GRANDE TEATRO E VOCI TRA GLI ALBERI
GRANDE TEATRO E VOCI TRA GLI ALBERI
Il poeta è un fingitore.
Finge così completamente
che arriva a fingere che è dolore
il dolore che davvero sente.
Così l’incipit dell’Autopsicografia di Fernando Pessoa nella traduzione di Antonio Tabucchi. Inutile dire che si può facilmente sostituire poeta con attore, con clown, per sentire subito echeggiare un risata in grado di nascondere lacrime. L’artista saltimbanco, quale che sia la sua declinazione, si muove infatti con leggerezza sull’abisso (ne ha scritto Jean Starobinski in un libro da ricordare: Ritratto dell’artista da saltimbanco), quasi dimentico della fragilità che ben nascosta deve pure avere dentro di sé.
Insomma, senza lacrime il suo messaggio ci arriva accompagnato soltanto da bravura, da lucidità, da coraggio. Esattamente quelle che si sono viste in questi giorni in un magnifico spettacolo andato in scena alla Pergola con la regia di Massimo Popolizio.
In primo piano Umberto Orsini, straordinario interprete di se stesso e non solo che, alla fine di una luminosa carriera, nel camerino di uno spoglio teatro, rappresentando l’attesa dell’ingresso in palcoscenico del marito abbandonato nel Temporale di Strindberg, offre al pubblico, in una totale mimesi di realtà e finzione, una sorta di duplice mise en abîme. Quella del teatro che si riverbera sulla vita, offrendole situazioni, battute, ivi compresa la coscienza della fine; quella di una biografia (presente, passata) che mentre si mostra e si ripercorre si trasforma in teatro, accompagnata da un ironico disincanto.
Bastano alcune coincidenze tra i due testi per alimentare il gioco di specchi: la presenza dell’uomo del ghiaccio e della giovane guardarobiera sia nella realtà fittiva della rappresentazione di oggi (Prima del temporale) che nella finzione drammatica a cui si collega (Il temporale); i tuoni ‘reali’ di una giornata scura a cui corrispondono ‘figuralmente’ quelli di una piovosa, letterariamente lontana estate svedese.
Più assordanti, certo, questi ultimi, affidata com’è la loro trasposizione all’inesperienza dei rumoristi, mentre più marcata e diffusa è la critica sulle trasformazioni del mondo che una vecchiaia più pronunciata consente di rimarcare nella nuova pièce con una sorta di amaro, impaziente, ma perfino benevolo sorriso.
Giacché se nel testo da camera stindberghiano il protagonista ha paura della vita e preferisce rifugiarsi in una solitaria clausura, Orsini, nel suo sold out (titolo del libro all’origine dell’attuale rappresentazione nel quale, con una felice espressione, il successo sotteso a ogni ‘teatro esaurito’ finisce per coincidere con la conclusione di una vita da cui non si può che restare fuori, finito ormai il tempo che era stato concesso), non interrompe i rapporti non solo con i ricordi, ma con i compagni di lavoro: le comparse che ruotano intorno a lui sul palcoscenico, mantiene intatte partecipazione e empatia, mentre osserva e valuta il presente consapevole che le gocce d’acqua si stanno progressivamente sciogliendo, insomma che il ghiaccio è ormai quasi esaurito.
Una vita pienamente vissuta (quella di Orsini) è accostata a una vita strozzata (quella del funzionario in pensione del testo di inizio Novecento), l’una e l’altra nell’incanto del teatro e nella scelta di un’opera che a dispetto di tutto è tra le meno gridate e crudeli di Strindberg, priva com’è degli eccessi della follia o della spinta misogina che in altre porta alla tragedia. Infatti nel Temporale di Strindberg la pratica della noluntas ha attenuato tutto ed è con il poco di vita che resta che si fanno i conti, scegliendo di spengerla rimanendo lontano dalle passioni.
Per passare ad altro, pur restando nel campo della letteratura svedese, lo stesso tono equilibrato, sommesso, colpisce se si legge un libro appena uscito dall’editore Crocetti che offre una scelta, felicissima, di tre voci poetiche femminili contemporanee. Queste poetiche Voci di donne dal Nord che la curatrice e traduttrice, Cristina Lombardi, propone come le più originali e significative che possano arrivare oggi da Stoccolma e della Svezia settentrionale, sono un giusto contrappunto – si potrebbe dire – alla crudeltà delle donne di Strindberg.
Nate tra il ’47 e l’80, Eva Ström, Ann Jäderlund, Linnea Axelsson, dopo una solida formazione umanistica, letteraria e artistica, accanto a un’avviata carriera professionale, hanno portato nei loro versi l’amore per la natura, l’attenzione all’interiorità, la capacità di dar voce a quanto è normalmente trascurato in ogni paese, in particolare nella loro terra.
Se la più giovane Axelsson si lancia in una sorta di poema epico che dà voce alle popolazioni lapponi (i Sami) e a una storia dimenticata di un nord Europa costretto al nomadismo tra renne, pioggia e ghiaccio che stanno fitti nello “zaino / del cuore” per colpa di frontiere colpevolmente chiuse, Eva Ström ci restituisce la natura vivente, ‘sacra’, di un paesaggio fatto di distese di alberi (sicomori, castagni, salici, tigli, pioppi, betulle, faggi, ontani, aceri, pini, cipressi, frassini, querce…) che negli anni del Covid hanno offerto una sorta di contrappunto all’asfissia lenta che aveva colpito il mondo.
Proprio da loro sembra poter arrivare salvezza. Non è un caso che il bosco si animi, parli, diventi un luogo di rifugio per gli umani.
Sarà allora a Dafne (prototipo di ogni auspicata metamorfosi contro la violenza) che si indirizzerà una poesia in grado di “illuminare da lontano, anche attraverso la notte d’inverno”, mentre il baobab (l’albero capovolto dall’invidia di Dio) diviene simbolo della conoscenza (“nessuno ha braccia sufficienti ad abbracciarla ma l’acqua vi scorre dentro”) e ogni sogno non è altro che desiderio di fusione con ciò che sta accanto e sopra di noi (“prego ogni sera […] / di poter viaggiare in lungo e largo / per cieli stellati e sorvolare fiumi […]. Rido nel sonno e sento le galassie precipitarsi su di me / creo ogni notte questi ammassi di stelle per me stessa / e ci volo in mezzo con intrepida gioia”).
In effetti, se la scienza non sa dare risposte, non rimane che rifugiarsi nei sogni e nell’accettazione dell’alternanza di vita e morte, del lento, fatale ritorno a un’origine che prelude rinascita, nell’adeguamento alla scansione ‘sacra’ e necessaria dei ritmi della natura. Anche in questo gli alberi dovrebbero esserci maestri, già che “devono essere potati perché nuovi germogli possano spuntare e / riempirsi di nuova linfa”. Solo da loro può nascere anche la liberazione del viaggio, quello che porta verso le ultime Ebridi, giacché se davvero si desidera “la trasformazione che si compie / in viaggio […] / se davvero è così in nessun altro modo, se proprio è così, / se è così, / allora [… si è] spento le luci di casa / e [… si è] già in viaggio”.
D’altronde, lo ricordava il Paul Celan posto in esergo a una lirica di Ann Jäderlung, “Una stella ha certo ancora luce”; una luce che si può tentare di seguire mentre il sole muore se si sceglie di volare in sogno attivando così lo specchio/specchio, ovvero la luce che “da un grande schermo si riversa / sul pavimento e / si espande”. Esattamente come “quando la vita se ne va” e “Ogni corpo / gravato dal suo peso. Si libera / dal corpo reale. / Ed entra nell’altro”, mentre “l’acqua si scioglie nel /vetro l’acqua / si scioglie da dentro / nel vetro sottile”.
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