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Vista dall’alto dell’aereo che punta verso Est, Ferrara è un puntolino quasi invisibile, pochi secondi e si è già sulla palude di Venezia, la meravigliosa città in putrefazione, mangiata dalle pantegane, che sono enormi, panciute, loro digeriscono tutto, presto anche il campanile di San Marco e la speranza è una sola, che non diventino un boccone prelibato dei ristoranti alla moda, nouvelle cuisine consigliata dai grandi gourmiers oggi divenuti i marlonbrando della nostra asfittica televisione dominata, a suon di miliardi (nostri), dai Bruno Vespa, dai Giletti, dalle Venier e quant’altri abbia l’occasione di passare di lì e abbia disponibile una buona lingua avvezza al letamaio. Che dicevo? Ah, si, parlavo del puntolino Ferrara, che dall’aereo sparisce così in fretta alla vista del viaggiatore. Meglio così, Ferrara merita poco purtroppo, di tanto in tanto risorge dalle nebbie di un distratto letargo, e di un oblìo anche da parte dei suoi stessi abitanti, i quali hanno inventato, credo per loro stessi, l’aggettivo qualificativo “inculent”, che è un peggiorativo onomatopeico di indolente: i ferraresi sono inculenti, hanno passato grandi stagioni di effervescenza sociale e politica, ma ora si sono addormentati nelle vetrine di negozi sempre più poveri di merce, mentre si riempiono di paccottiglia quelli dei cinesi: è così che vive oggi il ferrarese, di paccottiglia, anche politica, oddìo se di politica si può parlare oggi in Italia, paese che ha tagliato i ponti perfino con se stesso. E Ferrara, da questo punto di vista, appare comunità emblematica, luogo che aspetta dall’alto una manna che non arriva e mai potrà arrivare; Ferrara è come ubriaca di vino di birra di pasticche, ogni politicante tira l’acqua al suo mulino e si inventa leader di nulla, cioè di piccoli movimenti senza significato sociale, senza ideologia, senza un pensiero da cui muovere, perfino la banca cittadina, quella che teneva in pugno l’economia locale, è in crisi speriamo non irreversibile, la gente ha paura di muoversi, di prendere una qualsivoglia iniziativa. Ha paura ed è caduta nell’inculenzia. Facile dire che si stava meglio quando tutti (che non fossero appartenenti a una borghesia chiusa in se stessa, arrogante e spesso anche ignorante), dicevo quando tutti erano comunisti: almeno si sapeva dove andare a sbattere la testa, c’era un partito (e questo era male, molto male) che pensava per chi non aveva testa, o voglia, o ideale. L’assenza di quel partito maledetto dai padroni e invece salvezza anche per i padroni, si fa sentire pesantemente nel momento più acuto e drammatico della crisi economica, che non è soltanto economica, ma principalmente ideologica, culturale, in cui la mancanza di solidarietà è la cifra contro la quale inutilmente andiamo a cozzare. Siamo poveri, poveri di spirito, speriamo che sia nostro il regno dei cieli.

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Gian Pietro Testa


Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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