pubbliche; sicuramente siamo stati dei “pionieri” in questo campo e chi ha definito addirittura “selvaggi” i primi inserimenti a scuola non ricorda quasi mai che, dalla parte di “frontiera” che ci si è lasciati alle spalle, c’era una “riserva” fatta anche di scuole speciali e di classi differenziali.
“Pionieri, selvaggi, riserva e frontiera” sono termini propri di un vocabolario da colonizzatori del Far West che normalmente non userei se non fossi convinto che il percorso dell’integrazione è stato insolito proprio perché si è scelto di conquistare nuovi spazi per poter accogliere nuovi diritti dentro il panorama della scuola pubblica.
Dal punto di vista normativo sono quasi 43 anni che questa esperienza caratterizza il nostro sistema scolastico, dal punto di vista pratico pochi di meno; quindi è trascorso ormai un lasso di tempo significativo: molti libri sono stati scritti, molti studi sono stati pubblicati, molte ricerche sono state svolte, anche se sono scarse le indagini conoscitive del Parlamento e ancora pochi i testi sull’efficacia delle strategie dell’integrazione.
Siamo stati sicuramente un paese all’avanguardia ma oggi, che il contesto socioculturale è totalmente diverso da quello degli anni settanta, oggi che il mercato sta colonizzando anche il territorio scolastico, oggi che si danno i voti per fare le classifiche, oggi dobbiamo chiederci cosa fare per mantenere alta la tensione ideale su questo che può essere definito “il maggior processo di trasformazione della scuola italiana”.
A volte ho la sensazione che, nel campo dell’integrazione, tra il dire e il fare ci sia di mezzo il “norMare”, cioè una vastità liquida di norme (circolari, ordinanze, note, leggi, legge-quadro), limpide e trasparenti, che purtroppo si raggiungono solo occasionalmente, rimanendo in tal modo distante dal nostro fare quotidiano.
Insomma abbiamo una normativa molto attenta che ha creato un orizzonte ideale di riferimento ma oggi credo valga la pena chiedersi se la scuola sia cambiata adeguatamente o meglio, come canterebbe Gaber, se la scuola che “ha mangiato l’idea” dell’integrazione abbia compiuto completamente la sua “rivoluzione”.
Eppure pedagogisti, insegnanti, ricercatori ed amministratori stranieri vengono nel nostro paese per capire ed imparare come facciamo.
La nostra scuola, di fatto, è vista come un faro per tutti coloro che vogliono navigare nel mare dell’inclusione.
Il motivo è evidente: il processo di integrazione è stato ed è un arricchimento per la società, è un opportunità incredibile di scoperta, di conoscenza, di confronto, di civiltà, di crescita, di maturazione che migliora il clima educativo e che favorisce la ricerca di nuove tecniche didattiche.
Tutti coloro che lavorano faticosamente nella scuola si accorgono ogni giorno dei vantaggi che l’integrazione offre a tutti gli studenti in termini di opportunità formative, di approfondimenti culturali, di strategie individualizzate, di relazioni umane: questi miglioramenti si vedono, si osservano, si documentano, si verificano, insomma si respirano durante il percorso.
Tutti coloro che credono nell’integrazione a scuola sanno che per affrontare il tema della diversità non serve negare il conflitto emotivo e cognitivo che si genera inevitabilmente nella classe; al contrario solo accogliendolo, accettandone le contraddizioni ed analizzandole insieme, si può educare davvero all’accettazione delle diversità, senza inutili pietismi ed ipocriti buonismi.
Tutti coloro che si impegnano per una scuola da vivere come un luogo accogliente sanno che la gestione cooperativa della classe, la relazione di aiuto, lo sfondo integratore, la didattica che adatta i materiali e sceglie i suoi strumenti, l’individualizzazione dei percorsi sono strategie efficaci ed utili non solo per motivare gli studenti ma per migliorare lo stile dell’insegnamento e gli effetti dell’apprendimento.
Noi lo sappiamo.
Tutta questa ricchezza invece non interessa a chi, usando i test per valutare gli apprendimenti, in nome di una presunta oggettività, intende stilare la classifica fra scuole e dentro le scuole fra le classi e dentro le classi fra alunni.
Questo patrimonio non interessa affatto a chi pensa che il problema della complessa valutazione dei ragazzi con disabilità si risolva escludendoli dalle prove nazionali.
Per molti di noi è chiaro che i test, così strutturati, così somministrati e così analizzati, sono uno strumento diagnostico improprio, usato da un guaritore imperfetto, per imporre una terapia d’urto scorretta che fa della sottrazione l’operazione aritmetica preferita per togliere personale, risorse, spazi, diritti e democrazia.
In poche parole al fenomeno dell’integrazione non viene attribuito “valore” in alcun modo, nonostante esso sia un elemento da indagare proprio perché potrebbe restituire il grande sforzo di attenzione della scuola ai sogni e ai bisogni di tutti e di ciascuno.
Noi che ci crediamo dobbiamo proporre una valutazione di sistema che valorizzi tale aspetto, che sia da affidare ad un ente indipendente, che coinvolga gli organi collegiali, che svolga i suoi compiti in una logica di ricerca inclusiva, che presti la dovuta attenzione alle caratteristiche del sistema nel suo insieme, che divenga strumento di lavoro condiviso ed efficace per una trasformazione positiva, che si preoccupi di facilitare la cooperazione e non la competizione, che eviti di scrivere sulla lavagna le scuole buone e dall’altra quelle cattive ma che metta a disposizione gli esiti per il miglioramento di tutte le scuole.
In tale logica, il processo di integrazione scolastica degli alunni con disabilità, se lo si considera davvero “un punto di forza del nostro sistema educativo”, meriterebbe di essere considerato coerentemente.
Noi che ci crediamo dobbiamo riuscire ad inserire, all’interno di una valutazione seria del sistema Scuola, la qualità dell’integrazione come elemento fondamentale; dobbiamo riuscire ad individuare dei buoni indicatori di qualità per arrivare poi a definire dei Livelli Essenziali di Qualità dell’Integrazione.
Indicatori che facciano riferimento ad esempio alla disponibilità di risorse strutturali, all’assegnazione e alla formazione del personale, alla loro collegialità nel progettare e alla corresponsabilità nell’agire, alla continuità e alla stabilità del personale, alla differenziazione dei percorsi, alla qualità del tempo scuola e all’organizzazione scolastica in generale.
Inoltre dovremo riuscire a dimostrare quanto il contesto socioculturale abbia influito negativamente in questi ultimi anni e quanto possa essere deleterio il ritorno ad istituzioni speciali o differenziate, non solo dal punto di vista socioculturale ma anche “spudoratamente” economico.
Se infatti consideriamo il panorama culturale e politico che sottrae la dignità al lavoro dei docenti, che “taglia e toglie” risorse, che svaluta le scuole pubbliche e privilegia quelle private, che favorisce la competizione fra scuole considerandole mercati di opportunità formative, che consente l’ingresso dei privati per inopportune sponsorizzazioni, che impone di raggiungere determinati standard, si avverte forte il rischio che anche le scuole, condizionate dal clima, ostacolino le politiche di inclusione poiché potrebbero abbassare il loro rendimento e la loro prestazione complessiva.
Se poi esaminiamo le osservazioni riferite alla Camera nel 1998, durante l’indagine conoscitiva svolta dalla Commissione Cultura coordinata dall’onorevole Sbarbati, si nota che sono stati segnalati problemi reali (nei rapporti con i Servizi Sanitari, le difficoltà nel rispettare Accordi di programma, la scarsa formazione degli insegnanti curricolari, la propensione alla delega all’insegnante di sostegno) ma anche che viene indicata la strada per la creazione di scuole particolarmente attrezzate per i casi “gravi”.
Possiamo concludere quindi che il rischio di una “disintegrazione” dell’esperienza maturata è ben presente.
Se infine prendessimo alcuni indicatori (ad esempio l’emanazione di norme, le occasioni di studio e di ricerca, le attività dei gruppi di lavoro e dell’Osservatorio Permanente) potremo concludere tranquillamente che dal giugno 2001 ad oggi (cinque anni di Moratti, due di Fioroni, tre anni e mezzo di Gelmini ed uno e mezzo di Profumo) l’attenzione dei governi all’integrazione è stata davvero molto bassa ed il silenzio esplicito e fastidioso.
C’è quindi il pericolo di farsi condurre verso un futuro di esclusione attraverso il ritorno ad un passato di separazione.
Può essere di sicura utilità far tesoro delle esperienze precedenti cercando di migliorarle.
Ad esempio qualche anno fa, tra il 2005 e il 2006, ho partecipato ad un Gruppo di Lavoro misto (MIUR, Invalsi, Associazioni delle Famiglie) nato dall’esigenza dell’Osservatorio Permanente per l’Integrazione Scolastica di monitorare la situazione.
Il gruppo ha discusso a partire da un’ipotesi di indicatori e descrittori per la qualità dell’integrazione scolastica.
Le indicazioni di lavoro del gruppo non sono però state raccolte pienamente (anzi a tratti sono state stravolte dall’Invalsi e dal Ministero).
È stato realizzato un questionario di rilevazione dell’integrazione scolastica che aveva lo scopo di: rilevare informazioni sullo stato dell’integrazione; dare ulteriore impulso all’integrazione di qualità; fornire alle scuole strumenti per l’autoanalisi; esplorare indicatori idonei alla rilevazione della qualità dell’integrazione.
Tale questionario era strutturato in: Dati generali (relativi all’Istituto); Elementi di struttura (la formazione delle classi, l’assegnazione di ore dei sostegni, la collaborazione fra docenti e dei docenti con i non docenti, la costituzione ed il funzionamento dei gruppi di lavoro, l’erogazione di risorse, la disponibilità di tecnologie e di sussidi, la presenza di barriere architettoniche e percettive); Elementi di processo (la continuità, l’accoglienza, la chiarezza e la condivisione con le famiglie delle certificazioni e dei documenti, l’articolazione degli spazi, l’utilizzo del personale di sostegno e non, la socializzazione e le relazioni con i compagni di classe); Elementi di risultato (la modalità di valutazione degli apprendimenti, dell’autonomia, della comunicazione, della socializzazione, delle relazioni, dell’integrazione).
Le scuole hanno avuto modo di rispondere sia on-line che off-line alla fine dell’anno scolastico 2005/2006.
La ricerca è stata effettuata su un campione non rappresentativo, in quanto il questionario è stato compilato su base volontaria.
Ha risposto quindi solo il 62% delle scuole e la percentuale di quelle Secondarie di Secondo grado è stata bassissima.
Sono emersi comunque dati preoccupanti sull’affollamento delle classi, sulla inadeguatezza nella formazione dei docenti curricolari, sulla mancanza del titolo di specializzazione per molti insegnanti di sostegno, sui ritardi nella nomina di questi ultimi, sulla scarsa formazione specifica dei Dirigenti Scolastici, sulla discontinuità didattica, sulla presenza di barriere architettoniche e sulla scarsa chiarezza delle diagnosi funzionali.
Sono tutti presupposti fondamentali dell’integrazione che segnalano un basso livello qualitativo.
Se però si analizzano attentamente i dati, ci si accorge che la maggior parte di questi aspetti critici è dovuta a quel contesto di “disintegrazione” che è conseguenza delle politiche messe in atto dai governi degli ultimi 12 anni (aumento del numero minimo di alunni per classe e del numero di alunni con disabilità per classe, nomina in ritardo degli insegnanti di sostegno e loro ricambio dopo qualche settimana, mancata assegnazione del giusto numero di ore di sostegno, discontinuità del personale come conseguenza della precarietà, frammentarietà dei docenti come risultato di assurde classi di concorso nella scuola secondaria di secondo grado).
In questi casi quindi chi deve ricevere una valutazione molto bassa è il Ministero che non applicando le norme vigenti, elude ed evade l’impegno nei confronti dell’integrazione condizionandone il buon esito.
In questi casi gli insegnanti ed il personale Ata sono acrobati di un circo di periferia che camminando su un filo sottile e senza rete, riescono comunque a provocare grandi suggestioni.
In pratica la scuola pubblica, nonostante le mille difficoltà create da un contesto ostile, riesce a resistere con tenacia.
In una valutazione di sistema che coinvolga l’integrazione andrebbero approfonditi anche altri aspetti: ad esempio l’adeguatezza o meno dell’assegnazione di risorse, l’uso proprio ed improprio degli insegnanti di sostegno, la dotazione dei collaboratori scolastici per l’assistenza di base; l’eventuale coinvolgimento degli insegnanti curricolari nella presa in carico, la partecipazione delle famiglie; l’inserimento nel Piano dell’Offerta Formativa di un protocollo di accoglienza; la documentazione del percorso educativo; la presenza di centri di consulenza per le scuole; la presenza ed il funzionamento dei gruppi di lavoro ed il loro eventuale coordinamento regionale.
Sarebbe da indagare con più profondità anche il mondo delle scuole private; non solo negli aspetti sopra citati ma anche per ciò che riguarda elementi molto più materiali come la ripartizione della spesa per l’insegnante di sostegno (giungono molte segnalazioni che spesso venga fatto ricadere quasi totalmente sulla famiglia).
Io penso che in questi “anni di frontiera” noi dobbiamo provare a “tenere alta l’attenzione” sull’integrazione scolastica degli alunni con disabilità portando idee, contributi, esperienze affinché non sia accettato passivamente e acriticamente il dogma di uno standard da raggiungere, tarato su una normalità decisa da altri e totalmente incurante di ciò che avviene nel percorso insegnamento/apprendimento.
Con un gioco di parole, ricordo che l’anagramma della parola: “valutazione” è “violenza tua”; sono consapevole del fatto che sia soltanto un divertimento linguistico, suggerisco però di ragionare attorno al fatto che quello dell’insegnante è davvero un mestiere potente; per questo tutto ciò che riguarda l’educazione, in futuro, andrebbe trattato con estrema cura, con delicatezza, pazienza e rispetto, con competenza e professionalità.
Noi che, anche nel paesaggio scolastico di oggi, abbiamo scelto di percorrere “La strada giusta”, dobbiamo cercare i mezzi capaci di accogliere nuovi compagni di viaggio, dobbiamo produrre l’energia pulita e ricaricabile necessaria per muoversi e poi dobbiamo anche riuscire a non perdere l’orientamento che, per me, vuol dire “tenere la sinistra” cioè procedere verso una scuola che educhi ai saperi e alle libertà, che non insegni a crepare ma a creare, che aiuti ad imparare e non a separare, che si preoccupi delle relazioni e non metta in atto delle discriminazioni, che parta dall’integrazione scolastica e che porti all’inclusione sociale.