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6. SEGUE – A Milano si respirava un’aria diversa, davvero. Era in costruzione la prima linea della metropolitana, c’erano buchi dovunque, i commercianti si arrabbiavano perché perdevano clienti, strade chiuse, escavatori in funzione, operai, geometri e ingegneri che si inseguivano, gli uni con i disegni dei lavori, gli altri con i martelli pneumatici, un frastuono incredibile che infastidiva ma, nel contempo, dava l’idea consolante di una città viva. Soltanto la sera il chiasso si calmava, aprivano i ristoranti e le trattorie toscane, alzavano le saracinesche i bar, non ancora pub, dove si riuniva la Milano che pensa, primo tra tutti il famoso “Giamaica” a Brera, raduno di artisti, scrittori, giornalisti, semplici amanti di un buon aperitivo, potevi incontrare il vincitore di un Pulitzer o di un grande premio di pittura, oppure studenti dell’Accademia che si pavoneggiavano spiegandoti come avrebbero cambiato l’arte e come avrebbero riempito le pareti delle grandi gallerie, l’Annunciata, il Grattacielo, il Naviglio, c’erano giovani e vecchi anarchici, e tutti parlavano con il bicchiere in mano lì davanti alla porta del locale: un brusìo forte e allegro. La vita, insomma, la vita di una città operaia e industriale, in cui pareva che le varie anime sociali potessero sempre convivere. Errore, il marcio covava sotto i piedi dei meneghini indaffarati a far soldi, mentre proseguiva il tentativo di costruire un centro-sinistra laboratorio per tutta la politica italiana. La conferma veniva, appunto, dalla nascita del quotidiano del pomeriggio Stasera, in collaborazione, dicevo, tra il comunista Cossutta, segretario provinciale del Pci, e il mega-imprenditore democristiano Enrico Mattei, uomo di Stato, presidente dell’Eni, ex partigiano, l’uomo che tentava, attraverso nuovi giornali (tra cui Jeune Afrique), di rompere il monopolio delle Sette sorelle e imporre l’Italia come nuovo partner nel mercato del petrolio. Il fatto è che Mattei mirava a costruire nuove politiche in tutto il bacino mediterraneo, operazione che non piaceva molto agli Usa e agli olandesi e, per osmosi, alla politica italiana di destra legata agli americani attraverso la ferrea cerniera dei servizi segreti.
Fu all’improvviso che il cielo cadde sulla testa di un’Italia che voleva uscire da uno stato spesso avvilente di subalternità, stabilita alla fine della guerra dalla politica di un De Gasperi, il quale, in pratica, aveva messo fuorilegge il Pci, che pura faceva parte del governo, un colpo di stato suggellato dall’attentato a Togliatti nel 1948. Era il 27 ottobre 1962, un ottobre freddo, piovoso, tempo da lupi di pianura. Ero di riposo, per me giorno di festa, la sera sarei andato per la prima volta alla Scala e mi ero vestito per la circostanza, abito scuro, quello del matrimonio, scarpe inglesi, coi bucherelli, comprate per una cifra astronomica alla Zenith di Ferrara, mi piacevano quelle scarpe, quando camminavo le suole mi mandavano alle orecchie un simpatico sgnich. Pareva tutto tranquillo, ma verso le 18, mi pare, arrivò una telefonata dal mio capo dell’Agi: “vieni subito – disse Giorgio Triggiani – l’aereo di Mattei è disperso, è scomparso dal radar”. Vestito da teatro, scarpe sgniccanti, volai in redazione, tutti i redattori presenti, Triggiani era al telefono con Pier Bellini delle Stelle, capo dell’ufficio stampa dell’Eni, il partigiano che, con Valerio, mise fine alla vita di Mussolini: la nostra agenzia doveva dare notizie di ciò che era accaduto, o stava accadendo, a tutti i giornali del mondo. Le telefonate si susseguirono fino alle 20, quando l’Eni ci informò che l’aereo del nostro presidente era caduto in una marcita, a Bascapè, tra Milano e Lodi, non lontano dall’aeroporto di Linate. Vai tu, mi disse il caporedattore. Mi infilai il paltoncino scuro, elegante, e, sulla mia 500, presi corso Lodi e mi diressi verso Linate, viaggio non lungo. La pioggia batteva inesorabilmente. Arrivai alla marcita di Bascapè divenuta un lago, lasciai l’auto vicino a un’osteria di campagna, dov’erano parcheggiate le macchine di altri colleghi e mi diressi verso le luci che vedevo brillare sull’acqua, il cammino mi era indicato dai fari a intermittenza dei vigili del fuoco, della polizia, dei carabinieri, delle autoambulanze. Fatti pochi passi mi ritrovai in mezzo al lago, l’acqua mi arrivava alla cintola, quando ero su un terrapieno, altrimenti andavo giù fino al petto, ma non faceva freddo, anzi l’acquitrino mi riparava dalla pioggia ghiacciata, tutto sommato stavo meglio dentro che fuori. La scena che mi si presentò cento metri più avanti sembrava strappata da un film francese anni Quaranta, una decina di macchine galleggiava attorno a uno spiazzo in mezzo ai campi, proprio non m’informai che cosa veniva coltivato, erano le macchine dei colleghi giornalisti, ne ricordo uno, un amico grande e grosso, che stava in piedi sul predellino dell’auto del Corriere per non bagnarsi i piedi, telefono in mano, il quale gridava “voglio la mia firma in prima, hai capito Giulianino?”. Proseguii risalendo dal fossato in cui ero precipitato, acqua fino al collo, e giunsi sul terrapieno dove cominciavano i resti del jet di Mattei, l’aereo aveva lasciato una lunga striscia sul terreno, dovunque pezzi di carlinga bruciacchiati. Sotto i fari i pompieri stavano tentando di recuperare i poveri resti dei tre corpi delle vittime, Mattei, il pilota, un giornalista americano. A un certo punto pestacciai una piccola massa rossastra, guardai, era un cervello. Nessuno osava parlare di cause, c’era stato uno scoppio, ma prima o dopo la caduta? Si seppe soltanto che il pilota aveva tenuto i contatti fino all’ultimo con la torre di controllo di Linate, poi l’aereo era scomparso dal radar. Dopo alcune ore tornai all’osteria, dove trovai il mio capo, mi fece portare un te caldo, riferii quello che avevo visto e poi riuscii a telefonare in redazione e raccontai i particolari del disastro con la maggior precisione possibile. Tornai all’Agenzia verso le quattro, parlai con Pier Bellini delle Stelle, il quale m’informò che Mattei era tornato in tutta fretta da Palermo perché aveva un appuntamento in albergo con il famoso banchiere e petroliere Rockfeller, “ma è un’informazione da tenere per noi, mi raccomando” e la notizia non è mai uscita, nessuno ha mai indagato. L’Italia si era liberata di un uomo scomodo, non sarebbe stato l’ultimo, anzi era la prima di una serie di eliminazioni di personaggi imbarazzanti per la pratica dei politicanti. Io dovetti eliminare paltoncino e scarpe sgniccanti sacrificati sull’altare di una guerra che stava cominciando e che sarebbe continuata tra stragi, omicidi e tentativi di golpe. Il cielo era caduto sul Paese.

6. CONTINUA [leggi la settima puntata]

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Gian Pietro Testa

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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