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(pubblicato il 28 luglio 2016)

Eppure solo qualche centinaio di chilometri separa l’Alto Adige da Roma capitale (della sporcizia). Non pretendo che, come a Vipiteno, lungo la passeggiata che porta al centro città ci siano i distributori gratuiti dei sacchetti per le deiezioni (vulgo cacca) degli amici pelosi, né che dentro ai vicoletti la pulizia sia tanto accurata che nemmeno una traccia di minzioni (vulgo pipì) post bevute di birra ci riveli la presenza dei giovani gaudenti. E naturalmente lo sconcerto riguarda non solo Ferrara ormai celebre per i vicoli maleodoranti e vomitosi e ora per l’oscena defecazione umana dentro la Cattedrale, né Firenze sporca per le ‘delizie’ culinarie consumate sui gradini delle chiese e dei monumenti che l’hanno (l’avevano) resa capitale del Rinascimento.
Mi dicono amici cari che abitano a Roma in luoghi storici, dove un tempo abitò il più grande scrittore ferrarese del Novecento, che ormai è quasi impossibile camminare per le strade invase dalla sporcizia e dal degrado. Con centri di raccolta dei rifiuti lontanissimi dal luogo in cui si abita e che a forza occorre raggiungere se non si vuole essere sommersi dalla sporcizia, ormi divenuta simbolo della città. Così Pompei chiude, Galleria Borghese è visitabile solo su prenotazione per alcune ore al giorno e, a poco a poco, il mito di Roma inventato nell’Ottocento, la patria comune da cui tutti discendiamo, compresa la Merkel, si frantuma nella stanca parlata romanesca di un popolo ormai indifferente a tutto e a tutti.
Dalle tavole dell’hotel dell’Angelo s’alza un vocio romanesco. Si elogia il cibo, la vista e la frescura e s’inneggia al ponentino che non c’è più e si riapre l’eterno elogio del tempo passato. Ma è tutta colpa della politica o della scelta di una città, dei suoi abitanti e del suo territorio? Come per quel che succede nella mia città a proposito della banca di riferimento. E’ questione di chi l’ha gestita o della connivenza di tutti noi che appena siamo sicuri d’aver raggiunto un traguardo lo dimentichiamo in nome di un prestigio che forse non abbiamo mai posseduto? Tanto è vero che celebriamo non tanto la vera grandezza della nostra storia, vale a dire il cosiddetto Medioevo, quanto in modo quasi ossessivo un Rinascimento complessivamente mediocre, se non ci fossero stati i due più grandi poeti della modernità a celebrare una dinastia complessivamente rozza e inaffidabile.
Queste note, ovviamente amplificate da una specie di ferita mai chiusa sulle magnifiche sorti e progressive che dovrebbero essere all’attenzione e al centro dell’idea di identità che sembra invece sfaldarsi in un degrado e non avere mai fine, trovano un conferma nel prezioso lavoro (che di fatto è una tra le più grandi scoperte di questo secolo) di un antichista inglese celeberrimo, appena scomparso, Martin West, che ha fatto conoscere al mondo alcuni versi tra i pochi sopravvissuti di Saffo: “il mio cuore è cresciuto pesante, le mie ginocchia non mi sostengono/ loro che una volta erano agili per la danza come quelle dei cerbiatti”. Questa potrebbe essere la metafora più evidente del declino di Roma, della sua eredità e anche della condizione umana e intellettuale di chi scrive queste note. C’è una specie di stanchezza, etica prima di ogni altra ragione, che pervade chi per una specie di dovere-diritto ha scelto di lavorare nella storia e per la storia. E ora s’accorge che il disprezzo e l’irrisione è ciò che resta di questa missione così amata e così, ora, disprezzata.
Rendere Roma, Firenze, Ferrara luoghi adatti alla spazzatura reale e metaforica non è solo colpa di chi ci governa e di ogni tipo di mafia, ma è colpa grave e ineliminabile ascrivibile al carattere degli italiani. E certo non basta che Alessandro Gassman proponga una specie di ‘fai da te’ per ripulire Roma. Se non c’è la volontà innata di salvare la bellezza che è la forma più alta di realtà. Perciò italiani, smettetela di fare gli ‘itagliani’!

Immagine: Reuters, The Economics Times

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Gianni Venturi

Gianni Venturi è ordinario a riposo di Letteratura italiana all’Università di Firenze, presidente dell’edizione nazionale delle opere di Antonio Canova e co-curatore del Centro Studi Bassaniani di Ferrara. Ha insegnato per decenni Dante alla Facoltà di Lettere dell’Università di Firenze. E’ specialista di letteratura rinascimentale, neoclassica e novecentesca. S’interessa soprattutto dei rapporti tra letteratura e arti figurative e della letteratura dei giardini e del paesaggio.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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