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La malattia costituisce da sempre uno dei temi letterari di eccellenza come metafora e come condizione umana ineludibile. Morbo e malattia sono stati utilizzati in letteratura per identificare uno stato di perdita: perdita della salute, dell’autonomia, della libertà, dello stato d’animo positivo. Molto spesso anche perdita della dignità. Il lettore entra nei meandri delle narrazioni dove viene descritta la malattia autentica o immaginaria, fisica o psichica, individuale o sociale e ne viene travolto, caricato di attesa, tensione, aspettativa. Che le cause della malattia siano la ‘punizione divina’ di sapore medievale o il tormento esistenziale di una società alienante è solo il pretesto per attribuirle, in qualunque dei casi, una forte valenza simbolica che descriva il disagio, l’incapacità di adattamento, la solitudine, l’ignoranza, la fatica del vivere, l’inadeguatezza, il fallimento.

La malattia arriva a determinare bisogni che non avremmo mai ipotizzato, impone nuove abitudini, predispone ad ottiche e visuali diverse. Obbliga a fermarsi e rendersi consapevoli che le scansioni e le modalità di prima vanno necessariamente superate per virare verso una nuova dimensione. La malattia non è solo un proiettarsi verso nuovi pensieri ma anche un immergersi nei ricordi del passato, perché ciò che è stato è più rassicurante del divenire e i ricordi sono, in questa circostanza, un cementante con la vita. L’opera principe in cui il luogo di malattia diventa l’ambientazione assoluta del romanzo stesso è ‘La montagna incantata’ (1924) di Thomas Mann. Il sanatorio di Berghof a Davos, nelle Alpi svizzere, è la scena in cui si affacciano le esistenze di Castorp, ingegnere navale, suo cugino Ziemssen, militare, e altri personaggi, costretti all’isolamento in quei paradisi montani perchè affetti da malattie polmonari. La malattia rappresenta, in questo caso, l’allontanamento dalla vita attiva, dalle carriere promettenti, dal mondo produttivo e dalla guerra, che costringe a rimanere sospesi in un limbo, un mondo asettico quasi avulso dalla realtà. Un mondo che catturerà Castorp e gli farà decidere di rimanere anche dopo l’avvenuta guarigione, a differenza del cugino che uscirà a dispetto del parere medico per morire poco dopo.

Nel romanzo di Paul Bowles, ‘Il tè nel deserto’ (1949), la malattia arriva come un’improvvisa ombra nera a destabilizzare e cambiare le carte in tavola. Port Moresby, la moglie Kit e l’amico George Tunner arrivano a Tangeri un pomeriggio del 1947, giovani e spensierati viaggiatori carichi di energie, desiderosi di fare ogni esperienza possibile. Intrecciano i loro destini tra vicende ambigue, infedeltà, spostamenti, paesaggi stupendi, culture diverse e sentimenti contrastanti. Port contrae il tifo e muore in un forte della legione straniera francese, coperto dalla sabbia del deserto e dall’indifferenza, tra le braccia della moglie incredula e impotente. La malattia è arrivata a spezzare ogni possibilità di chiarimento, comprensione, perdono. Rimane solo rimpianto e lo leggiamo nell’ultima scena del romanzo: “ Non sappiamo quando moriremo e quindi pensiamo alla vita come un pozzo inesauribile. Eppure tutto accade solo un certo numero di volte. Quante volte ricorderemo un certo pomeriggio della nostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di noi che non potremmo nemmeno concepire la nostra vita senza? Forse quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante volte guarderemo sorgere la luna piena? Forse venti. Eppure tutto sembra senza limiti.”

Anche le grandi epidemie della storia hanno fornito un notevole spunto a molti autori, basti pensare alla descrizione manzoniana dell’ondata di peste del 1630 a Milano, che scatena atteggiamenti inspiegabili e ingiustificabili, pregiudizio e disordine. Gli stessi pregiudizi e gli stessi atteggiamenti irrazionali e folli vengono rilevati e abilmente descritti in ‘Annus mirabilis’ (2009), l’avvincente romanzo di Geraldine Brooks in cui l’autrice racconta la storia di un villaggio dell’Inghilterra del 1665 e in particolare la vita di Anna Frith, durante la peste. Risorse, ingegno ed espedienti avventurosi sono la risposta alla malattia, alla disperazione e alla paura collettiva. In ‘La peste’ (1947) di Albert Camus, assistiamo a una grande epidemia nella città algerina di Orano, dove la prima avvisaglia è una spaventosa moria di ratti per poi propagarsi tra la popolazione. La città è isolata e la popolazione assume gli atteggiamenti più contrastanti, barricandosi in casa o abbandonandosi senza ritegno ai piaceri della vita quotidiana. Il medico francese Bernard Rieux si impegna a dare il suo contributo per arrestare la virulenza e alla fine applica un nuovo siero che rallenta il contagio fino all’epilogo, incitando alla cautela perché convinto che il bacillo potrebbe ancora agire nel futuro. La peste diventa, per Camus, l’allegoria del male e della guerra, due aspetti sempre latenti nelle vicende umane.

La peste di Edgar Allan Poe nel racconto ‘La maschera della Morte Rossa’ (1842) contiene un significato di malattia e morte più universale, che lega le esistenze di tutti, accomunati nella precarietà della vita, sottolineando l’assoluta imparità del destino finale, una sorta di giusta eguaglianza che azzera livelli e appartenenze. Il principe Prospero invita amici e cortigiani a rinchiudersi nel suo palazzo per sfuggire alla minaccia della peste. Dopo cinque mesi viene indetto un ballo in maschera nel corso del quale fa la sua apparizione una misteriosa figura avvolta in una cappa macchiata di sangue e il volto coperto. Prospero la affronta ma immediatamente perde la vita. I presenti tolgono il costume al personaggio e sotto non c’è nulla. La Morte Rossa è entrata a palazzo e colpirà tutti. La malattia mentale trova terreno fertile in letteratura, che ne coglie gli aspetti più disparati e le sfaccettature più recondite. Patrick McGrath la racconta in ‘Follia’ (1996): è la sconvolgente storia di Stella, moglie del vicedirettore di un manicomio criminale, la cui vita si incrocia irrimediabilmente con quella di Edgar Stark, paziente dell’istituto, abile artista, manipolatore seducente, il cui fascino e la cui follia trascinerà ambedue in un vortice senza ritorno. Anche John Steinbeck in ‘Uomini e topi’ (1937) ci consegna la storia di due braccianti stagionali che si guadagnano da vivere passando di fattoria in fattoria nella California del 1929, in piena Depressione. George Milton e Lennie Small, che ha un ritardo mentale, affrontano insieme le difficoltà della vita, sognando di poter diventare proprietari di un po’ di terra. Ciò che accadrà non consentirà loro di realizzare il progetto ma farà capire al lettore l’empatia umana, la disponibilità, la comprensione verso la malattia e soprattutto la pietà. ‘Patrimonio, una storia vera’ (2007) è il bellissimo romanzo di Philip Roth che descrive la malattia del padre ottantaseienne lacerato da un tumore al cervello destinato a ucciderlo. La malattia si trasforma in un viaggio di accompagnamento del padre, pieno di paura, ansia, tenerezza, rabbia e amore, forza e fragilità che diventano anche i nostri sentimenti e le nostre emozioni pagina dopo pagina. Nell’interpretazione di Susan Sontag, ‘La malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza più onerosa. Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno della salute e in quello della malattia. Preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto buono, ma prima o poi ognuno viene costretto, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadino di quell’altro Paese.’

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Liliana Cerqueni

Autrice, giornalista pubblicista, laureata in Lingue e Letterature straniere presso l’Università di Lingue e Comunicazione IULM di Milano. E’ nata nel cuore delle Dolomiti, a Primiero San Martino di Castrozza (Trento), dove vive e dove ha insegnato tedesco e inglese. Ha una figlia, Daniela, il suo “tutto”. Ha pubblicato “Storie di vita e di carcere” (2014) e “Istantanee di fuga” (2015) con Sensibili alle Foglie e collabora con diverse testate. Appassionata di cinema, lettura, fotografia e … Coldplay, pratica nordic walking, una discreta arte culinaria e la scrittura a un nuovo romanzo che uscirà nel… (?).

Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno. L’artista polesano Piermaria Romani si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE
di Piermaria Romani


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