MEMORIA
Quella notte in redazione alla Gazzetta: lezione di giornalismo del direttore Rai
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“La prima lezione di giornalismo? Per me è stata quella notte in redazione alla ‘Gazzetta di Mantova’”. Fa un certo effetto ascoltare una testimonianza come quella di Fabrizio Binacchi per chi lavora o ha lavorato in un giornale locale e magari l’ha fatto accanto a una vecchia leva di giornalisti che, a scrivere al computer, non si è mai rassegnata. Il giornalista e direttore della sede regionale Emilia-Romagna della Rai, Fabrizio Binacchi, era a Ferrara in occasione della giornata di consegna del Premio Stampa 2017, organizzata sabato 29 aprile 2017 dall’Associazione stampa di Ferrara nella sala del Consiglio comunale cittadino.
Binacchi è mantovano e ha iniziato il mestiere come cronista alla ‘Gazzetta di Mantova’, che è il giornale più antico d’Italia (fondato nel 1664), ma soprattutto il quotidiano di una realtà circoscritta con una forte identità territoriale e per la quale quella testata ha una grande autorevolezza. Un’autorevolezza inimmaginabile per chi, come me, ci è arrivata per un tirocinio da allieva ventenne della scuola di giornalismo di Bologna. La cosa che colpisce chi si trova per la prima volta a scrivere su un quotidiano locale di questo tipo è il modo in cui ogni singola riga, scritta su quelle pagine, viene letta e considerata da ogni cittadino. Se la Gazzetta non scriveva una cosa, in pratica quella cosa non esisteva. Ogni termine era da soppesare prima di metterlo nero su bianco, sennò il giorno dopo di sicuro arrivava alla porta della redazione qualcuno per protestare, precisare, rettificare.
Il discorso di Binacchi ha poi un valore esemplare, al di là dei ricordi personali, perché fa ripartire il giornalismo dalle radici, dalla cronaca piccola, cittadina e provinciale. Un contesto in cui una virgola fuori posto o un aggettivo di troppo possono provocare reazioni scomposte, dove il lettore pretende un’attenzione ai fatti e una precisione nel resoconto di cronaca che lascia poco spazio alla fantasia creativa.
Binacchi fa notare: “La formazione obbligatoria entrata in vigore per i giornalisti iscritti all’Ordine professionale in qualche maniera supplisce a quella realtà di esempio e di modello che, una volta, si trovava normalmente nelle redazioni. Non dimenticherò mai, a proposito di atmosfere, la prima luce che mi ha dato una sensazione giornalistica: una notte in redazione alla ‘Gazzetta di Mantova’. Io ero lì da qualche giorno, facevo ancora l’università, e sostituivo un collega del turno di chiusura notturno”.
“Ricordo quella notte – prosegue Binacchi – dove per me tutto era ancora nuovo. Questo stanzone della cronaca, ovviamente carta stampata, ancora piombo, ancora la misurazione dell’ingombro nelle pagine con la corda, neanche con i moduli. Sono le dieci circa di sera e il collega della nera e della giudiziaria con gli occhialetti così, che buttava i suoi polpastrelli (due, rigorosamente due) a fare le sei-sette cartelle di cronaca giudiziaria. Sei-sette facciate, che adesso quando si fanno venti righe si è finito! Io lo guardavo già come a un monumento all’esercizio giornalistico. Nel frattempo mi chiama in tipografia il ‘proto’ [il tipografo che distribuisce e coordina il lavoro nel reparto composizione per la stampa, ndr] e, in stretto dialetto mantovano, mi dice “ve’ Binacchi, ag manca do’ coloni e mes in cronaca” (cioè, mancano due colonne e mezzo di testo in cronaca). Mi rendo conto che, in effetti, è un bel problema. Dico: “vado a informarmi e poi naturalmente rientro e rimediamo”. Vado in redazione e riferisco a Paolo Ruberti, che era il collega della giudiziaria che stava scrivendo quel pezzo: “Paolo, ci mancano due colonne in cronaca”. Lui senza staccare gli occhi, replica “ve’ Binacchi, impara: Dio vede e Dio provvede”. E lì non sapevo più cosa dire. Dopo dieci minuti circa, squilla il telefono, “pronto polizia stradale, due morti sulla Brennero”. Allora lo dico a Paolo e lui risponde: “vedi, Dio vede e Dio provvede”. Ecco, c’era quella quota di cinismo, ma anche quella quota di predestinazione giornalistica all’interno dell’atmosfera anche di un turno di notte, che portavano a prendere il cronista più navigato come un modello. Non importa se non aveva mai trasferito il suo ruolo di maestro nell’esercizio professionale di cattedra. C’era qualcosa che ne faceva un esempio attraverso il suo stesso comportamento, la sua stessa saggezza, il suo stesso modo di affrontare le necessità e gli imprevisti del mestiere”.
A proposito di lezioni di vecchi maestri, Binacchi prosegue dicendo: “Mi piace anche ricordare il momento in cui eminenti firme del giornalismo italiano vennero a fare i corsi ai giornalisti di provincia. Questo avveniva quando la Mondadori acquisì le titolarità delle testate della provincia di Mantova, Reggio, Modena e Ferrara. Fra i maestri chiamati a fare lezione ai redattori c’era Pier Leone Mignanego. Cioè Piero Ottone. Sì, quello era il suo vero nome, anche se poi scelse il nome della madre – ho letto di recente – perché suonava meglio per fare il corrispondente da Londra. Ricordo una lezione di Piero Ottone, che mi avvicina molto alle sensazioni di cui parlava il collega Giancarlo Mazzuca, e cioè all’attenzione che deve avere il giornalista di provincia alla parola e al particolare. Perché la parola e il particolare in un giornale di provincia fanno etica, fanno rispetto del lettore. Non posso dimenticare l’ex direttore del ‘Corriere della sera’, in una stanza della ‘Gazzetta di Mantova’ all’inizio degli anni Ottanta, che implorava e sottolineava a una quindicina di giornalisti: “se c’è un incidente stradale e tu sbagli il colore di uno dei veicoli coinvolti in quel incidente, se sei al ‘Corriere della sera’, al ‘Giorno’ o forse anche al ‘Messaggero’ te lo possono perdonare. Alla ‘Gazzetta di Mantova’, alla ‘Nuova Ferrara’, alla ‘Gazzetta di Modena’ e alla ‘Gazzetta di Reggio’ no, non te lo perdonano”. Non perché non sia così rilevante. Ma perché è una sottrazione di attenzione per il lettore che è il più vicino possibile al tuo racconto. Tutto questo mi ha accompagnato negli anni successivi, quando sono entrato in Rai. Passando dalla ‘Gazzetta’ al Tg1 il salto è grosso. Però ho potuto mettere in pratica quei piccoli insegnamenti, quelle grandi attenzioni per i particolari, che fanno del racconto un racconto per i lettori e per telespettatori più vicini e più corretti”.
“Un’ultima cosa che mi piace ricordare riguarda il periodo in cui ero già in Rai. Un giorno esco da una incontro di Palazzo Chigi, dove si deliberavano i provvedimenti prima della pausa estiva per i servizi pubblici o i concessionari come le autostrade. Ricordo che nello stendere questo pezzo misi un aggettivo: “rilevanti aumenti per le autostrade”. Il capocronista mi chiama e prima che io incida il testo per il telegiornale mi dice: “Binacchi, ma quegli aumenti sono rilevanti per chi?”. E mette alla mia attenzione una rilevanza che doveva essere il più possibile oggettiva. Via, allora, l’aggettivo, che è una nota in più, tutta soggettiva e superflua“.
Binacchi conclude: “Io trovo, in questi pochi esempi che vi ho raccontato, una storia che continua. La capacità di avere colleghi che, in tempi diversi, ti danno insegnamenti fondamentali. I fondamentali: il rispetto per la parola, il rispetto per la comprensione del lettore e del telespettatore. L’idea di fondo è insegnare a quelli che vogliono fare i giornalisti radio-televisivi che quando tu pronunci un titolo alla sera, devi anche pensare alla nonna che fa il ragù e che non ha quella cultura lì, che tu pensi possa avere la media dei tuoi ascoltatori. È il rispetto dell’insieme di tutti gli elementi che devono portare l’informazione a essere la più fruibile e la più consultabile possibile. In questo i maestri hanno una grandissima importanza. Facciamo in modo – Ordine professionale, sindacato, fondazioni – che i maestri che sono stati maestri in esercizio debbano e possano essere sempre maestri. Una specie di pronto soccorso giornaliero. Al di là del dettato di legge, noi dobbiamo cominciare a immaginare una sorta di scuola permanente di etica giornalistica da vivere quotidianamente. Perché noi abbiamo bisogno di punti di riferimenti morali e etici, ma anche professionali. Per questo, a proposito di figure che andrebbero valorizzate nelle redazioni, sono d’accordissimo con Serena Bersani [presidente dell’Associazione stampa Emilia-Romagna, ndr]: inventiamoci qualcosa per quei colleghi che hanno un bagaglio, un’esperienza, un ricordo, una quantità di trasmissione di lavoro da dare, che è sbagliato accompagnare alla porta e incrociare, non dico ai giardinetti, ma incrociare in qualche altra occasione. Non costringiamo queste esperienze a non essere in linea con le esperienze dei giovani o di quelli che entrano, perché sono la vera ricchezza aggiunta”.
E, se il giornalismo risente della crisi di un passaggio epocale che ne rivoluziona il modo di porsi, di raccontare, di arrivare al lettore con tempi e modalità assolutamente diverse, per Binacchi due restano gli ingredienti fondamentali da cui ripartire: la cronaca locale e le immagini. “Perché i dettagli di realtà ben precise e la fotografia autentica, fatta in modo professionale e nel momento in cui stanno succedendo le cose, sono gli elementi che adesso hanno davvero la capacità di fare la differenza nel comunicare la notizia sul computer o su uno smartphone”.
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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)
PAESE REALE
di Piermaria Romani
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