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Scrivere, oggi, che l’Italia è un Paese che genera attrazione in un tedesco, davvero non è facile. Nonostante tutte le turbolenze politiche ed economiche in cui si ritrova sballottata, e nonostante i rapporti piuttosto tesi, ufficiali e non, fra i due Paesi, personalmente non ho ancora perso la voglia di essere fedele ad un vecchio amore… forse amore è troppo, diciamo grande simpatia.

Mai imparar l’italiano
una lingua che suona
come se generasse
un uomo migliore.

Blu e verde acqua son le parole
e in ogni “o”
luminoso un frutto si nasconde.

Non erro
per proteggermi dalle illusioni.

Preferisco persone
che limitatamente solo comprendo.

Incomprensioni,
una più bella dell’altra
quasi fossero arie musicali.

Rainer Malkowski (1939 – 2003) – (Trad. di Laura Melara Dürbeck)

Tutte le migliori qualità che attraggono un tedesco si ritrovano in questa “poesia”: la meravigliosa e sensuale lingua italiana; il paese dei sogni, delle illusioni, dell’opera lirica. Ma, ormai da molti anni, ho anche imparato che un tedesco non capisce mai veramente tutto ed in tutti i sensi dell’Italia e degli Italiani. Ci sono sempre pregiudizi, diagnosi sbagliate, equivoci.

Impressioni molto simili a quelle cantate dallo scrittore e poeta Malkowski, erano già state espresse decenni prima da altri tre altri filosofi tedeschi, che personalmente ho stimato sempre:

“Quando un tedesco entra in Italia, fa quasi sempre un ingresso falso. Ha desideri ed immagini distorte, almeno troppo unilaterali. Così non può vedere la vita reale nel paese e capire niente, o quasi niente, del paese italiano. Il Paese sembra poroso e allo stesso tempo chiuso. Tutto sembra possibile ed impossibile […]”.

Così scriveva il filosofo tedesco Ernst Bloch in un testo del 1925. Un concetto quasi identico si trova in una frase di Walter Benjamin, altro intellettuale tedesco di quell’epoca pre-fascista: “L’Italia è il paese della porosità, dell’indolenza e della passione per l’improvvisazione.”

Alfred Sohn-Rethel, anche lui un filosofo vicino alla Scuola di Francoforte, ha scritto nel 1926 un breve saggio intitolato Das Ideal des Kaputten (L’ideale della cosa rotta) dedicato a Napoli: un napoletano “si interessa ad una cosa tecnica solo quando è rotta. Una riparazione finale per un napolitano è una cosa orrenda, impensabile […]”.

E con queste tre suggestioni, abbiamo già un bel po’ di materiale per una buona riflessione, e per poter dire se l’Italia eserciti ancora o meno una certa attrazione per uno straniero.
Un tedesco, un teutonico puro, può amare e temere al tempo stesso la cosiddetta cultura italiana per la sua porosità, la sua imprevedibilità, la sua passione per l’improvvisazione e la sua, forse involontaria, capacità di riparazione le cose rotte.

Per non generalizzare troppo, non parlo di un tedesco qualsiasi ma di me. Sono nato nel 1950, nella parte estrema del nordovest tedesco, dove la terra è pianeggiante e costellata di fattorie (o perlomeno era cosi sessant’anni fa). La mia infanzia odorava di stallatico. Al centro del nostro villaggio, c’era ancora un fabbro che ferrava i cavalli. Nei miei ricordi d’infanzia si sente un po’ il profumo del primo Novecento, ma soprattutto il fetore del nazismo finito cinque anni prima.

Tutto era molto semplice, provinciale e soprattutto molto chiuso rispetto a ciò che succedeva nel mondo. Dell’Italia si sapeva solo che la capitale era Roma e che il Papa viveva in Vaticano. Il Papa di allora, Pio XII godeva di una grande autorevolezza nel mio ambiente familiare. E questa “autorità” parlava Italiano o Latino, ma non tedesco. La regione dove ho trascorso l’infanzia era molto cattolica, quasi una Bassa Padana ai tempi di Don Camillo, ma senza Peppone. Ma, in quella parte della Germania nord – occidentale, è nato anche Rolf Dieter Brinkmann, un poeta del cosiddetto “Underground of the sixtees” che ha scritto, tra le altre cose, Rom. Blicke tradotto in Italiano Roma. Sguardi un diario – un pò surrealistico, talvolta pazzo – su un suo soggiorno a Roma, in cui sferra un acceso attacco alla cultura italiana. Il mio punto di vista sull’Italia è ben diverso, più benevolo, e questo lo devo a mia madre che ha sempre disprezzato Brinkmann e che provava un grande amore per l’Italia, per le sue virtù, la sua storia, l’arte e la cultura; è grazie a mia madre, quindi, che ho provato fin da bambino una grande attrazione per il Bel Paese… oggi un po’ meno, ma la sento ancora.

Mia madre, all’inizio degli anni ‘30, frequentò una scuola cattolica di economia domestica, assieme ad alcune sue amiche, a Vicarello, un paesino sul lago di Bracciano. Da allora, faceva spessissimo riferimento a quel periodo trascorso nello sconosciuto “Sud”. Deve essere stato un periodo felice, a vedere le foto-ricordo e a sentire i racconti di quei mesi trascorsi così lontano! Molte vicende della vita di mia madre sono state evidentemente tristi, e solo raccontando della sua breve permanenza sul lago di Bracciano, s’illuminava di gioia! Quell’esperienza, tanto lontana nel tempo, aveva costituito per lei una sorta di “speranza di felicità”. Forse quella “speranza di felicità” era più che altro un’illusione, un’attrazione costruita sulle sabbie mobili, un ingresso falso e poroso per entrare nel Paese Italia (e forse è così anche per me). Oggi lei non c’è più, ed io ho ricevuto da lei quell’eredità italiana, che non è un’eredità materiale ma mentale e preziosa.

Ecco, quel tipo di attrazione per l’Italia in me c’è ancora, ma ha perso non poco della sua “speranza di felicità”. Rimane certo il fascino per il patrimonio dei beni culturali sparsi per l’Italia… ma anche di quelli che si trovano in Europa, di più… nel mondo! Ciò che sottrae forza attrattiva all’Italia è il livello bassissimo della maggior parte delle trasmissioni televisive, gli eccessi del consumismo che si erge a nuova religione, ecc. Devo ammettere, però, che questi sono fenomeni che non esistono solo in Italia, ma più o meno anche negli altri paesi europei, e anche in Germania, Paese apparentemente tanto sano, pulito, ben ordinato, e privo di corruzione. Anche la Germania di oggi, ammirata (o temuta) per la sua forte economia e le stabili strutture politiche, ha le sue ombre e debolezze.

Sono entrato in Italia col “vento rosso” degli anni sessanta-settanta. Ad Hannover, dove ho studiato, durante le manifestazione politiche cantavamo canzoni antifasciste come “Oh, Bella Ciao” e “Bandiera rossa”. Abbiamo letto i primi libri di Massimo Cacciari e di Rossana Rossanda sulla lotta della classe operaia. Apprezzavo gli scritti di cattolici di sinistra come Don Mazzi a Firenze, Don Franzoni a Roma o Don Milani a Barbiana. Sandro Pertini è stato per me, idealmente, il “nonno” che avrei desiderato. Giorgio Bassani non è stato il padre preferito – per carità – ma sicuramente uno scrittore molto stimato. Il romanzo di Ferrara mi ha così profondamente colpito che, appena ne ho avuto la possibilità, ho acquistato a Ferrara un piccolo appartamento, in un palazzo dentro la mura. Adesso, è tredici anni ormai che sono molto legato a questa città estense, dove spesso ritrovo un po’ il profumo e la luce della mia infanzia. Anche noi, in Bassa Sassonia, abbiamo la nebbia autunnale. Anche da noi il paesaggio è un po’ simile a quello che si trova lungo il Po: un paesaggio basso, senza colline e tante nuvole verso l’orizzonte. Durante l’infanzia e la gioventù, anche per noi la bici era il mezzo principale per spostarsi. La chiesa si trovava al centro del paese e delle piccole città. Ma c’è di più: attraverso i miei amici ferraresi, ho scoperto anche che una cultura borghese in Germania, dopo il fascismo, è quasi del tutto sparita: liberale o di sinistra che fosse, comunque antifascista, quella ereditata nel dopoguerra è stata ben definita da Mario Pannunzio, il fondatore dell’Espresso, come “progressiva in politica, conservatrice in economia, reazionaria nel costume”. Qualcosa di profondamente diverso dal nobile spirito borghese che ha animato l’esperienza azionista italiana dalla quale, nel mio impegno civile d’oggi, ho imparato molto.

Credo profondamente che la cultura in genere, ma anche la cultura politica italiana, abbiano avuto ed abbiano ancora, una certa attrattiva per gli stranieri, nonostante i fenomeni oscuri “all’italiana” molto conosciuti in tutto il mondo. Per citare solo una delle forze più importanti, che si distinguono e che si ergono nel panorama della crisi della democrazia rappresentativa e del cosiddetto Welfare State, scelgo il volontariato italiano, politicamente forse un po’ incerto, ma con una grande volontà di fare qualcosa, sia a livello locale sia a livello mondiale; la forte presenza degli italiani nelle reti delle Ong in tutto il mondo, ne è la dimostrazione, e rappresenta un segno significativo e confortante.

Ma forse sbaglio in tutto…

Non erro
per proteggermi dalle illusioni.

Preferisco persone
che limitatamente solo comprendo.

Incomprensioni,
una più bella dell’altra
quasi fossero arie musicali.
Un ringraziamento particolare ad Antonella Romeo, la traduttrice della brano, e autrice del libro La deutsche Vita

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Carl Wilhelm Macke

È nato nel 1950 a Cloppenburg in Bassa Sassonia nel nord-ovest della Germania. Oggi vive a Monaco di Baviera e il piu possibile anche a Ferrara. Lavora come scrittore e giornalista. E’ Segretario generale della rete globale “Giornalisti aiutano Giornalisti (www.journalistenhelfen.org) in zone di guerra e di crisi, e curatore dell’antologia “Bologna e l’Emilia Romagna”, Berlino, 2009. Amante della pianura.

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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