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Non esiste in Europa una squadra di calcio il cui nome sia un acronimo più raffinato di SPAL: Società Polisportiva Ars et Labor (esiste CSKA, ma sta per Club Sportivo dell’Esercito, una cosa molto più dozzinale). Così come non esiste in Europa una Curva di tifosi che abbia scritto una storia collettiva (ma anche molto individuale) di sè e l’abbia pubblicata in veste di romanzo, con tanto di codice ISBN. Con un’eccezione: la Curva Ovest di Ferrara, la cui lingua ufficiale è un dialetto da grezz e aldamar, contraltare della raffinatezza latina dell’acronimo.

Non ho mai capito come si fa a scrivere un libro a quattro mani, figuriamoci a trenta. Non ho mai davvero capito come fa il collettivo Wu Ming a scrivere, e quando l’ho chiesto a uno di loro, Wu Ming 1, mi ha risposto che nelle loro riunioni si scannano a parole fino a venire (quasi) alle mani. Questo produce un miracoloso compromesso al rialzo, che tiene il radicale e scarta il pallido. Il contrario del compromesso al ribasso, che tiene il pallido e scarta il radicale. Credo che il meccanismo sia il medesimo della scazzottata: dopo che ti sei picchiato, quello non è più un tuo nemico, perchè hai eliminato il non detto, ma anche il non fatto. Vi siete detti tutto e vi siete spaccati la faccia. Non c’è più spazio per covare il rancore, e questo fa scaturire addirittura la possibilità di un’amicizia.

Per capire come la Curva Ovest ha potuto scrivere “Più di Undici” ho condiviso una birra al circolo Blackstar, a margine della seconda presentazione “pubblica” del libro, con quattro di loro: Michele, Cristiano, Filippo e Marco. Mi hanno spiegato che alcuni membri della Ovest erano soliti scrivere piccole storie, tipo resoconti di trasferte o partite speciali, che poi venivano diffusi in Curva. Poi è lentamente maturata l’idea di scrivere dei racconti “finiti”, che si esaurivano nella vicenda narrata all’interno della singola storia. Ogni racconto aveva un protagonista: ognuno di questi (alla fine) quattordici personaggi è un dropout, ma più che di emarginati sociali (c’è anche qualche professionista in carriera) è appropriato parlare di persone che si trascinano dietro un nodo esistenziale irrisolto, e che hanno un punto in comune, pur non conoscendosi: un passato da ultrà della Curva Ovest, o perlomeno da appassionato curvaiolo dei tempi che furono. Qui sta la chiave di questa pionieristica opera di artigianato collettivo: dall’integrato allo scoppiato, ognuno di questi caratteri si ritrova a fare i conti con il suo passato, o prova a dare una svolta al suo presente, scegliendo come luogo fisico e simbolico di approdo lo stadio del Rapid Bucarest, dove la Spal deve giocare l’andata di un fantasmatico preliminare estivo di Europa League. Ad un certo punto, il gioco delle casualità e delle combinazioni fa in modo che le strade di questi personaggi si intersechino, si mescolino, e diventino una storia collettiva fatta di tante singole imperfezioni, rimorsi, rimpianti, inadeguatezze, scelleratezze. L’operazione di intersezione dei personaggi mi ha ricordato, in qualche modo (e non sembri sacrilego il paragone), quello che lo sceneggiatore del film America Oggi di Robert Altman fece con i personaggi di alcuni racconti di Raymond Carver, in origine separati l’uno dall’altro e invece intrecciati nella trama livida della pellicola che da essi prendeva spunto.

A Ferrara non si dice “vado allo stadio”, ma “vado alla Spal” . Per chi non si è perso una trasferta, nemmeno a Santa Croce contro il Cuoiopelli o a Solbiate, sfidando il ludibrio post-fallimento e credendo all’incredibile, cioè ad una Spal che dalla Lega Pro arriva alla serie A in tre anni, non può apparire impossibile nemmeno una “improbabile trasferta” a Bucarest, come la definisce il collettivo LAPS (Laboratorio Autonomo Produzioni Spalline). Chi invece alla Spal andava da ragazzino ma poi l’ha persa di vista, per disamore, scoramento o perchè la vita l’ha portato lontano dal Mazza, proverà un brivido nel rileggere la incomprensibile, arcana cantilena che negli anni settanta lo speaker gracchiava pochi minuti prima dell’inizio della partita: sigma, novaghemo, monocura . Erano prodotti per l’agricoltura, ma per le orecchie di un bambino erano le parole d’ordine esoteriche che preludevano all’ ingresso delle squadre in campo, quando il cuore batte a mille. Chi infine vuole provare l’emozione straniante e rassicurante di sentir parlare in dialetto ferrarese trovandosi in un lontano altrove straniero (a chi non è capitato di sentir esclamare un maial! in capo al mondo?), si tuffi dentro le pagine di “Più di Undici”:

La luce del fumogeno illuminava gli avversari: si distingueva nettamente il viso di Aldro su una, due, tre maglie delle ombre avversarie. “Fermi! Fermi! A sén ad Frara anc nualtar!”…In un secondo l’elettricità nell’aria si dissolse in uno scoppio di risa, pacche sulla schiena e cori. C’erano tutti: quelli di Barco e di Vigarano, Claudio col suo megafono e il gruppo dei giovani con Sambo in testa. Tutti si abbracciarono ridendo in mezzo al fumo delle torce. I due pullman dispersi a Trieste si accodarono agli altri tre e si ricostituì la colonna. Era tempo di ripartire. Il confine con la Romania non era lontano. 

Oggi, 20 luglio 2022, “Più di Undici” sarà presentato allo Spazio Grisù-Consorzio Factory Grisù a partire dalle ore 19.

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Nicola Cavallini

E’ avvocato, ma ha fatto il bancario per avere uno stipendio. Fa il sindacalista per colpa di Lama, Trentin e Berlinguer. Scrive romanzi sui rapporti umani per vedere se dal letame nascono i fiori.

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Caro lettore

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Se già frequentate  queste pagine, se vi piace o almeno vi incuriosisce Periscopio, la sua nuova veste grafica e i nuovi contenuti vi faranno saltare di gioia. Non esiste in natura un quotidiano online con il coraggio e/o l’incoscienza di criticare e capovolgere l’impostazione classica di questo “il giornale” un’idea (geniale) nata 270 anni fa, ma che ha introdotto  dei codici precisi rimasti quasi inalterati. Nemmeno la rivoluzione digitale, la democrazia informava, la nascita della Rete, l’esplosione dei social media, hanno cambiato di molto le testate giornalistiche, il loro ordine, la loro noia.

Tanto che qualcuno si è chiesto se ancora servono, se hanno ancora un ruolo e un senso i quotidiani.  Arrivano sempre “dopo la notizia”, mettono tutti lo stesso titolo in prima pagina, seguono diligentemente il pensiero unico e il potente di turno, ricalcano in fotocopia le solite sezioni interne: politica interna, esteri, cronaca, economia, sport…. Anche le parole sembrano piene di polvere, perché il linguaggio giornalistico, invece di arricchirsi, si è impoverito.  Il vocabolario dei quotidiani registra e riproduce quello del sottobosco politico e della chiacchiera televisiva, oppure insegue inutilmente la grande nuvola confusa del web.

Periscopio propone un nuovo modo di essere giornale, di fare informazione. di accostare Alto e Basso, di rapportarsi al proprio pubblico. Rompe compartimenti stagni delle sezioni tradizionali di quotidiani. Accoglie e dà riconosce uguale dignità a tutti i generi e tutti linguaggi: così in primo piano ci può essere una notizia, un commento, ma anche una poesia o una vignetta.  Abbandona la rincorsa allo scoop, all’intervista esclusiva, alla firma illustre, proponendo quella che abbiamo chiamato “informazione verticale”: entrare cioè nelle  “cose che accadono fuori e dentro di noi”, denunciare Il Vecchio che resiste e raccontare Il Nuovo che germoglia, stare dalla parte dei diritti e denunciare la diseguaglianza che cresce in Italia e nel mondo. .

Con il quotidiano di ieri, così si diceva, oggi ci si incarta il pesce. Non Periscopio, la sua “informazione verticale” non invecchia mai e dal nostro archivio di quasi 50.000 articoli (disponibile gratuitamente) si pescano continuamente contenuti utili per integrare le ultime notizie uscite. Non troverete mai, come succede in quasi tutti i quotidiani on line,  le prime tre righe dell’articolo in chiaro… e una piccola tassa per poter leggere tutto il resto.

Sembra una frase retorica ma non lo è: “Periscopio è un giornale senza padrini e senza padroni”. Siamo orgogliosamente antifascisti, pacifisti, nonviolenti, femministi, ambientalisti. Crediamo nella Sinistra (anche se la Sinistra non crede più a se stessa), ma non apparteniamo a nessuna casa politica, non fiancheggiamo nessun partito e nessun leader. Anzi, diffidiamo dei leader e dei capipopolo, perfino degli eroi. Non ci piacciono i muri, quelli materiali come  quelli immateriali, frutto del pregiudizio e dell’egoismo. Ci piace “il popolo” (quello scritto in Costituzione) e vorremmo cancellare “la nazione”, premessa di ogni guerra e  di ogni violenza.

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