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Il profondo legame per il territorio suggerisce all’autore un canto sugli aspetti della campagna: la sua gente, il fiume, le stagioni, il lavoro. Le policromie dei raccolti, dei frutti e dei fiori, il canto dei raccoglitori e il rumore dell’acqua si intrecciano nel ricordo di gesti quotidiani.
Una scelta consapevole quella di esprimersi in vernacolo: per raccontare anche ai più piccoli da dove vengono le parole dialettali.
(Ciarìn)

La nòstra tèra

Che bèl, a la matìna, uƞ salùt col surìś,
l’ària ch’la sà da fén e da grugnó,
int l’àra, ai pasarìƞ butàr uƞ pugn ad brìś,
la źdóra da la fnèstra ch’la scròla i so laƞzó.

Che bèl stàr a la sprùgla,
d’iƞvèrn a téś al mur
e zcórar in dialèt dal témp ch’al rùgla
che s’al n’as pòl farmàr ch’al pasa pur.

Che bèla la campàgna ch’la s’imbiónda ad furmént
coll ròśal ch’i la màcia ad rós e d’vèrd,
ill cànn dill val indù s’intriga al vént,
al cànt dì ztàcarìƞ che tra i filàr al s’pèrd.

Che bèl a l’ómbra d’n’ólam
sul’àrźan a scultàr,
as sént al Po che, càlam,
al śbriśga vèrs al mar.

Che bèl favràr tut biaƞch,
che quànd a spióna al sól,
la név l’as tira ad fiàƞch
par lasàr pòst al viòl.

Guardàr luntàn i prà
e l’ fil ch’i fà i sulcàr,
fìn dù che j’òć i và
al ziél ch’al pógia par.

Che bèl int la basóra
al sól ch’al pèrd al fìl,
ill piòp ch’ill śluƞga l’òra
e i śghìt ch’i torna al fnìl.

Bèla la źuantù,
che spès l’am tórna iƞ mént,
“L’è ‘ƞ pcà ch’la n’agh sia più”
la diś la nostra źént.

Aƞziàn e stralaƞcà, al sarà bèl preciś,
cuntàr a chi putìƞ
che ill ciàcar di frarìś
ill vién dal vèć latìƞ.

E se la sgnóra négra a l’us la piciarà,
agh duvrén dìr ch’la vàga indù ch’la jéra.
L’è sèmpar témp d’andàr a stàr là dlà,
ch’l’è bèla da campàr la nostra tèra.

 

La nostra terra (traduzione dell’autore)

Che bello alla mattina, un saluto con il sorriso, / l’aria che profuma di fieno e di pane, / nell’aia, ai passerotti, gettare un pugno di briciole, / la massaia, dalla finestra, che scrolla le sue lenzuola. / Che bello stare al sole, / d’inverno, accostati al muro / e parlare in dialetto del tempo che scorre / che, se non si può fermare, passi pure. / Che bella la campagna che si imbionda di grano / coi papaveri che la macchiano di rosso e di verde, / le canne delle valli dove si intrufola il vento, / il canto dei raccoglitori che tra i filari si perde. / Che bello all’ombra di un olmo / sull’argine ad ascoltare, / si sente il Po che, calmo, / scivola verso il mare. / Che bello febbraio tutto bianco / che quando si affaccia il sole, / la neve si sposta di lato /per lasciare posto alle viole. / Guardare lontano i prati / e le file che fanno i solchi, / fin dove arrivano gli occhi /il cielo che appoggia piatto. / Che bello al tramonto, / il sole che perde il filo, / i pioppi che allungano l’ombra / e i rondoni che tornano al fienile. / Bella la gioventù, / che spesso mi torna in mente, / “Peccato non ci sia più” / dice la nostra gente. / Anziani e sciancati, sarà bello lo stesso, / raccontare ai bambini / che le parole dei ferraresi / vengono dall’antico latino. / E se la signora nera all’uscio busserà, / dovremo dirle di tornare dov’era. / C’è sempre tempo di andare ad abitare di là, / perché è bella da vivere la nostra terra.

Tratto da: Carletto Fedozzi, Scurs e fat (da tgnir da cat) : discorsi e fatti (da conservare), poesie in dialetto ferrarese,
Ferrara, 2G Editrice, 2016.

Carletto Fedozzi (Migliarino 1947)
È stato amministratore comunale ricoprendo diversi incarichi nel suo paese natale. Ha lavorato in vari zuccherifici della provincia di Ferrara. A lungo attivista sindacale in importanti vertenze a Migliarino e a Comacchio. Appassionato di archeologia, vulcanologia e storia del territorio ferrarese.
Ha iniziato giovanissimo a comporre versi in italiano e in vernacolo, ricevendo premi nei concorsi dialettali.

 

 

Al cantóη fraréś: testi di ieri e di oggi in dialetto ferrarese, la rubrica curata da Ciarin per Ferraraitalia, esce ogni 15 giorni al venerdì mattina. Per leggere le puntate precedenti clicca [Qui] 

In copertina:  Semina – foto di Marco Chiarini

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Ciarin


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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