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Usare il teatro, il processo teatrale, per innescarne un altro, quello di reinserimento nella società dopo aver scontato la propria pena, e per l’alfabetizzazione funzionale dei detenuti, per insegnar loro la cultura che si esprime attraverso la lingua dei testi teatrali che interpretano. Tutto questo – e altro ancora – è il progetto teatro-carcere, la pratica quotidiana di teatro che da otto anni Horacio Czertok e i suoi collaboratori del Teatro Nucleo portano avanti nella Casa Circondariale di Ferrara.
Per la seconda volta Horacio, gli attori-detenuti e tutti coloro che lavorano al laboratorio teatrale di via Arginone affrontano la sfida di portare la città dentro le mura del penitenziario: il 29 settembre alle 20.30, all’interno del programma di Internazionale a Ferrara, nella sala-teatro della Casa Circondariale ‘Costantino Satta’ andrà in scena ‘L’irresistibile ascesa degli Ubu’.
Lo hanno già fatto nel settembre 2016, sempre all’interno di Internazionale, con ‘Me che libero nacqui in carcer danno’, ispirato alla Gerusalemme Liberata di Tasso, con incursioni del ‘Combattimento di Tancredi e Clorinda’ di Claudio Monteverdi. (Leggi qui l’articolo di Giorgia Mazzotti)

Una sfida nella sfida perché, a causa del tempo richiesto per l’autorizzazione all’ingresso, la biglietteria è aperta già da luglio e le richieste di partecipazione dovranno arrivare entro il 31 agosto e non oltre (costo del biglietto 10 euro, maggiori info per la prenotazione qui).
Proprio da qui comincio la mia intervista con Horacio Czertok, regista dello spettacolo insieme a Davide Della Chiara, con una domanda un po’ provocatoria: perché un normale cittadino dovrebbe affrontare la trafila – comunicazione dei propri dati, regole di condotta, controlli, etc – per venire a vedere il vostro teatro in carcere?
E lui, più che abituato a questo genere di domande, non ha dubbi sulla risposta: “Perché è un atto di civiltà. Noi, gli educatori, i detenuti, la polizia penitenziaria, siamo tutti coinvolti in un processo di trasformazione sociale e abbiamo bisogno del sostegno della città e i cittadini, quindi chi viene a vedere il teatro in carcere fa un gesto socialmente forte. È il vostro carcere, sono i cittadini a pagarlo, quindi venite a vedere come cerchiamo di cambiare le cose e come le persone cercano di cambiare se stesse. L’altro aspetto, infatti, per nulla secondario, è che questi sono spettacoli belli, di buon artigianato, fatti da persone che ci mettono tutte se stesse per essere viste come persone che stanno provando a cambiare: non ci interessa l’applauso ‘peloso’, come lo chiamo io. Io, Davide, gli attori, vogliamo un applauso entusiasta, vogliamo che al pubblico arrivi quel qualcosa che fa dire “Bravi!”, non “Poverini”: il teatro spinge a un gioco di autenticità, lì sta il riconoscimento della loro dignità. Noi non selezioniamo nessuno: una volta che loro hanno chiesto di partecipare alle nostre attività e sono stati ritenuti idonei, vengono e lavorano con noi, mettendosi alla prova e studiando il testo e incarnandolo. Questo li cambia: la necessità di essere autentici e convincenti”.

Parliamo allora dello spettacolo: ‘L’irresistibile ascesa degli Ubu’. Un lavoro su Jarry e sulla sua Patafisica portato avanti insieme a tutta la rete del Coordinamento Regionale Teatro Carcere, che raggruppa sette penitenziari sui dodici dell’Emilia Romagna: “la Patafisica è la scienza delle cose possibili, uno sguardo non retto, ma laterale, che fa capire che il sopra e il sotto e tutto il resto in fondo sono solo convenzioni”.
Farsi beffe del potere, smascherarne i lati oscuri e le logiche perverse attraverso la finzione del palcoscenico, che alza il sipario sul reale e permette di osservarlo con sguardo critico e caustico, riconoscendo con ironia che quei lati oscuri si possono nascondere in ognuno di noi. “Oggi in giro ci sono parecchi Ubu, da Donald Trump a Kim Jong Un, senza contare gli Ubu italiani, ma io non cerco il teatro di attualità: il bello del nostro mestiere è che attraverso i personaggi possiamo di mettere in scena quei caratteri umani universali che attraversano le epoche, rendendoli riconoscibili nel tempo che stiamo vivendo”. “Jarry – continua Horacio – scrive alla fine del XIX secolo, prima della Prima Guerra Mondiale e delle dittature del Novecento, prendendo ispirazione dal Macbeth: ecco perché ritroviamo una coppia malefica, Père Ubu e Mère Ubu, assetati di potere, con lei che spinge questo guerriero, questo capitano, all’apparenza forte, ma che si rivela fragile e incapace di prendersi le proprie responsabilità, di affrontare le conseguenze delle proprie azioni. Cosa alquanto frequente anche ai giorni nostri, dove si fa a gara in quanto a irresponsabilità. Ha una visione ed è questa che ci interessa”.
Ubu – spiega Horacio – è un testo particolare che permette diverse interpretazioni, grottesche o tragiche. Nasce come un gioco, quando l’autore Alfred Jarry era ancora un ragazzo a Nantes, lui e alcuni suoi compagni di liceo con questo testo quasi per marionette si prendono gioco del loro preside, molto crudele e autoritario. Qualche anno dopo Jarry si trasferisce a Parigi per diventare un drammaturgo di successo e riprende in mano l’opera, che va in scena con grande scandalo perché tradisce tutti gli stilemi della drammaturgia teatrale del proprio tempo anticipando alcune delle caratteristiche del teatro dell’assurdo di Brecht”. Ecco perché il titolo è ‘L’irristibile ascesa degli Ubu’, “parafrasando ‘L’irresistibile ascesa di Arturo Ui’, il testo di Brecht contro l’irrefrenabile ascesa di Hitler al potere”.
“Quello che andrà in scena a fine settembre e sul quale stiamo lavorando da circa sei mesi è un primo studio: in pratica abbiamo diviso il testo in due parti e ora lavoriamo sulla prima, sull’ascesa degli Ubu, cioè come Ubu diventa re di Polonia. Da ottobre riprenderemo a lavorare e studieremo anche la caduta, perciò se tutto va bene a maggio porteremo al Teatro Comunale l’intera pièce: ‘Ascesa e caduta degli Ubu’. Chi assisterà a entrambi gli allestimenti potrà vedere come il lavoro si è evoluto: per esempio, per il primo studio di settembre stiamo preparando, sempre in carcere, alcune scenografie che però per il Comunale andranno ampliate”. Se le scenografie sono una novità, ci sarà invece ancora musica dal vivo, come in ‘Me che libero nacqui’: “è una sorta di musical”, scherza Horacio.
In scena ci sono circa una decina di detenuti attori: “uno zoccolo duro, che ha già esperienza”, come per esempio quelli che hanno lavorato allo spettacolo su Tasso, “e intorno alcuni nuovi arrivati, che imparano il mestiere attraverso il lavoro dei compagni, proprio come accadrebbe in una compagnia, dove si impara dai più esperti e dal capocomico”.

Foto di Marinella Rescigno
Foto di Marinella Rescigno

Tornando all’esperienza del teatro carcere in generale, chiedo a Horacio come si lavora nel laboratorio: il metodo cambia a seconda dei testi affrontati?
“Il metodo non cambia, ma cambiano gli aspetti sui quali concentrarsi. Lavorare sul Tasso e sulle sue ottave è diverso rispetto a lavorare sulla lingua di Jarry: il testo è meno evocativo, più terra terra e quindi, se vuoi, più rischioso, rispetto a quello ricercato e aulico della ‘Gerusalemme liberata’, che in un certo senso protegge perché è bello già di per sè. La parola di Jarry è più povera dal punto di vista poetico, ma più diretta, più ruvida e graffiante, fatta apposta per irritare gli spettatori. Ed è su questo che abbiamo lavorato: la parola vicina alla realtà”.

Come si fa a trasmettere tutto questo ai partecipanti, a coinvolgerli, su autori, testi e temi molte volte lontani da tutto ciò che per loro è familiare?
“Lo si fa con grande sforzo, ma il lavoro è proprio questo. Per i detenuti il processo teatrale implica uno sviluppo educativo forte: quella fatta attraverso il teatro è alfabetizzazione funzionale, cioè permette di imparare non solo la lingua, ma la cultura che sta dietro, proprio perché la parola a teatro è fondamentale. E nello stesso tempo, attraverso il confronto con i compagni di laboratorio, c’è un confronto fra culture diverse e così ognuno può vedersi attraverso gli occhi dell’altro: l’integrazione, la crescita, le interazioni, avvengono perché l’altro diventa meno straniero e tu ti senti più straniero a te stesso e ti metti in discussione.
Inoltre, a mio avviso, fare teatro in carcere permette al teatro stesso di riflette su stesso e crescere: è un lavoro culturale, per trasmettere loro tutta una serie di nozioni e farli entrare dentro al testo, farli andare in profondità. Per far questo però, prima abbiamo dovuto pensare alle caratteristiche distintive di quell’autore e di quel testo.
Il fatto che gli attori detenuti non sappiano chi è Jarry, come non sapevano chi era Tasso e quasi nessun altro della biblioteca teatrale, nostra e spesso della loro cultura d’origine, è un aspetto positivo perché sono completamente aperti e vergini, non hanno pregiudizi. Per loro non è un problema ammettere la propria ignoranza e questo è un primo passo per crescere, perché non si devono difendere e non pensano a come gli altri li giudicano per il fatto che non sanno chi è Jarry. Si mettono sotto e lavorano e imparano.
Infine, spesso il teatro offre loro una visione critica, senza ipocrisie, senza infingimenti, della società e attraverso la finzione del teatro arriva una sorta di oggettivazione delle storture di questo modello di società”.

L’irresistibile ascesa degli Ubu
29 settembre Casa Circondariale di Ferrara – ore 20.30
Prenotazione obbligatoria entro il 31 agosto

Nell’ambito del programma ufficiale del Festival di Internazionale a Ferrara
Compagnia dei detenuti-attori del Teatro della Casa Circondariale “Costantino Satta” di Ferrara.
Regia: Horacio Czertok e Davide Della Chiara
Drammaturgia, progetto scenografico, musica: Davide Della Chiara

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Federica Pezzoli

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Ogni giorno politici, sociologi economisti citano un fantomatico “Paese Reale”. Per loro è una cosa che conta poco o niente, che corrisponde al “piano terra”, alla massa, alla gente comune. Così il Paese Reale è solo nebbia mediatica, un’entità demografica a cui rivolgersi in tempo di elezioni.
Ma di cosa e di chi è fatto veramente il Paese Reale? Se ci pensi un attimo, il Paese Reale siamo Noi, siamo Noi presi Uno a Uno.  L’artista polesano Piermaria Romani  si è messo in strada e ha pensato a una specie di censimento. Ha incontrato di persona e illustrato il Paese Reale. Centinaia di ritratti e centinaia di storie.
(Cliccare sul ritratto e ingrandire l’immagine per leggere il testo)

PAESE REALE

di Piermaria Romani

 

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