Oltre i Cento Passi contro l’indifferenza e la rassegnazione
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“Insomma era una persona per bene! Come mai era un comunista?”
E’ la domanda posta da una studentessa americana a Giovanni Impastato su suo fratello Peppino: una delle icone dell’antimafia, come Falcone e Borsellino o il comandante Dalla Chiesa. Icone, appunto: monodimensionali, lontane e luccicanti, come le opere dell’arte sacra bizantina e orientale. Eppure, anche quando sono martiri dell’antimafia, stiamo parlando di uomini, con le proprie contraddizioni e complessità, in carne, ossa e sangue, quello stesso sangue che è stato versato per noi, i cittadini di questo Stato, anche se a volte sia lui sia noi ce ne dimentichiamo. Ecco perché è stato emozionante sentire la brevissima rappresentazione con la quale Lorenzo, studente del Liceo Ariosto, lunedì pomeriggio ha descritto Peppino: “un uomo pieno di vita e senza paura di perderla”.
L’occasione è stata la presentazione del libro di Giovanni Impastato alla Cgil di Ferrara: ‘Oltre i Cento Passi’, edito a Piemme e illustrato da Vauro. Un libro che “parla di un pezzo di storia drammatica del nostro paese, allo stesso tempo una pagina fra le più vergognose e fra le più esaltanti, dal punto di vista della partecipazione civile”, ha sottolineato il segretario generale Cgil Zagatti, “un libro di analisi” che offre uno spaccato della vita sociale e politica italiana, ha detto Donato La Muscatella, referente del Coordinamento Provinciale di Libera di Ferrara. Soprattutto un libro che “vuole parlare ai giovani”, ha affermato con forza Giovanni: trasmettere loro i valori e la memoria di Peppino oltre quei ‘cento passi’ che ne hanno fatto una figura iconica.
Ecco perché una delle protagoniste è Felicia, la madre dei fratelli Impastato, una donna “piegata su stessa dalle ingiustizie e dalle mezze verità”. Ma anche incredibilmente determinata, con una dignità immensa, capace di ribellarsi al marito per far tornare a casa Peppino e di dire, davanti alla bara del figlio praticamente vuota, al cugino mafioso americano che voleva vendetta: “non era uno di voi, non voglio vendette, voglio giustizia”. È stata lei a porsi da subito il problema della trasmissione della memoria di Peppino e delle sue battaglie: “mi diceva sempre “quando io non ci sarò più devi essere tu a raccontare questa storia” e con i miei figli “quando vostro padre non ci sarà più dovete essere voi a tenere aperta questa porta””. La porta è quella della Casa memoria Felicia e Peppino Impastato a Cinisi, nata nella primavera del 2005, da qui parte il percorso memoriale dei Cento Passi, fino a casa Badalamenti, anch’essa oggi visitabile: “un bagno di memoria e di cultura”, l’ha definito Giovanni Impastato, fra citazioni e biografie di vittime dell’antimafia sociale e istituzionale, l’Antigone e l’Inferno di Dante, appena prima dell’entrata dell’abitazione del boss.
Memoria, non retorica, è il fulcro dell’attività di Giovanni, che proprio come il fratello non ama il politically correct ora così in voga. Senza problemi ammette che uno dei periodi più felici della sua vita è stata l’infanzia “passata nella tenuta dello zio”, quel Cesare Manzella capomafia di Cinisi, predecessore di Gaetano Badalamenti, Tano Seduto. Sarà proprio guardando la sua auto dilaniata dal tritolo che a quindici anni Peppino farà la promessa che gli segnerà la vita: “Se questa è la mafia allora io la combatterò per il resto della mia vita”. Eppure, secondo Giovanni, la battaglia politica, sociale, culturale di suo fratello viene da prima: “Peppino era l’erede del movimento contadino degli anni Quaranta, di Placido Rizzotto e dei martiri di Portella della Ginestra: quello è stato uno dei più grandi movimenti di massa d’Europa, la nostra Resistenza. Il primo maggio 1947 le persone sono morte perché chiedevano l’applicazione di una legge che già esisteva, quella mattanza è servita per fermare il movimento di rinnovamento della riforma agraria”. Peppino però è stato anche “pioniere, perché è riuscito a inventarsi nuovi modi per combattere la mafia, dalle battaglie ecologiche all’impegno culturale con ‘L’Idea socialista’, il circolo Musica e Cultura e Radio Aut”.
Una voce fuori dal coro quella di Giovanni, come fu quella di Peppino, quando per esempio parla di legalità: “bisogna fare attenzione, è un concetto che è stato spesso abusato. Le leggi vanno rispettate, ma non subite, come diceva don Milani: “L’obbedienza non è sempre una virtù”. La legalità è rispetto della dignità umana, se al centro di una legge non c’è questo rispetto allora bisogna lottare perché ci ritorni. Bisogna esercitare la disobbedienza civile perché al sostantivo legalità siano sempre affiancati gli aggettivi democratica e costituzionale”.
O ancora, quando parla della fine della mafia: “dobbiamo smettere di dire nelle scuole che la mafia è antistato. Non è così: la mafia è dentro lo Stato, quando si parla di appalti e di gestione dei soldi pubblici”, per questo non l’abbiamo ancora sconfitta come è successo per il Brigantaggio o per le Brigate Rosse. Certo aveva ragione “Falcone quando diceva che la mafia è un fenomeno umano e come tale ha avuto un inizio e avrà una fine”, ma il problema è che “manca la precisa volontà politica di risolvere il problema”.
E infine quando parla di verità: “Gramsci odiava gli indifferenti. Io temo la rassegnazione perché le persone rassegnate non hanno bisogno della verità e quando non c’è ricerca della verità si aprono le porte alle mafie e al fascismo”, due pericoli molto presenti nel nostro paese come ha dimostrato il caso di Ostia, fra Casa Pound, caso Spada e affluenza alle urne del 26%. “Quel poco di democrazia che è rimasto è in pericolo”, è l’allarme di Giovanni Impastato, che mette anche in guardia sulle mafie al Nord: “A chi mi domanda se oggi ci sia più mafia in Sicilia o Lombardia rispondo Lombardia”.
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Federica Pezzoli
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