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A Trieste c’è un deposito che può essere considerato un luogo simbolo dell’esodo giuliano-dalmata che iniziò all’indomani della firma del Trattato di Parigi del 1947: è il Magazzino 18 del Porto Vecchio di Trieste, dove furono stoccate le masserizie dagli esuli che abbandonarono le terre cedute a seguito del Trattato. “Magazzino 18” è anche il titolo dello spettacolo che Simone Cristicchi sta portando nei teatri italiani da due stagioni, e che domani sarà in scena al Centro Pandurera di Cento.

Parigi, febbraio 1947: l’Italia uscita sconfitta dalla Seconda guerra mondiale firma i trattati di pace con gli Alleati vincitori, fra i quali anche la Jugoslavia. Proprio alla Repubblica socialista federale di Jugoslavia di Tito l’Italia è tenuta a cedere Fiume, il territorio di Zara, gran parte dell’Istria, del Carso triestino e goriziano, e l’alta valle dell’Isonzo, le isole di Lagosta e Pelagosa, in altre parole parte di quelle famose terre irredente ottenute nel 1920 in base ai trattati di Rapallo e di Roma seguiti alla Prima guerra mondiale. Trieste e le aree circostanti rimarranno ‘territorio libero’ sotto il controllo anglo-americano fino al 1954.
È quello che succede spesso nei consessi internazionali che seguono i conflitti: si srotolano le carte geografiche e si tracciano nuovi confini, tralasciando il fatto che nella realtà su quei luoghi si svolgono e si intrecciano esistenze intere i cui destini, già duramente provati dai conflitti, cambiano completamente a causa di quel tratto di inchiostro. È stato così anche per le terre e le genti del confine orientale italiano, che nell’arco di 50 anni sono passate dall’essere una propaggine del multietnico impero asburgico, all’annessione ad un’Italia che si stava votando al fascio littorio, alla Jugoslavia comunista di Tito. Una complessità etnico-linguistica che, (di nuovo) come spesso accade, non viene più considerata una ricchezza, ma un problema e una minaccia. Non più italiani, sloveni e croati, insieme a comunità di lingua tedesca e a una miriade di piccole minoranze: ebrei, serbi, cechi, greci, armeni, svizzeri. Ecco allora un avvicendarsi di esodi, fino a quello giuliano-dalmata che inizia appunto all’indomani della firma del Trattato di Parigi del 1947.

“Magazzino 18” di Simone Cristicchi vuole rappresentare “il magazzino della memoria”, in cui sono custoditi circa duemila metri cubi di mobili, stoviglie, abiti, lettere, fotografie, giocattoli. Tutto ciò che le famiglie in fuga dalle terre cedute alla Jugoslavia lasciarono in deposito, con l’idea di venire a riprenderle, una volta ricostruita la propria esistenza. Molte persone poi sono tornate, molte altre invece non si sono fatte più vive.

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Simone Cristicchi nei panni dell’archivista romano Persichetti

Cristicchi, sul palco nei panni dell’archivista romano Persichetti inviato a fare un inventario di quei brandelli di una quotidianità interrotta dalla Storia, si è assunto un compito delicato insieme al giornalista Jan Bernas e al regista Antonio Calenda: narrare una parte del nostro recente passato non abbastanza conosciuta, ma che ancora tocca nervi scoperti e viene spesso strumentalizzata a destra e minimizzata a sinistra. Lo spettacolo, le cui musiche hanno vinto il premio “Le Maschere del Teatro Italiano 2014”, ha superato le 100 repliche e annovera ormai quasi 70000 spettatori: “un piccolo grande successo” afferma orgoglioso Cristicchi. Venerdì 6 febbraio “Magazzino 18” farà tappa al Centro Pandurera di Cento e così abbiamo pensato di fare qualche domanda al cantautore romano per saperne un po’ di più.

Perché hai scelto di affrontare le vicende del confine orientale tra la fine del secondo conflitto mondiale e i primi anni ’50 e il tema dell’esodo giuliano-dalmata, eventi della nostra storia recente da un lato poco conosciuti, dall’altro molto complessi e controversi da trattare?
Mi sono imbattuto in queste vicende mentre stavo lavorando a una ricerca sulla memoria della Seconda guerra mondiale, girando l’Italia per intervistare gli anziani che hanno vissuto quel periodo. A Trieste qualcuno mi ha indicato l’esistenza di questo Magazzino 18 nel Porto Vecchio della città. Ho voluto andare a visitarlo e di fronte a questo luogo che si potrebbe chiamare museo, anche se non lo è ufficialmente, è nata la voglia di raccontare.
Diciamo che non mi sono posto nessuno dei due problemi, ero molto incuriosito da questa storia e ho voluto approfondirla; andando a fondo ho scoperto che meritava di essere raccontata perché l’esodo è stata una vera e propria epopea. È come avere per le mani una matrioska perché dentro a ogni storia ne trovi sempre un’altra e sembra che non finiscano più. Ho deciso di raccontarle prima di tutto perché come cittadino italiano mi sentivo in dovere di conoscerla e farla conoscere e poi come artista ho voluto mettere a disposizione i mezzi e il linguaggio del teatro per proporre una riflessione collettiva su questa pagina di storia poco frequentata. Questo spettacolo, che era nato come un monologo, durante la lavorazione ha preso la forma di un musical civile, come l’abbiamo battezzato: unione del teatro civile, così come lo conosciamo grazie a maestri come Marco Paolini, con il linguaggio e gli strumenti del musical, che mi appartengono di più provenendo dal mondo della canzone d’autore.

È uno spettacolo che ha anche una funzione didattica?
Ho capito che tanti altri come me sapevano poco di questa storia e il teatro civile ha anche questa funzione: riempire silenzi e vuoti. In Friuli questa è una vicenda che si conosce fin troppo bene, mentre portando in giro per l’Italia lo spettacolo mi sono reso conto che a malapena si sa cosa è successo dal 1947. Soprattutto questo spettacolo vuole essere utile ai giovani.

Hai già accennato alla forma del musical civile: come hai scritto le canzoni per questo spettacolo? Il tuo modo di scrivere e di comporre è stato differente rispetto al solito?
Inizialmente ho presentato lo spettacolo al teatro stabile del Friuli Venezia Giulia come un monologo, poi il regista Antonio Calenda, che è un uomo di grande intuito e conoscenza, mi ha suggerito, anzi mi ha imposto di scrivere le canzoni. Io da principio ero molto restio, poi invece ho capito che la sua visione del risultato finale delle spettacolo nell’insieme era molto precisa, così ho trasformato intere pagine di monologhi in canzoni.

Quali sono state le tue fonti per la scrittura del testo?
Innanzi tutto, il libro di testimonianze di Jan Bernas “Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani”, che è stato per me un punto di riferimento tanto importante da coinvolgere nella scrittura dello spettacolo lo stesso Jan. Poi ci sono stati libri di storici che si sono occupati di questa materia per anni come Gianni Oliva e Raoul Pupo. Ho usato soprattutto tantissime testimonianze orali dirette di persone che hanno vissuto quegli eventi: nello spettacolo ci sono perciò tanti aneddoti che mi sono stati raccontati dagli stessi esuli che si sono trasformati nella drammaturgia.

Per questo spettacolo hai ricevuto critiche sia dalla destra sia dalla sinistra, è un segno che “Magazzino 18” è veramente scevro da ideologie?
Il mio obiettivo è sempre stato schierarmi dalla parte di chi è stato schiacciato dalle ideologie e dai grandi terremoti della storia, le persone senza voce, coloro che hanno subito le ingiustizie: in questo caso gli esuli, ma anche coloro che hanno fatto la scelta opposta e sono rimasti. Ben vengano le critiche, quando però non fomentano l’odio e la violenza. Molte delle persone che hanno criticato lo spettacolo non sono storici e non si occupano di storia, ma ragazzi imbevuti di ideologie ormai morte e sepolte e che vedono in alcune parti di questo spettacolo un attacco nei confronti della Resistenza, cosa che non è vera perché in “Magazzino 18” non condanno assolutamente la guerra di Liberazione. Io vengo considerato un artista di sinistra e probabilmente hanno visto in questo mio spettacolo una sorta di tradimento, ma tutto questo diventa minoritario in confronto al successo che ha avuto e che sta avendo nei teatri.

Lo spettacolo consegna agli spettatori “l’undicesimo comandamento”: non dimenticare. Possiamo dire che da qui bisogna partire per approfondire le vicende che narri e riflettere sulla complessità di alcuni processi storici per costruire più consapevolezza per il futuro?
Sì, c’è chi ha voluto attribuire a “Magazzino 18” delle connotazioni ideologiche, ma in realtà lo spettacolo vola molto più alto: vola sulle ali dell’emozione del teatro e della musica. La cosa che mi sta più a cuore è far riflettere il pubblico su cosa voglia dire essere sradicati dalla propria terra e perdere ogni contatto con il proprio tessuto sociale, con la famiglia, con i propri amici e i propri affetti. Anche, se vuoi, per guardare agli esodi che stanno avvenendo nel nostro tempo dal Sud del mondo e vedere queste persone come esseri umani che fuggono da situazioni drammatiche cercando una speranza per sopravvivere e non come invasori. In questo senso “Magazzino 18” vuole parlare dell’umanità che c’è dentro queste vicende passate per ritrovarla nel presente dei barconi che approdano a Lampedusa.

Le foto sono di Promomusic

Ferraraitalia si occupata anche in precedenza di questo spettacolo [vedi].

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Federica Pezzoli

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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