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Secondo i dati forniti dal Ministero dell’Interno (Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione) relativi agli ultimi due anni, la stragrande quota dell’immigrazione in Italia che passa per la rotta mediterranea, proviene dall’Africa sub sahariana, in particolare da paesi quali Nigeria, Eritrea, Guinea, Costa d’Avorio, Gambia, Senegal, Mali, Sudan e Somalia. Nel 2015 sono arrivati da queste nazioni il 66% dei migranti e nel 2016 oltre il 73%. Se si tiene conto che i paesi dell’area sub sahariana sono però 48, è facile stimare che la proporzione giunta da quelle zone sia stata sicuramente superiore all’80% nel 2015 e addirittura superiore al 90% nel corso dell’ultimo anno.
Tra tutti i paesi che compongono questa parte del mondo è proprio la Nigeria il paese dal quale proviene la quota più massiccia di migranti sbarcati in Italia nell’ultimo anno, quota stimabile intorno al 25%. In tale quadro generale diventa importante comprendere meglio le caratteristiche demografiche di quei paesi e di quell’area valutandone le specificità rispetto al resto del mondo.
Come noto, la popolazione attuale di 7,4 miliardi di persone è destinata, secondo le stime, a crescere fino a 10 miliardi entro il 2050. Il problema, tuttavia, non è la crescita complessiva ma, piuttosto, la straordinaria differenza con la quale essa si manifesta in diverse parti del mondo, una tendenza talmente forte da essere già nel breve periodo assolutamente rivoluzionaria. Senza entrare in dettagli complessi basta dare un’occhiata alla distribuzione dei tassi di natalità nelle varie zone del mondo per afferrare i termini del problema; il tasso di natalità per l’Asia e l’America latina è di 2,2 figli per donna, che equivale grosso modo al livello di rimpiazzo generazionale e quindi corrisponde ad una situazione tendenzialmente stazionaria, connotata da un lieve incremento demografico nel medio periodo. La Cina, il paese più popolato del mondo, dove si applica da decenni una politica draconiana di contenimento delle nascite (che tuttavia oggi sembra causare molti problemi connessi all’equilibrio demografico interno) può vantare un tasso di natalità di 1,6; il Brasile, potenza economica emergente, un tasso di 1,8. Numeri analoghi valgono per l’area europea nel suo insieme che rimane ben al di sotto del livello di rimpiazzo. Con una popolazione che già oggi sfiora il miliardo di persone (988 milioni) l’Africa sub sahariana ha invece un tasso che supera mediamente i 5,1 figli per donna, una cifra che, rimanendo costante ancora per qualche decennio, porterebbe a triplicare la popolazione entro il 2050. Escludendo la repubblica Sudafricana, i paesi dell’Africa sub sahariana dai quali provengono negli ultimi anni i migranti che hanno eletto l’Itala a propria destinazione si trovano dunque in una situazione esplosiva dal punto di vista demografico, fattore che, a cascata, influenza tutto il resto. E’ ovvio che quella parte del mondo si trova oggi allo stato iniziale di una violenta transizione demografica che per l’Europa è durata secoli e che non ha ancoro trovato una stabilità definitiva.
Per comprendere ancor meglio la situazione vale la pena confrontare (dati sul PIL alla mano) quelle che sono le due più potenti economie e i paesi più popolosi rispettivamente dell’Europa (Russia esclusa) e dell’Africa. Stanti i trend attuali e secondo quanto riportato nel testo “Il pianeta stretto” (editrice Il Mulino) del demografo Massimo Livi Bacci, la Germania, che ha oggi 80,7 milioni di abitanti, ne avrebbe 71,9 mln nel 2050 con una diminuzione del 10,9%; la Nigeria, che ne ha oggi 182,2 milioni, ne avrebbe nello stesso anno 509,3 mln con un aumento del 173%, crescendo praticamente di quasi 3 volte.
Se la Germania – e più in generale l’Europa – fosse un sistema chiuso e, per così dire, isolabile dal resto del mondo, questo calo di popolazione sarebbe auspicabile per molti aspetti (minor impatto ambientale, minori problemi derivanti dalla disoccupazione tecnologica) anche se causerebbe, stante l’attuale struttura ed organizzazione sociale, pericolose diseconomie connesse ai sistemi pensionistici e sanitari e al deficit pubblico derivante dal capovolgimento della piramide dell’età, dovuto al rapido invecchiamento della popolazione.
Se, allo stesso modo, la Nigeria e tutta l’area subsahariana fosse un sistema isolato sarebbe assolutamente impossibile garantire un sufficiente tenore di vita a tutte quelle persone, senza un radicale sviluppo economico e tecnologico, che farebbe comunque aumentare in modo devastante e insostenibile la pressione sull’ambiente. Risolvere questa situazione è estremamente difficile, ma, nel medio lungo periodo, non impossibile adottando prospettive di stampo occidentale: bisognerebbe, da un lato, abbattere urgentemente la velocità di crescita demografica e, dall’altro, investire in tecnologie che non siano sostitutive della manodopera, ma possano garantire la produzione di beni essenziali tramite attività ad alta intensità di lavoro.
Si tratta di soluzioni oggi difficilmente implementabili a causa di diversi fattori: l’assenza di leadership locali legittimate e riconosciute a livello internazionale che abbiano davvero a cuore le popolazioni e lo sviluppo dei propri paesi; la straordinaria corruzione degli apparati amministrativi statali, e, direttamente connesso a questo, gli interessi dei paesi più ricchi e potenti in quelle zone (ricchissime di materie prime indispensabili al primo mondo); la persistenza di culture fortemente orientate alla natalità e, a fronte di questo, l’inefficacia o l’inesistenza di adeguate politiche sociali capaci di regolare il fenomeno; il fallimento delle strategie di cooperazione internazionale che, alla luce dell’esplosione demografica e della povertà endemica, non sono state capaci né di creare le condizioni necessarie a costruire adeguate infrastrutture, né di migliorare le conoscenze e la qualità del capitale umano disponibile in loco.
Ciò premesso, in assenza di azioni decise, vaste e concordate, considerando che simili squilibri demografici non si risolveranno da soli (almeno nel breve e medio periodo), il rischio di un aumento esponenziale dei flussi migratori verso l’Italia e l’Europa è altissimo. Ma non solo: in prospettiva strategica e geopolitica questa situazione demografica, che rende possibili migrazioni di massa, rappresenta una possibile arma attivabile a piacere attraverso l’apertura o chiusura dei confini, che gli attori globali e i paesi più poveri possono usare nei confronti delle più ricche democrazie occidentali.
L’intera area subsahariana è una bomba demografica che illustra come il concetto di sostenibilità, mantra di ogni discussione sul futuro del mondo, sia stato declinato e sviluppato lungo molte direzioni, escludendo quasi completamente il problema demografico, che invece era stato al centro dell’attenzione negli anni settanta del secolo scorso. Molte delle ipotesi sviluppate in quegli anni sono state bollate di catastrofismo, man mano che il pendolo delle mode intellettuali andava spostandosi dal polo del pessimismo maltusiano a quello dell’ottimismo tecnologico, incentrato sul paradigma del mercato e della crescita economica infinita, secondo un’oscillazione che si è ripetuta più volte nel corso degli ultimi due secoli. L’allarme demografico di allora fu derubricato tra le normali vicende del pianeta e cadde nel dimenticatoio, anche a causa di certo atteggiamento politicamente corretto che vedeva in esso una forma di imperialismo o paternalismo occidentale, ritenuto avverso alle istanze di sviluppo e di definitiva liberazione di popoli e nazioni che, in molti casi, erano da poco uscite dalla fase del colonialismo.
Tanto dunque si è parlato e si parla di sviluppo sostenibile dimenticando che vi è alla base una sostenibilità demografica a lungo negata, i cui effetti si mostrano adesso in tutta la loro evidenza.
Oggi vengono al pettine i nodi di tutte quelle colpevoli negligenze e si pagano i costi dello sfruttamento perpetrato nei confronti di paesi africani. Intanto però le multinazionali occidentali sponsorizzate dai rispettivi governi (comprese le grandi imprese italiane come l’Eni) intrattengono fortissimi legami e fanno affari d’oro con le (spesso) corrottissime e ricchissime élites dei paesi sub-sahariani dai quali provengono i maggiori flussi di migranti.
Di fronte a questa situazione complessa l’intero fenomeno migratorio può essere letto in una diversa luce; ognuno poi potrà decidere se sostenere l’accoglienza a tutti i costi e ad ogni condizione, se porsi nella prospettiva di un immediato rilancio della cooperazione internazionale, se propendere per un radicale cambiamento nei rapporti economici e politici tra paesi ricchi e paesi poveri o se immaginare qualcos’altro.
Di sicuro servono soluzioni molto creative e molto decise e, soprattutto, servono da subito. A meno che, come pare abbia consigliato il Dalai Lama, la soluzione al problema della sovrapopolazione non sia semplicemente quella di avere molti più monaci.

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Bruno Vigilio Turra

È sociologo laureato a Trento. Per lavoro e per passione è consulente strategico e valutatore di piani, programmi e progetti; è stato partner di imprese di ricerca e consulenza e segretario della Associazione italiana di valutazione. A Bolzano ha avuto la fortuna di sviluppare il primo progetto di miglioramento organizzativo di una Procura della Repubblica in Italia. Attualmente libero professionista è particolarmente interessato alle dinamiche di apprendimento, all’innovazione sociale, alle nuove tecnologie e al loro impatto sulla società. Lavora in tutta Italia e per scelta vive tra Ferrara e le Dolomiti trentine.

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