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Scoppiata nel 2008, è la crisi, secondo alcuni la più grave, che ha messo in ginocchio le economie occidentali. Con un tonfo del prodotto interno lordo (Pil) addirittura superiore a quello misurato dopo la prima guerra mondiale.
Ne spiega cause e conseguenze Luciano Gallino, pezzo da novanta della sociologia italiana, nel suo ultimo libro “Il colpo di stato di banche e governi” (2013).
Già il titolo mette i brividi, così come possono spaventare le oltre 330 pagine.
Eppure è una lettura da consigliare, anche se non so dire quanto la tesi sia condivisa.
Certo non c’è da aspettarsi applausi da parte dei discepoli di Milton Friedman e della scuola di Chicago.
Andando all’osso, Gallino dice che la crisi non è un momento passeggero, per quanto grave, ma una malattia che sta nel sistema capitalistico. È come un herpes che si ha dentro e di cui ci si accorge solo quanto scoppia su un labbro.
Si potrebbe dire marxianamente: la stagnazione genera la crisi, oppure keynesianamente: è la crisi che genera stagnazione, ma comunque si finisce sempre lì.
Il capitalismo sembra basarsi sul paradosso di Böckenförde, nel senso che poggia su presupposti che non è in grado di riprodurre.
Terminata una prima fase euforicamente espansiva, i decenni immediatamente postbellici, la produzione tende alla saturazione. Il sistema nel suo complesso matura un’eccedenza di capacità produttiva e non può sfogare questa potenzialità in nuove lavatrici, macchine o altro, perché non ce n’è più bisogno se non in misura più limitata.
Peraltro il tempo contemporaneo sta rendendo evidente il modello di uno sviluppo non più sostenibile.
Perciò servono complessivamente meno lavoratori, anche perché nel frattempo ci sono le macchine che li sostituiscono. Il problema è che in questo modo in giro c’è meno gente che può comprare e così il sistema tende all’avvitamento se lasciato a se stesso, checché ne dicano i liberisti duri e puri convinti del meccanismo autoregolante del mercato.
È la stagnazione che, quindi, è problema strutturale.
Proprio per ovviare a questo punto interrogativo, di là e di qua dell’Atlantico – prosegue Gallino – è stata messa a punto una duplice risposta.
Per fare in modo che la domanda del mercato continuasse a tirare, è stata data possibilità alle banche di creare denaro dal nulla e in quantità completamente sganciata dalle cose e dal capitale. Così facendo lo Stato, gli Stati, hanno rinunciato ad una delle proprie prerogative e cioè di stabilire la quantità di moneta circolante.
Si parla di quantità stratosferiche di denaro dal nulla, a partire dagli anni ’80. Montagne di trilioni di dollari. Se si pensa che un bilione sono mille miliardi e che un trilione sono mille bilioni, viene il mal di testa solo a pensarci.
Eppure è quello che è accaduto, per esempio, con la famosa bolla immobiliare. Sono stati concessi mutui ipotecari a cani e porci per comprare casa (con l’immobile stesso a garanzia appunto). In caso di insolvenza sono stati fatti mutui su mutui, basati sui valori nel frattempo sempre al rialzo delle case. Alla fine, quando è stato chiaro che qualsiasi appartamento non poteva valere come il castello di Windsor, la bolla è scoppiata e tutto è crollato. Il problema è che su quei mutui, cioè sul niente, è stata creata moneta, altrettanto vuota, che è stata sparata come un virus nei mercati finanziari e cioè comprata e venduta chissà quante volte oppure messa in cassaforte pensando di accumulare un tesoro.
Nel frattempo c’è stato un colossale trasferimento di redditi e ricchezza dal basso verso l’alto della scala sociale. Anche qui si parla di trilioni di dollari a livello planetario. Il che vuol dire che una minoranza di qualche decina di migliaia di persone in tutto, ha molto di più di quello che chiunque possa anche lontanamente immaginare e che la maggioranza della popolazione si deve dividere il resto.
Il problema è che anche un ricco sfondato ha bisogno di un solo cuscino per dormire e più di tanti non ne riesce a consumare, mentre sono costretti a fare senza, o quasi, tutti quelli ridotti a stringere la cinghia.
Sono però questi ultimi a fare numero e ad incidere su vendite e fatturati, cioè sulla tanto decantata crescita, non l’élite.
Quindi, da una parte il respiro velenoso di un’enorme bolla di debito e di denaro creato dal nulla, tuttora a quanto pare minacciosa sui destini del mondo, e dall’altra una pari dinamica suicida che produce e riproduce stagnazione. Peraltro, logica conseguenza di un capitalismo lasciato a briglia sciolta nel nome della libertà e dal verbo imperante della deregulation e della liberalizzazione senza limiti e con la complicità di legislazioni nel frattempo adottate – scrive Gallino – da Usa, stati europei e Ue.
Se quest’analisi regge, le politiche di austerità messe in atto da Stati e governi non farebbero che aumentare la spirale recessiva e favorire l’avvitamento di una crisi basata sull’insoluto problema della stagnazione sistemica.
E sullo sfondo ci sarebbe un vero e proprio attacco alla democrazia, che è poi la seconda parte del titolo del libro.

Nei giorni scorsi c’è stato in città un dibattito sulla riforma del mercato del lavoro cui hanno partecipato l’ex sindaco di Ferrara, ora tornato in Cgil, Gaetano Sateriale e l’assessore comunale Luigi Marattin.
A confronto la proposta del sindacato guidato da Susanna Camusso sul lavoro e il jobs act avanzato da Matteo Renzi.
In particolare, l’assessore dice che è il momento di superare steccati ideologici secondo i quali si è di sinistra se si guarda alla domanda e di destra se ci si concentra sull’offerta di lavoro.
Tenendo presente che se non c’è crescita il lavoro non si può inventare, secondo Marattin parecchio si può comunque fare sul fronte dell’offerta: contratto unico a tutele crescenti (sul modello Boeri-Garibaldi), rivedere il sistema scolastico e della formazione professionale, riforma della pubblica amministrazione a partire dall’eliminazione del dirigente di ruolo.
Del resto, dice, la storia dimostra che i cambiamenti sono stati fatti dal lato dell’offerta e non tanto della domanda.
E però se Gallino ha una qualche ragione, sempre al di là della gabbia destra-sinistra, anche il versante della domanda pare avere una responsabilità mica da poco e con ricadute sociali al limite del criminale. A tal punto da vanificare ogni pur lodevole tentativo di mea culpa dell’offerta se, almeno contemporaneamente, non si rimuovono le cause suicide e strutturali della stagnazione.
Il problema è chi può farlo oggi.

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Francesco Lavezzi

Laurea in Scienze politiche all’Università di Bologna, insegna Sociologia della religione all’Istituto di scienze religiose di Ferrara. Giornalista pubblicista, attualmente lavora all’ufficio stampa della Provincia di Ferrara. Pubblicazioni recenti: “La partecipazione di mons. Natale Mosconi al Concilio Vaticano II” (Ferrara 2013) e “Pepito Sbazzeguti. Cronache semiserie dei nostri tempi” (Ferrara 2013).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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